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Articoli filtrati per data: Aprile 2014

Madonna Incoronata a Santa Croce di Magliano

Scarciacappa

ULTIMO SABATO DI APRILE

La Madonna Incoronata

La Madonna alla quale si riferisce la festa dello Scarciacappa di Santa Croce di Magliano (Campobasso) è l'Incoronata di Foggia. Il culto dell'Incoronata ha il suo riferimento di fondazione nel racconto del prodigio avvenuto nel bosco del Cervaro, all'alba dell'ultimo sabato di aprile del 1001. Secondo la tradizione, la Madonna appare su una grande quercia, incoronata da due angeli, e indica a un cacciatore, il conte di Ariano Irpino, la statua che la rappresenta, chiedendogli di edificare in quel luogo una chiesa che possa contenere il simulacro. Il primo ad assecondare la richiesta di venerazione è un contadino, detto in Puglia Strazzacappa (in Molise Scarciacappa), che non esita a offrire il proprio olio per fare, con la pentola di rame, "caldarella", una lampada da appendere a un ramo dell'albero.

La quercia diviene in tal modo un provvisorio tempio arboreo della Madonna, alla quale viene eretto in seguito un edificio sacro, che nel tempo diviene meta di pellegrinaggi da tutta la Puglia e dalle regioni limitrofe, pellegrinaggi non solo devoti ma anche festosi: «[...] groups returning from the feast of the Madonna dell' Incoronata; a sanctuary yielding in antiquity, but equal in sanctity and fame, to that of St. Angelo. The majority of these were peasants, who, stimulated by a sense of devotion, or the mere love of amusement and novelty, had traversed a distance of seventy or eighty miles to perform this pilgrimage; which, if I may judge by their countenances, was any thing but a painful one».

Il simulacro ligneo dell'Incoronata di Foggia, di stile bizantino, rappresenta una madonna dal volto scuro, simile a quelle portate dai monaci basiliani durante la persecuzione iconoclasta e, nell'epoca delle crociate, dagli ordini cavallereschi, soprattutto dai templari, legati alla figura di Bernardo di Chiaravalle. Bernardo, predicatore della seconda crociata, nel commento al Cantico dei Cantici avvalora, e in qualche modo giustifica, questa immagine di Maria: «Quia, inquit, exsultatis in me, et post me curritis, ne attendatis quod nigra sum, id est sobria vobis: vel nigra sum in humilitate et pressuris mundi, quia formosa sum in oculis sponsi, quia decoloravit me sol. In cute corporis color apparet» . La statua della Madonna Incoronata, portata in processione a Santa Croce di Magliano, a differenza del simulacro di Foggia, ha il volto bianco. In base alle raffigurazioni collegate al racconto tradizionale, la Vergine è posta al centro della quercia, affiancata da due angioletti, in basso a destra vi è lo "Scarciacappa" con la pentola di rame, a sinistra la coppia di buoi aggiogati.

La festa dell'Incoronata a Santa Croce di Magliano

La devozione dei molisani verso l'Incoronata trova le sue radici nella transumanza. Il santuario di Foggia, per la centralità rispetto ai vari tratturi del tavoliere pugliese e per la forte valenza religiosa, è stato infatti luogo privilegiato di sosta e di festa dei pastori, prima del ritorno nelle loro terre d'origine. La processione dell'ultimo sabato di aprile in onore della Madonna dell'Incoronata, a Santa Croce di Magliano , oltre ad esprimere il sentimento religioso, è anche una rievocazione del lavoro pastorale e una celebrazione dello stretto rapporto tra uomini e animali.

La benedizione degli animali assume infatti, nella festa, un ruolo centrale. I preparativi iniziano nei giorni precedenti, e impegnano i proprietari in una particolare cura degli animali che verranno portati in processione. Si rinnova in questa occasione il legame tra uomo e natura, in una sorta di ulteriore addomesticamento, effettuato attraverso l'abbellimento delle bestie, festosamente ornate. L'animale diviene un alter ego del padrone, e deve rappresentarlo nel migliore dei modi. Non si tratta tanto di una umanizzazione, quanto di uno scambio profondo, che dallo spazio del lavoro, sia esso ancora in atto o passato, si trasferisce nello spazio della festa. Il legame con gli animali caratterizza gran parte delle tradizioni del Molise, ed è alla base di un'ideologia fortemente connessa con il territorio e con la natura, nei suoi molteplici aspetti. Nonostante gli inevitabili cambiamenti sociali ed economici dal secondo dopoguerra ad oggi, e forse proprio a causa di essi, riemerge l'esigenza di sancire, nella festa, il rapporto fondamentale tra uomo e natura. Gli animali divengono quindi icone devozionali viventi, da curare e adornare al pari dei simulacri religiosi.

La festa prevede anche l'importante contributo delle donne, che si prodigano per la preparazione della treccia, un formaggio a pasta filata modellato a forma di nastro intrecciato. La treccia è un elemento caratteristico della festa e viene indossato, a tracolla, da cavalieri, pastori e altri partecipanti. Questo ornamento alimentare rappresenta il prodotto stesso del lavoro comune tra uomo e animale, una collana preziosa da esibire in segno di abbondanza e di auspicio per le attività produttive. Nel dispiegamento di questi beni, si rende grazie a ciò che ancora garantisce la sopravvivenza, mantenendo come simbolo di riferimento religioso un'immagine mariana che, con la sua collocazione arborea, ben esprime l'originaria sacralità della natura.

La processione

L'ultimo sabato di aprile, Santa Croce di Magliano partecipa intensamente a questa gioiosa celebrazione, che è uno degli eventi più importanti del ricco calendario festivo locale. Già dal mattino i bambini percorrono il corso principale, con i loro piccoli animali, preparati per la benedizione. Dopo la messa in onore dell'Incoronata nella chiesa di Sant'Antonio di Padova, santo che sarà festeggiato a giugno con una imponente processione di carri, il corteo degli animali si fa più intenso.

Le vie del paese sono completamente invase da greggi di pecore e capre, da buoi e cavalli: una vera e propria irruzione della natura nel centro abitato. Sfilano anche carretti con bambini trainati da cavallini e un camioncino sormontato dall'immagine della Madonna e dalla bandiera italiana, con un cartello recante la scritta "L'arca di Noè". Il camioncino trasporta gabbie contenenti animali da cortile, per completare la rappresentazione del mondo animale collegato al lavoro agricolo, pastorale e alla vita quotidiana.

