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Fiori di maggiociondolo.  Foto P.M. Guarrera Fiori di maggiociondolo. Foto P.M. Guarrera

Note di etnobotanica

Fiori ed alberi, piante ed erbe sono indissolubilmente legati al cammino dell'uomo attraverso i secoli ed alle sue varie civiltà, dal legno utilizzato non solo per riscaldarsi e illuminare la notte, ma anche per costruire attrezzi da lavoro e ricoveri, a fiori ed erbe di feste e cerimonie, ma anche di unguenti, decotti e impiastri curativi, con formule spesso antiche eppure a volte ancora straordinariamente attuali.

Tra le piante a cui si attribuiscono poteri magici vi è il noce (Juglans regia), il cui nome latino significa ghianda di Giove, dunque già consacrato nell'antichità ad un dio pagano. Successivamente nella fantasia popolare è diventata pianta delle streghe, forse per la demonizzazione dell'antico culto. Si dice infatti che porti male dormire sotto un noce. Per la sua valenza magica la pianta è utilizzata anche per avere auspici sul futuro. Il famoso liquore Nocino si prepara con noci raccolte la notte di S.Giovanni Battista o il giorno della festa (innestata su presistenti riti pagani del solstizio estivo). Altre piante considerate magiche erano la ruta, il sambuco, l'aglio, alcune orchidee.

Varie erbe erano considerate scacciaguai, cioè si riteneva allontanassero le disgrazie. Tra queste: l'iperico o scacciadiavoli (Hypericum perforatum). Contro il malocchio si adoperavano piante collegate in qualche modo ad usi rituali (olivo, grano) o dotate di appendici spinose, per la "magia delle punte" (es. rovo, pruno selvatico ecc.) o provviste per lo stesso motivo di parti florali imitanti cornetti, ad es. speroni, come varie specie di Stachys (tra cui la Stachys officinalis, la famosa betonica del Medio Evo detta anche antistregona nelle Marche), la fanciullaccia (Nigella damascena) e la speronella consolida (Consolida regalis).

Secondo usanze radicate da millenni alcune cure empiriche di malattie avvenivano per analogia. Così, in caso di itterizia, malattia che causa un ingiallimento della pelle, si urinava sopra una pianta di verbasco, dai fiori gialli, dello stesso colore della pelle dell'ammalato, per trasmettere il male alla pianta. Alle donne incinte si usava far odorare la matricale (Tanacetum parthenium) oppure la si faceva mangiare dopo il parto o la si poneva nelle stanze delle partorienti.

Con alcune piante sono preparati rudimentali falò rituali in occasioni di feste particolari. Si ritiene tuttora che alcune pratiche agricole vadano svolte quando la luna è in fase calante. Secondo gli informatori se alcune piantagioni orticole (sedano, insalate, cavolfiori ecc.) non sono effettuate con tali indicazioni, le piante crescono molto in altezza sviluppando assai stelo e fiore e non sono più adatte alla raccolta. A luna calante si dovrebbero eseguire anche il taglio della legna - in particolare di quella da costruzione -, il travaso del vino nuovo, la raccolta di frutti e ortaggi (pena il rovinarsi di una parte del raccolto), e anche le potature.

Si ricorda che, in caso di ferite da taglio, si applicavano sulla pelle, un po' in tutta l'Italia, foglie di piantaggine o di rovo; sulle Alpi le oleoresine di alcune conifere; su quelle Nord-Orientali la scorza di larice (Larix decidua), colta a primavera, mentre in Italia centrale la scorza di olmo (Ulmus minor). In Val Tramontina (Pordenone) si ponevano sui tagli scaglie di bulbi di aglio e conidi di muffe (pennicilli) cresciuti sulla polenta ammuffita: da questi ultimi, negli anni '30 del Novecento, è stato ricavato l'antibiotico pennicillina! Un uso tradizionale per le scottature, già citato dall'antico Dioscoride e dimenticato nei secoli dalla medicina "colta", ma rimasto invece vivo nella memoria popolare, è quello della pomata preparata con midollo di sambuco, cera vergine e olio.

Le foglie di molte piante aromatiche e i bulbi di aglio e cipolla, per il contenuto di olii essenziali, sono tuttora considerati rimedi antiinfiammatori, da strofinare sulla pelle in caso di punture di insetti. La cipolla è conosciuta comunemente come diuretico, ma l'uso del decotto contro la tosse è di stampo popolaresco. Contro la pressione alta è assai diffuso, non solo in Italia, ma anche in vari paesi dell'Europa mediterranea, l'uso di tisane a base di foglie di olivo. Nel dolore di denti era uso comune fare ricorso a impiastri di malva (Malva sylvestris). In caso di febbre si bevevano decotti in acqua o vino (vin brulé) di fiori di tiglio, sambuco, camomilla, o anche (Italia centro-meridionale) decotti mucillaginosi di mele, fichi secchi, carrube, farfara ecc. Nelle affezioni dell'apparato digerente si adoperano specie digestive e rinfrescanti: malva, cicoria, borragine, gramigna, ortica.

Pianta di Ruta d'Aleppo

Nell'Abruzzo teramano la donna incinta mangiava tre o nove cime di ruta (Ruta graveolens), per immunizzarsi dai malefìci. La pianta, che a certe dosi è velenosa e provoca l'aborto, ma è anche utile contro i vermi intestinali, ed è tuttavia dall'odore assai sgradevole, era considerata una sorta di vaccino vegetale. Una sostanza che contiene, denominata rutina, è attiva contro la fragilità dei vasi capillari. Dopo la nascita il bambino era in passato, in molte regioni, immerso in un bagno a base di erbe (es. il rosmarino) a cui era attribuito il potere di irrobustirlo. Nelle Cinque Terre (Liguria) e in Versilia (Toscana) la biancheria in cui erano avvolti i neonati era esposta al fumo aromatico e antisettico dell'elicriso (Helichrysum italicum). Il decotto delle cime fiorite della stessa pianta era usato come tonificante per i bambini che cominciavano a camminare (Versilia).

Un particolare uso abruzzese relativo ai rituali di fidanzamento riguarda il maggiociondolo (Cytisus laburnum), un albero dai fiori giallo-dorati. Fino agli inizi del Novecento i giovani contadini, nella notte delle calende di maggio, ne piantavano un ramo vicino alla porta delle ragazze di cui erano innamorati. Se il mattino seguente la ragazza accettava il ramo ponendolo sulla finestra, era segno che l'amore era corrisposto. Dal nome popolare della pianta e dal periodo primaverile derivava poi il nome delle nozze, dette per l'appunto majume.

La caratteristica usanza dei fiori di arancio (Citrus aurantium) nell'abbigliamento delle spose deriva da una tradizione araba. All'epoca delle Crociate i cavalieri cristiani, rientrando in patria, diffusero l'usanza di donare nel giorno delle nozze, alla sposa, i fiori d'arancio. Questi erano considerati simbolo di fecondità dai Saraceni, in quanto danno luogo nell'albero a una ricca produzione di frutti. A Villa Potenza (Macerata) chiunque si recasse ad onorare un defunto giacente sul letto di morte, prendeva due ramoscelli di olivo benedetto, legati a croce, li immergeva in acqua benedetta e ne spruzzava il corpo del defunto, recitando una preghiera rituale.

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