I cavalieri sono vestiti a festa e indossano a tracolla la treccia di formaggio, che sarà poi distribuita in pezzi e consumata, in una condivisione collettiva d'un cibo significativo per tutta la comunità. La dimensione sonora è segnata dallo scalpitio dei cavalli, dai versi degli animali, dai campanacci e dallo schioccare delle fruste, dette "sagliocche", che costituiscono un tratto distintivo della partecipazione alla festa, in quanto strumento di comando e guida, riferito alla capacità di addomesticamento, prerogativa generalmente rientrante nella sfera maschile. Il corteo si dirige verso la chiesa di San Giacomo, dinnanzi alla quale il sacerdote si prepara per la benedizione, che avrà inizio con gli animali più piccoli, condotti dai bambini. Prima di essere benedetti, gli animali devono compiere tre giri rituali intorno alla chiesa.

Lo Scarciacappa

Al termine delle benedizioni, la processione dell'Incoronata si apre con lo Scarciacappa, che nel simulacro presenta il volto estasiato dall'apparizione, mentre nell'impersonazione è un uomo ricoperto da una veste nera, con il viso completamente oscurato. Lo Scarciacappa è accompagnato da una coppia di buoi aggiogati, con l'aratro capovolto, sul quale sono appesi un paiolo e una lanterna, a ricordo dell'evento miracoloso.

Il buio nel quale avanza lo Scarciacappa rievoca l'oscurità dell'inverno, stagione sospesa dalla quale scaturisce la rinascita primaverile, ma potrebbe anche riferirsi all'accecamento provocato dalla teofania della Madonna, dal suo insostenibile splendore, splendore che sembra trasferirsi nel luminoso bianco dei buoi. In generale lo Scarciacappa, al di là del suo collegamento con il racconto del prodigio, è una figura dalle valenze demoniache, che compie la sua uscita dagli inferi con la guida di questi candidi animali, rinnovando in tal modo il contrasto tra la morte e la vita.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Feste e Riti d'Italia)


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (28 aprile 2007)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Sant'Anastasio ad Acquaviva d'Isernia

Focata d'inverno

21-22 GENNAIO

Sant'Anastasio

Magundat, figlio di un sacerdote zoroastriano e soldato dell'esercito persiano, viene affascinato dalla venerazione dei cristiani per la croce. Si reca dunque a Gerusalemme e riceve il battesimo, assumendo il nome di Anastasio, "il risorto", per indicare l'avvenuta conversione. Dopo aver praticato la vita monastica, è catturato dai persiani a Cesarea di Palestina e sottoposto a tormenti affinché abiuri.Viene infine portato in Assiria, dove è strangolato e decapitato, nella prima metà del VII secolo

Il suo capo e la sua immagine sono traslati a Roma, nel monastero detto ad Aquas Salvias,oggi chiesa intitolata ai Santi Vincenzo (martire spagnolo morto agli inizi del IV secolo) e Anastasio, nel complesso abbaziale delle Tre Fontane. Il Messale Romano del 1570 ha accomunato i due santi nella celebrazione, il 22 gennaio. Nel 787 il II Concilio di Nicea stabilisce le virtù taumaturgiche dell'immagine di Sant'Anastasio contro demoni e malattie. Il culto di Sant'Anastasio in Italia viene diffuso dal re longobardo Liutprando nel secolo VIII.

La ricorrenza di Sant'Anastasio cade in un periodo dell'anno caratterizzato da tradizioni legate al fuoco, in alcune regioni d'Italia anche San Vincenzo, martirizzato con il fuoco, viene commemorato con l'accensione di falò. In ambito locale si può notare come Acquaviva d'Isernia risulti, fino al 1064, tra i possedimenti del complesso monastico di San Vincenzo al Volturno, dove è inoltre raffigurata, in uno degli affreschi altomedioevali della cripta di Epifanio, la santa Anastasia di Sirmio, arsa viva, secondo l'agiografia, agli inizi del IV secolo.

La festa di Sant'Anastasio ad Acquaviva d'Isernia

Sant'Anastasio, patrono di Acquaviva d'Isernia (Isernia), viene festeggiato con un falò notturno e una processione religiosa. Il 21 gennaio, vigilia della ricorrenza, gruppi maschili formati prevalentemente da giovani raccolgono, nelle campagne circostanti, grandi quantità di rami di ginepro, un arbusto dalle bacche particolarmente aromatiche e facilmente infiammabile.

La raccolta è caratterizzata da un'atmosfera festosa e si gareggia nell'estirpazione dei rami. Il ginepro viene trasportato in paese e ammassato ai piedi della scalinata che conduce alla chiesa di Sant'Anastasio, intorno a una croce di ferro. Le fasi della preparazione e dell'accensione costituiscono un'occasione di confronto tra i partecipanti, impegnati a dimostrare la loro forza e le loro capacità nel controllo del fuoco, in una situazione che richiede coraggio e abilità per destreggiarsi tra le fiamme. L'accensione, che ha luogo la sera, rappresenta il momento culminante della festa: i giovani, tra i rami infuocati, esprimono il loro entusiasmo per la riuscita del falò.

Nella piazza, invasa dal profumo del ginepro, la folla assiste alle evoluzioni delle fiamme, accentuate dalle esplosioni dei fuochi pirotecnici, e alcuni uomini si sfidano in prove di forza sollevando tronchi. La statua del santo viene collocata dietro le porte spalancate della chiesa, rivolta verso il fuoco, e riceve la devozione di alcuni fedeli. Il falò continua per tutta la notte. La mattina del giorno successivo, ai piedi della scalinata, restano soltanto le ceneri. La banda percorre le vie del paese e viene effettuata la questua per la festa. Dopo la messa, ha luogo la processione con il trasporto della statua di Sant'Anastasio.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: E. De Simoni (21 e 22 gennaio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Sant'Anna a Jelsi

Festa del grano

26 LUGLIO

Sant'Anna

I vangeli canonici ignorano Sant'Anna. Solo quelli apocrifi parlano del pastore Gioacchino "appartenente alla tribù di Giudea" (Vangeli apocrifi. La Natività e l'infanzia, a cura di A.M. Di Nola, 1979), il quale, da giovane, aveva preso in moglie Anna "della stirpe di Davide". Dopo ben venti anni di matrimonio, Anna non gli aveva dato figli. Ciò costò a Gioacchino una pubblica offesa: "Non ti è lecito stare in mezzo a quelli che presentano sacrifici a Dio - gli fu detto un giorno nel Tempio -, poiché Iddio, non concedendoti prole, non ti ha benedetto". Così Gioacchino, umiliato e triste, abbandonò la moglie e si ritirò nel deserto. Anna si disperò e invocò l'aiuto del Signore. Dio l'ascoltò e le inviò un angelo: "Non temere, Anna [...], ciò che nascerà da te sarà meraviglia per tutti i secoli". Poi l'angelo andò da Gioacchino: "Sono apparso oggi a tua moglie [...]. Sappi ch'ella ha concepito una figlia dal tuo seme. Costei [...] supererà in beatitudine tutte le sante donne, così che non si potrà dire che ve ne fu mai eguale a lei". Allora Gioacchino tornò a casa felice. "E, quando i giorni furono compiuti, Anna si lavò della sua impurità, e diede il seno alla bambina, e le impose il nome di Maria".

La Grande Madre

Sant'Anna è la madre della Madonna, cioè la nonna di Gesù. In tal senso rappresenta la Grande Madre, la generatrice per eccellenza, poiché partorì colei che poi diede alla luce il Figlio di Dio (Dio egli stesso). È, dunque, per il Cattolicesimo, la più alta rappresentante della fecondità. Questa santa, sulla scorta d'un processo sincretico, può essere interpretata come il nuovo aspetto d'una preesistente dea pagana protettrice della fertilità della terra mater, alla quale si ricorre per auspicare il fruttuoso esito del lavoro agricolo.

Quale antica dea può dirsi omologa di Sant'Anna? Si potrebbero menzionare più divinità, tra cui la sannita Amma (Ammaì kerrìiaì), la presunta "mamma con figlia affianco" della Tavola Osca. Occorre tuttavia ogni cautela nell'individuare rapporti di discendenza tra gli antichi culti e quelli contemporanei e tra le antiche divinità e quelle odierne; ciò sia sul piano funzionale che ideologico. Infatti, non esiste alcuna comprovata profondità storica che possa collegare inconfutabilmente e in modo diretto le cerimonie religiose greche, sannite e latine con gli attuali riti folklorici molisani. Amma parrebbe la più affine a Sant'Anna (e ciò, al di là della vicinanza grafica), ove valga l'interpretazione che classifica Ammaì quale Magna Mater, qualifica che, in unione all'epiteto kerrìiaì ne fa davvero la Grande Madre del Grano (ossia la Nonna del Grano).

Le traglie di Jelsi

Una delle caratteristiche della festa di Sant'Anna a Jelsi è l'uso di particolari mezzi di trasporto, delle slitte dette traglie (dal latino trahere).

La traglia (treggia) è un arcaico carro senza ruote che scivola su due pattini di legno, chiamati soglie, sui quali poggia un piano di carico. In occasione della festa, le slitte sono decorate con spighe di grano, gran parte delle quali sono state ripulite e tenute a lungo in acqua per essere rese morbide e manipolabili. Le spighe vengono intrecciate artisticamente in modo da ottenere prestabilite figurazioni. Le figure più in uso sono:

1. il pallone, una figura sferica ricoperta di grano e infilata in cima ad un bastone. Il pallone è solitamente decorato con nastri colorati;

2. la nicchia, formata da arbusti modellati e retti da fili di ferro. La struttura è coperta e al suo interno trova posto una bambola: simbolo delle fecondità femminile;

3. la conocchia, con grano e fiocchi, ha la forma dell'omonimo oggetto un tempo usato per filare. È il simbolo del lavoro domestico.

4. la pelomme, una sorta d'edicola votiva con l'immagine di Sant'Anna insieme alla figlia Maria; oppure contiene una bambola. A volte alla pelomme sono appese dei latticini (scamorze).

Vi sono anche altre figurazioni: il ventaglio con cui si orna la testa dei buoi a mo' di pennacchio; il bastone, una sottile pertica alla cui estremità si pongono "dei festoni a forma di pigna" (Antonio Valiante, Le stagioni del seme santificato: studio sulla festa del grano a Jelsi e nell'Italia centro-meridionale, 1988); il matteglie (mazzetto di spighe), la croce; l'ombrello e altri oggetti.

Anche le vie e le piazze, nei giorni della festa, sono addobbate con grano intrecciato. La sfilata delle traglie è aperta da Sant'Anna, la cui statua è posta su un carro di grosse dimensioni. Oltre alle traglie, infatti, percorrono le vie del paese anche carri agricoli a trazione meccanica. Completano il corteo animali da soma che sulla groppa trasportano un carico cerealicolo e donne in costume che portano covoni di grano. Si nota anche la presenza di carri 'in miniatura', vale a dire quelli dei bimbi che li fanno trainare da pecore, capre o cani.

L'origine della festa

La tradizione orale jelsese (cui si rifanno anche fonti scritte) sostiene che la festa di Sant'Anna sia nata il giorno del sisma del 26 luglio 1805, ovvero che in detta data gli abitanti di Jelsi "fecero voto di solennizzare" la Madre della Vergine Maria affinché li proteggesse da calamità future. Infatti, nel 1905 fu celebrato il Centenario della Festività di S. Anna in Jelsi. Però, almeno per quel che concerne l'uso delle traglie, l'anno d'esordio della sagra sembrerebbe essere il 1814. Ecco quanto afferma in proposito Vincenzo D'Amico (Jelsi e il suo territorio, 1953):

Dal 1814, il 26 Luglio, giorno di S. Anna, si radunano entro l'abitato i carri agresti locali a slitta detti traglie (tregge) ed a ruota, onusti di bionde spighe, d'edera e di variopinti nastri adornati nonché di asteroidi di pendaglietti ed anche di figurazioni floreali e faunistiche di paglia, tratti da una due tre coppie di buoi dalle lunate eminenze di ghirlande redimite, con sopra leggiadre forosette nelle antiche vesti, caratteristiche per le strette piegoline della gonna e per gli sgonfi alle braccia.

Sotto la guida di villici, essi pure paludati dei panni degli avi, procedono fra due file di grossi festoni in lunga teoria di oltre un chilometro fino ad un'aia, per tornarne vuoti ai vari poderi, non appena i loro carichi, sistemati in alte biche abbiano ricevuta dal sacerdote l'aspersione delle acque lustrali. Precedono i veicoli a piedi canofore graziose ed aitanti dai seni opulenti malcontenuti dai serici variati corsaletti. E tutto fra canti, suoni e scoppi di ritmati petardi. La manifestazione, valorizzata da ripresa cinematografica, assume d'anno in anno importanza turistica sempre più grande.

Lo stesso D'Amico, pur collegando la festa delle traglie alla devozione per Sant'Anna - culto che, evidentemente, trovò slancio e nuovi proseliti in tutto il Molise proprio a causa del terremoto del 26 luglio 1805 - ne fa scaturire l'origine non già dalla data del sisma, bensì dall'anno 1814, e ciò - a suo dire - a causa di un violento "uragano" che colpì Jelsi nei giorni 24 e 25 luglio di quell'anno. Egli scrive:

Dopo il tremuoto del 26 luglio 1805 ed in ispecie dopo un pauroso e persistente uragano del 24 e 25 luglio 1814, ad opera dell'arc. Granata s'impose per solennità la festa di S. Anna, favorita dalla buona stagione e dalle offerte di grano in carichi di spighe.

Le parole usate da D'Amico sembrano indicare inequivocabilmente che solo "dopo il tremuoto" si affermò la festa in onore della Madre di Maria, e che essa divenne cerealicola a seguito d'una calamità naturale diversa dal sisma, ossia l'uragano del luglio 1814. Tale ultima circostanza è avvalorata dal fatto che colui che operò l'inserimento dell'elemento agrario nel rituale religioso fu Pasquale Granata, arciprete di Jelsi dal 1809 al 1822 (quindi "dopo il terremoto"). Il 26 luglio 1805, infatti, era arciprete Alessandro Eletto.

Che il 1805 non sia l'anno d'inizio della festa "con l'offerta votiva del grano" ma che tale offerta si manifestò "più tardi", lo asseriscono altre fonti (Cfr. G. Santella, S. Anna tra storia e leggenda, «Jelsi. Voci e immagini della tua terra», n. 2, dicembre 2003, pp. 14-16.):

Molti paesi [il 26 luglio 1805] furono devastati da un evento sismico di notevole intensità: circa 6000 le vittime, paesi interamente rasi al suolo [...]. Al confronto Jelsi se la cavò bene. È vero che subì notevoli danni, ma registrò solo 27 morti fra la popolazione. Furono in molti a vedere in ciò un intervento divino e, nella fattispecie, l'intercessione miracolosa di S. Anna, la cui ricorrenza cadeva proprio in quel fatidico giorno. Nacque da allora nei confronti della santa un sentimento di gratitudine popolare che aumentò progressivamente negli anni, e che culminò più tardi con l'offerta votiva del grano (A. D'Uva, Tutto pronto a Jelsi per la festività di S. Anna, «Molise Oggi», n. 23, 21 luglio 1985, p. 13).

A negare quanto sostenuto dalla tradizione orale, giova una semplice riflessione che può farsi sull'ora del terremoto del 26 luglio del 1805, che avvenne quando le ombre della sera avevano ormai coperto il Contado, cioè

...alle ore due ed undici minuti della notte; centro del moto Frosolone, monte degli Appennini fra la Terra di Lavoro e la contea di Molise; il terreno sconvolto da Isernia a Ielzi... (P. Colletta, Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, 1861).

Le "due della notte" indicate dai cronisti dell'epoca corrispondono alle ore 22 attuali. Si tratta d'ora tarda, benché ci si trovasse nella stagione estiva; impossibile che, quando l'oscurità era ormai scesa, si potesse pensare di "festeggiare" Sant'Anna. Nell'immediato dopo sisma, tra morti e macerie, ci si preoccupò senza dubbio d'altro; l'esigenza principale non fu certo quella di fare offerte votive di grano, tanto più che le chiese erano crollate, poiché la calamità aveva

...mandato a terra buona parte degli edifizi, case, chiese, campanili ed il monistero, per cui tutta la gente fu costretta a uscir fuori dall'abitato e dormire a ciel sereno per sei giorni, non potendosi celebrare messe per mancanza di chiese... (Da un registro parrocchiale della Chiesa Madre S. Andrea Apostolo).

Infine, per quanto concerne il conteggio delle edizioni della sagra del grano, occorre evidenziare che essa ha certamente subìto interruzioni e non si è regolarmente tenuta ogni anno. È certo che, durante il secondo conflitto mondiale, la festa di Sant'Anna non ebbe svolgimento, così come si legge in un volantino stampato nel marzo 1947 e destinato "Ai concittadini delle Americhe". Eccone i contenuti: "A causa degli eventi bellici, la tradizionale festa della nostra comprotettrice S. Anna è rimasta qualche anno interrotta, e negli altri limitata alle funzioni religiose ed alla audizione di concerti musicali di poco valore. Volendo ora ricondurre tale festa al primitivo splendore, ci rivolgiamo a voi tutti affinché con generose oblazioni vogliate contribuire efficacemente allo scopo. Se in voi non è spento il minimo senso nostalgico per la Patria lontana nonché per le patrie tradizioni e costumanze, non mancherà il necessario contributo alla riuscita della nostra principale festività".

Testo: M. Gioielli (tratto da La festa di Sant'Anna ed altri aspetti della cultura etnica jelsese). Adattamento a cura della Redazione


 Foto: E. De Simoni (26 luglio 2004)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia
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Sant'Antonio di Padova a Castellino del Biferno

Pizzicantò

12 GIUGNO

Le torri umane
Il pizzicantò è un rito ludico molisano che prevede la realizzazione di piramidi umane; una tradizione viva soprattutto a Castellino del Biferno, ma anche patrimonio del folklore di altre località.

Nell'Ottocento, si hanno notizie della diffusione di tale gioco-rito in più regioni italiane: in Sicilia era detto la vara o l'animulu, in Campania era conosciuto come pizzicandò oppure la piramide. Forse è giunto nel nostro meridione nei periodi di dominazione spagnola. Difatti, l'area geografica di maggiore tradizione delle "torri umane" è appunto la Spagna, in particolare la Catalogna, regione dove sono attivi numerosi gruppi di castellers. I castells spagnoli sono molto alti. A Sabadell, nel settembre 1996, durante la Festa Major, ho potuto vedere in opera tre gruppi di castellers che hanno formato piramidi di nove piani.

L'innalzamento (carregar) delle torri umane catalane segue un procedimento ormai standardizzato. Si forma una larga base di persone (penya) in modo da ottenere una piattaforma molto stabile per i successivi piani. Al centro di questa folla (i penya sono tantissimi, a volte oltre cento elementi) ci sono i baixos che rappresentano i quattro giocatori più robusti e forti del gruppo. Tra i penya vi sono altre quattro tipologie di giocatori che hanno come compito principale quello di aiutare in ogni modo gli uomini che andranno a costituire gli altri piani del castello e di controllare che lo stesso venga su ben dritto, evitando, fin dove possibile, che ondeggi e possa cadere. I segons, i tercos e i quarts sono gli uomini che creano i tre piani successivi. Seguono poi i pomm de dalt, cioè i giocatori che formano i livelli più alti. Il penultimo piano è costituito da un solo giocatore (un ragazzo di 12-15 anni, detto aixecador) e l'ultimo da un fanciullo, il più giovane di tutti, chiamato anxaneda. Giunto all'apice della torre, l'anxaneda alza un braccio in segno di trionfo. Quindi il castello viene "smontato" (descarregar).

Il pizzicantò a Castellino del Biferno

La festa di Sant'Antonio di Padova è una delle più sentite a Castellino del Biferno. La sera della vigilia si accendono falò e si preparano altarini devozionali (spuliche) con l'immagine del santo. Anche la gastronomia ha un ruolo, con la preparazione delle sagnitelle, un gustoso primo piatto.

La vera caratteristica della festa, però, è il "gioco" del pizzicantò (o pizzicandò, pizzichentò). Alcuni gruppi di persone realizzano piramidi umane, che la tradizione vuole composte da tredici elementi. Il 13, infatti, è il numero di Sant'Antonio: il quale dispensa tredici grazie ogni giorno; al quale si dedica, dal 31 maggio al 12 giugno, la "tredicina"; e la cui festa cade il 13 giugno. Forse anche il nome del rito ha relazione con il santo, laddove, secondo l'interpretazione di alcuni, pizzicantò significa "pizzicare Antonio".

La costruzione tradizionale dei pizzicantò castellinesi prevede una composizione di tre piani realizzati da 7+4+2 giocatori. Tale schema, però, negli ultimi anni è stato stravolto; c'è un numero di persone maggiore alla base (anche 10-12), ed un solo elemento al terzo livello. Al centro delle piramidi viene posta una pertica alla quale i pizzicantari si aggrappano e che rende più stabile la costruzione. Le torri sfilano per le vie del paese, e nel procedere girano su se stesse intorno al palo. Lo scopo, infatti, è anche quello di mostrarsi, di roteare con armonia in una sorta di ballo tondo.

C'è anche un aspetto musicale. I pizzicantari, accompagnati da un suonatore d'organetto o fisarmonica, cantano delle strofette dialettali che sono incitamenti tra chi sta al piano inferiore e chi a quelli superiori della torre. I primi ammoniscono gli altri affinché non perdano l'equilibrio e non provochino il crollo della piramide, facendo così la botta.

Non di rado sfilano pure pizzicantò formati da donne o da ragazzini, a testimonianza della partecipazione attiva al rito da parte dell'intera comunità.

Fino ad alcuni decenni fa, a Castellino, finita la festa del pizzicantò, i braccianti agricoli locali partivano verso il Larinate e la Puglia dove si recavano per la mietitura. In molte culture, i riti tesi alla conquista simbolica dell'altezza (che è una ratio delle torri umane) erano propiziatori per la crescita della spiga matura, in ragione d'una magia imitativa.

Testo: M. Gioielli (tratto dalla rivista "Made in Molise", anno III, n. 6, autunno 2001, pp. 55-56)

 
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San Basso a Termoli

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San Biagio a San Martino in Pensilis

3 FEBBRAIO

San Biagio

Biagio, vescovo della sua città Sebaste, attuale Sivas in Armenia, secondo alcune fonti medico, è vissuto tra il III e il IV secolo. Imprigionato dai romani nel corso di una persecuzione locale, viene decapitato, dopo essere stato torturato con pettini di ferro. Le sue reliquie sono portate in Italia, a Maratea, nel secolo VIII, da alcuni pellegrini armeni. È venerato da cattolici e ortodossi. Gli sono attribuiti numerosi miracoli, tra i quali quello che caratterizza le sue proprietà taumaturgiche: la guarigione di un bambino soffocato da una spina di pesce. È dunque invocato in particolare contro i mali della gola.

Nella celebrazione della sua ricorrenza è frequente l'uso di candele benedette, che il sacerdote impone sulla gola dei fedeli. La festa di San Biagio avviene in un periodo dell'anno che segna l'attenuarsi dell'inverno, nel giorno successivo alla Candelora. Il 2 febbraio si celebra la Presentazione di Gesù al Tempio, collegata alla Purificazione di Maria, 40 giorni dopo il parto, e si benedicono le candele, simbolo della luce.

La festa di San Biagio a San Martino in Pensilis

A San Martino in Pensilis (Campobasso) dal 2 febbraio, giorno della Candelora, iniziano i preparativi per la festa di San Biagio , nella quale cavalli e cavalieri hanno un ruolo fondamentale, come accade nella Carrese del 30 aprile in onore di San Leo. All'alba del 3 febbraio, lungo le vie del paese, vengono fatti esplodere fuochi pirotecnici. Nella località di campagna chiamata Contrada San Biase, distante sette chilometri, dove un tempo era la chiesetta di San Biagio, si accende il fuoco e si allestisce un tavolo con cibi e bevande.

Tre giovani, in sella a cavalli ornati con i colori della squadra vincitrice dell'ultima Carrese, percorrono il paese chiamando a raccolta i cittadini e gli altri cavalieri verso il sagrato della chiesa di San Pietro Apostolo, in Largo Trinità. Uno dei tre cavalieri accompagna la chiamata con il suono di un tamburo. Dinnanzi alla chiesa il parroco benedice tutti i cavalieri che si sono radunati e porge una croce di legno, che viene passata da cavaliere a cavaliere per essere baciata. Dopo la benedizione i cavalieri, con la croce, partono verso la Contrada San Biase per visitare il luogo dove sorgeva la quercia e dov'è la pietra del santo, dalla quale si è soliti staccare piccoli pezzi, che vengono conservati a protezione delle malattie della gola.

Giunti a San Biase, i cavalieri pregano e compiono tre giri attorno al luogo della quercia. La visita dei cavalieri in contrada San Biase è anche occasione di festosa consumazione del cibo, e si attua, come nella Carrese, in un percorso esterno al paese. Prima del ritorno, i cavalieri ricevono i pani benedetti e ripartono al galoppo, rallentando poi, in prossimità del centro abitato. Sulla scalinata della chiesa la folla attende il loro arrivo.

Una volta tornati, i cavalieri compiono un giro intorno alla Santissima Trinità. La croce passa di mano in mano e viene baciata, dai cavalieri e dalle persone radunate nella piazza. In chiesa si susseguono gli atti devozionali verso il santo, espressi in particolare dal reverente contatto della propria mano con il simulacro. Nel tardo pomeriggio, dopo la messa, ha luogo la processione con il busto di San Biagio. La cerimonia si conclude in chiesa con la benedizione della gola, impartita dai sacerdoti con due candele incrociate, mentre i fedeli continuano a rendere omaggio al santo.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: D. D'Alessandro (3 febbraio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Santa Cristina a Sepino

Santa Cristina

Cristina è una giovane martire, vissuta tra il III e il IV secolo. Secondo la versione agiografica latina, viene imprigionata dal padre Urbano, "magister militum" di Bolsena, in una torre con dodici fanciulle, e poi sottoposta a innumerevoli torture per aver rifiutato il culto degli dei in nome della fede cristiana.

Tra i racconti della sua "passio", che la accomuna a molte altre figure di santi caratterizzati da atroci supplizi, il più dettagliato è quello di Alfano, arcivescovo e medico della Scuola Salernitana: «Tunc Urbanus impietatis furiis exagitatatus, jussit afferri rotam, et gladios acutissimos superaptari, et igne copiosum subter accendi. Cumque ex tyranni decreto B. Christina tanto crudelitatis generi incurvaretur, dum rota revolvitur, corpus ejus. pretiosissimum scinditur et exuritur. [...] Ecce jam speciosissima virgo post fustes et vincula: post ignem et rotam, post torturas et verbera, post cunam et tonsuras, post truncationes et jacula, ad aeterni regis thalamum angelicis manibus asportatur».

Il culto della martire risulta esistente già dal IV secolo, come appare dagli scavi effettuati nella grotta sottostante la basilica della santa, a Bolsena. Cristina è raffigurata, verso il VI secolo, nei mosaici di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna. Nel X secolo, il culto è ampiamente diffuso nel mondo cristiano ed è favorito dal passaggio dei pellegrini lungo la Via Francigena. Verso la fine del secolo XI, in base alla tradizione locale, due pellegrini francesi diretti a Gerusalemme sostano a Bolsena peronorare la tomba della santa, durante la notte trafugano alcune ossa e riprendono il viaggio. Giunti a Sepino, alloggiano nell'ospizio di San Nicola ma sono costretti a lasciare le reliquie nel paese e la santa ne diviene patrona. Nella seconda metà del 1100 le reliquie, tranne alcune ossa del braccio destro, vengono traslate a Palermo, che venera la santa come patrona fino al secolo XVII, quando vengono "scoperte" le reliquie di Santa Rosalia.

A Bolsena si festeggia Santa Cristina con la processione del suo simulacro e la rappresentazione della passione, attraverso l'allestimento dei "Misteri", quadri viventi silenziosi e statici. Sulla vita della santa, sulla traslazione e sulla localizzazione delle sue reliquie esistono numerose leggende e ipotesi, discusse in particolare in un testo di Antonio Briganti, edito alla fine del 1800: «Non vi ha forse leggenda o vita di un eroe della Chiesa, che presenti tanti dubbii e difficoltà quanto quella di S. Cristina Vergine e Martire Bolsenese. Incerta la patria, ignoto il nome suo e della madre...; sappiamo soltanto, che il padre chiamavasi Urbano. [...] In Sepino se ne celebrano tre feste e tutte solenni. L'arrivo, la traslazione, ed il 24 luglio che è il dies natalis. Palermo, che ha il vanto di possedere la maggior parte delle santo Reliquie... l'ha venerata sino al secolo XVII come principale Patrona della città, solennizzandone oltre il 24 luglio, anch'essa la Traslazione e l'arrivo nella città. Da quel tempo, avendo data la precedenza a Santa Rosalia sua concittadina, si ritenne S. Cristina come Patrona principale minore».

La festa di Santa Cristina a Sepino

Il 6 gennaio, ricorrenza dell'Epifania, si commemora l'arrivo delle reliquie di Santa Cristina a Sepino (Campobasso). L'inizio dei festeggiamenti viene preannunciato dal suono delle campane alle ore 12 del giorno precedente. L'8 gennaio, presso le terme Tre Fontane, ha luogo la "Crianzola", un incontro conviviale tra uomini, che rappresentano le famiglie del paese e delle contrade, durante il quale si assaggia il vino dei produttori locali. La "Crianzola", un tempo ristretta al solo ambito maschile, pùò prevedere attualmente anche la presenza femminile.

Durante il periodo della festa si rende omaggio alla statua della santa posta nella cripta della chiesa a lei dedicata, statua che si dovrebbe portare in processione ogni cento anni. Il simulacro ligneo sorregge con la mano sinistra Sepino, nella destra ha una freccia, simbolo del supplizio finale, e una palma, simbolo di verginità. I fedeli, in segno di rispetto, si allontanano senza voltare le spalle. Nella grotta della chiesa è inoltre rappresentata la complessa "passio" di Santa Cristina, in otto scene lignee realizzate dalla bottega Mussner di Ortisei, accompagnate da scritte che ne indicano le varie fasi e da dediche di devoti sepinesi emigrati.

Dal pomeriggio del 9 gennaio le campane cominciano a suonare, a intervalli regolari, circa ogni quindici minuti, per richiamare i cittadini alla festa. Presso il palazzo comunale si riuniscono genitori e bambini. Insieme a una candela viene consegnato ai bambini il "cartoccio", un dono dell'amministrazione comunale confezionato con vari dolci. Dopo la quarta suonata i fedeli, le autorità e le "Verginelle", bambine vestite di bianco, ornate di monili e con il capo sormontato da una coroncina floreale, si recano in chiesa portando il cero, alla cui sommità è legato un ramoscello di ulivo, e i doni da offrire alla santa: oro, incenso e mirra, gli stessi dei Re Magi a Gesù Bambino.

In merito alle "Verginelle" è suggestivo ricordare un'iscrizione che testimonia, nell'antica Saepinum, festività collegate alla fertilità, tenute tra gennaio e febbraio, caratterizzate dalla presenza delle Canefore, fanciulle che nelle processioni dell'antica Grecia portano in genere canestri di fiori, doni e oggetti rituali: «Dall'antico Sepino gli scavi degli ottimi sigg. Giacchi danno non poche iscrizioni, le quali ci vengono comunicate per mezzo del sig. parroco Luigi Mucci, altro nostro socio attivo ed esatto. L'ultima lapida di cui egli ci diede copia, è curiosa, perchè dimostra essersi l'uso delle famose Canofore trapiantato da Atene fin nel cuore delle montagne sannitiche». Al di là di queste reminiscenze arcaiche, le "Verginelle", oltre a rappresentare la purezza che contraddistingue Cristina, sembrano piuttosto rievocare le giovani ancelle della leggenda, compagne della santa nella torre.

Nella chiesa vengono esposti alla venerazione il busto di Santa Cristina, ricoperto di gioielli, e il braccio argenteo contenente la reliquia, custodito nella cappella del tesoro. Dopo i vespri si celebra la messa. Le "Verginelle" sono disposte in prima fila, dinnanzi all'altare. Il sindaco tiene un discorso, al quale segue la risposta e l'omelia del parroco. L'amministrazione fa inoltre un dono alla parrocchia. Al termine della celebrazione i genitori portano i bambini, che vengono benedetti e affidati alla protezione della santa. La devozione viene espressa con particolari comportamenti: baciare il braccio che contiene la reliquia; toccare il busto della santa, azione talvolta eseguita con un fazzoletto da parte delle donne più anziane; porgere i bambini alla reliquia o alla santa; farsi fotografare in chiesa accanto al simulacro.

Mentre i fedeli rendono omaggio a Santa Cristina, nella sacrestia si procede al sorteggio dei turni delle persone che, durante la notte, si alterneranno sul campanile per suonare manualmente le campane, prerogativa quasi esclusivamente maschile, tranne alcune eccezioni. Il sorteggio stabilisce anche i gruppi che, in occasione delle processioni, porteranno la statua e il baldacchino.

Il 10 gennaio si commemora la traslazione del corpo della santa dall'ospizio di San Nicola alla chiesa del Santissimo Salvatore. I fedeli si preparano alla comunione, per ottenere l'indulgenza parziale concessa nel 1737 da Papa Clemente XII. Dopo la celebrazione inizia la processione delle "Verginelle" fino al rione Canala, seguendo uno dei percorsi intrapresi, secondo la tradizione, dai due pellegrini che portarono le reliquie. I fedeli che trasportano il busto della santa, sorteggiati la sera del 9 gennaio, indossano una veste rossa, con ricami dorati e una cintura azzurra. Sepino commemora Santa Cristina anche in altre date: in forma solenne il 24 luglio, ricorrenza della morte; la prima domenica di maggio, in ricordo della traslazione a Palermo e la prima domenica di ottobre.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: E. De Simoni (9 e 10 gennaio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Giorgio a Mirabello Sannitico

15 e 22 aprile

In concomitanza con la festa di San Giorgio si accendono centinaia di fuochi sia nel centro abitato che in tutto il territorio. Secondo la tradizione locale, l'origine dei fuochi viene collegata all'apparizione di San Giorgio che liberò il paese da un assalto di soldatesche.


Foto: D. D'Alessandro (22 e 23 aprile 2008)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Nicandro a Venafro

dal 16 al 18 giugno

Il busto argenteo di San Venafro, con i due reliquiari, viene portato in processione dopo che il giorno precedente, a mezzanotte, presso il convento dei cappuccini, si è ufficializzata l'apertura della festa patronale con il suono di un motivetto ripetitivo eseguito da una piccola banda composta di elementi semplici che viene chiamata "bandarella" e per tutta la notte il motivetto viene ripetuto per le strade della città annunciando a tutti l'inizio dei festeggiamenti.


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (18 giugno 2009)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Leo a San Martino in Pensilis

Carrese

29-30 APRILE - 2 MAGGIO

San Leo

La leggenda di Leo, risalente presumibilmente al secolo XII, è riportata nell'opera di Giovanni Andrea Tria Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della città e diocesi di Larino, un importante testo di riferimento per la storia e le tradizioni non soltanto di Larino ma anche di altri luoghi compresi tra la Capitanata e il Contado di Molise: «Come pure si prattica la detta corsa de' Buoi con carri in S. Martino, Terra della medesima Diocesi nella Vigilia della Festa del nostro Glorioso S. Leo Confessore, in memoria anche della solenne traslazione del di lui S. Corpo, fatta dalla Chiesa del suo Monastero di S. Felice, nella Parrocchiale, sotto il titolo di S. Maria, e si conserva, e venera questo S. Corpo al presente nella Chiesa Arcipretale di essa Terra, sotto il titolo di S. Pietro, fattane da noi traslazione fin dall'anno 1728...».

La corsa dei buoi è citata anche da Giambattista Masciotta, nell'opera Il Molise dalle origini ai nostri giorni: «Il protettore del Comune è S. Leone dei benedettini, che per tradizione vuolsi concittadino, e la cui festa è celebrata il 2 maggio con la caratteristica corsa dei buoi» .

Secondo il racconto, Leo, monaco benedettino nel monastero di San Felice, nasce a Cliternia, intorno all'anno Mille, e opera numerosi miracoli. Dopo la morte viene sepolto sotto l'altare del convento di San Felice, che, a causa di guerre e terremoti, è abbandonato dai monaci e cade in rovina. Il corpo del santo, scoperto da Roberto Normanno, conte di Loritello tra il 1154 e il 1182, viene trasportato su un carro trainato da buoi nella chiesa di Santa Maria in Pensili. Il 2 maggio del 1728 le ossa di San Leo vengono trasferite nella chiesa di San Pietro Apostolo.

Più semplicemente, in base alla tradizione locale, i resti di San Leo, miracolosamente ritrovati in un bosco, sono contesi dai signori di vari paesi. Per risolvere la controversia, si pongono le reliquie su un carro trainato da una coppia di buoi, che giungono infine a San Martino in Pensilis, manifestando in tal modo la scelta del santo.

La Carrese di San Martino in Pensilis

Carrese, 1964, inv. 105067

La festa patronale in onore di San Leo a San Martino in Pensilis (Campobasso) rientra nel ciclo delle feste primaverili ed è caratterizzata dalla Carrese, una corsa di carri trainati da buoi, improntata su un forte agonismo e gestita da gruppi maschili. La Carrese è profondamente radicata presso i sanmartinesi ed è vissuta con grande partecipazione, tanto da dar luogo a contese e discussioni, non solo nel giorno dell'evento, ma anche nell'attesa, creando spesso divisioni all'interno della popolazione, determinate dall'appartenenza alle fazioni.

Durante tutto l'anno i rappresentanti dei carri sono impegnati nella scelta e nella preparazione di animali e cavalieri, verso la metà di marzo iniziano gli allenamenti. I buoi della Carrese non sono animali da lavoro, ma vengono allevati e addestrati soltanto per la corsa, come sottolinea anche il Regolamento Comunale della manifestazione: «È fatto obbligo al "carro" che partecipa alla Carrese di presentare, alla corsa dei carri del giorno trenta del mese di Aprile, buoi idonei alla corsa, in quanto a selezione della razza ed in quanto ad allenamento che non può essere inferiore a sessanta giorni computati dal trenta Aprile».

La gestione dei carri richiede un grande impegno economico, al quale contribuiscono soltanto in parte il comune e la regione, e i responsabili affrontano anche costi altissimi con la speranza di ottenere la vittoria. La Carrese prevede in genere due partiti (talvolta tre) contrassegnati dai rispettivi colori: il bianco-celeste per i Giovani, il giallo-rosso per i Giovanotti. Dal 2007 partecipa alla corsa anche il carro dei Giovanissimi con il colore giallo-verde. I protagonisti della corsa sono: i carrieri, i cavalieri, i catenieri, che precedono i buoi aggiogati e li guidano con una fune, e tutte le persone impegnate durante la partenza e il cambio degli animali.

La misura

Nel pomeriggio del 29 aprile ha luogo la "misura", che segna le posizioni di partenza dei carri: «I componenti i "carri" che prendono parte alla Carrese nel pomeriggio del giorno ventinove del mese di Aprile devono recarsi sul luogo denominato "bufalara", presso la masseria Macrellino, al fine della distanza di un "carro" dall'altro, che deve essere di metri venticinque. Constatata la distanza, vengono tracciate sulla strada delle linee di vernice color bianco, che indicano la posizione di partenza di ogni "carro" da raggiungere il giorno del trenta Aprile».

Queste attività sono già accompagnate da espressioni di intensa tifoseria da parte delle fazioni, espressioni che caratterizzeranno tutto lo svolgimento della festa fino alla conclusione della gara. La sera dello stesso giorno vengono fatti esplodere a mano fuochi pirotecnici e petardi. Le vie sono invase dal fumo e dagli scoppi, la confusione e il frastuono sembrano costituire una buona occasione di sfogo per l'eccitazione della vigilia.

A questo caos fa da contrappunto la devota intonazione del canto in onore di San Leo, poiché i festeggiamenti e la gara non sono disgiunti da forti elementi religiosi: «Non deve credersi che in queste celebrazioni la corsa sia una forma di festosità slegata dal culto del santo, e sostituibile con altre forme qualsiasi, come pur avviene in molti casi. Si tratta invece di elementi insopprimibili del culto popolare del santo. A San Martino in Pensilis, infatti, alla vigilia della corsa i partecipanti si recano alla porta della chiesa per "laudare", e cioè per cantare un inno, nel quale il santo patrono si trova ad essere esaltato e onorato assieme alla "primavera che ci rinnova il mondo"; e la corsa in sé è legata alla pia leggenda del miracoloso ritrovamento delle reliquie, e dei buoi che trasportandole, si arrestarono a San Martino prescegliendolo così tra altri paesi contendenti».

Il canto

Queste celebrazioni collegate alla rinascita primaverile sono dunque accompagnate da canti popolari, eseguiti in determinate fasi della festa, la carrese di San Martino in Pensilis è un canto monodico maschile di tradizione orale. In proposito è interessante ricordare le considerazioni di Diego Carpitella, in base alle quali vi sarebbe una affinità «tra i canti che vengono eseguiti a San Martino in Pensilis dinanzi alle porte della chiesa, la sera prima della corsa dei carri, e i canti dei carrettieri siciliani. Lo stesso tipo di voce "strozzata", la quale non è, in genere, molto frequente nei canti dialettali molisani». Lo studioso prosegue chiedendosi quale sia l'origine di questi canti, che presentano analogie anche con quelli dei carrettieri salentini, e si domanda se esista, più semplicemente, un comune denominatore tra i canti dei carrettieri.

La carrese viene intonata dai rappresentanti dei carri nella tarda serata del 29 aprile: «i componenti i "carri", partendo dal luogo in cui hanno fissato la propria sede, procedono verso la Chiesa Madre di San Pietro Apostolo, in cui sono custodite le reliquie del Santo Patrono, sparando fuochi d'artificio. Giunti nei pressi della Chiesa, presso la porta principale, viene intonata, in onore di SAN LEO, la "CARRESE" con l'accompagnamento di chitarre acustiche». Inoltre è eseguita nel pomeriggio del primo maggio, quando il carro vincitore percorre le strade del paese, e il 2 maggio, prima della processione in onore di San Leo.

Il percorso

La Carrese inizia il 30 aprile, con la benedizione dei buoi e dei carri davanti alla chiesa di San Pietro Apostolo. La scalinata della chiesa e la piazza sono affollate dai rappresentanti delle opposte tifoserie, contraddistinti dai rispettivi colori. Successivamente i carri si avviano al passo lungo la via Marina, seguendo il tratturo, fino al luogo in cui è stabilita la partenza: la masseria Macrellino.

Secondo il regolamento il carro, che porta tre uomini, deve essere trainato da due buoi e composto complessivamente da venti cavalieri, la maggioranza dei quali rappresentativi di San Martino in Pensilis, per nascita o residenza, a sottolineare il carattere strettamente locale della manifestazione e il valore identitario nell'ambito della comunità: «con una quota massima di forestieri non superiore al venti per cento e da un numero massimo di tre "carrieri". Non sono forestieri i nati in San Martino in Pensilis, i residenti in San Martino in Pensilis. Dall'anno 2008 i cavalieri considerati residenti dovranno esserlo almeno da due anni ad eccezione di quelli che hanno già partecipato in qualità di residenti nella Carrese del 2007».

La prima posizione spetta al carro che ha vinto l'anno precedente. Quando i carri hanno assunto la posizione idonea, il sindaco grida "Girate!" e spara un colpo di pistola. I carri, con i buoi prima rivolti verso il mare, vengono subito girati e inizia la competizione. A causa della difficoltà e della lunghezza del percorso, circa otto chilometri e mezzo, è necessario sostituire gli animali stanchi. Dopo quattro chilometri di corsa si procede dunque, in pochissimi minuti, alla delicata operazione del cambio, "svict". Effettuato lo sgancio, il carro viene portato a mano fino al luogo dove i buoi freschi sono pronti per essere aggiogati.

La corsa continua, dal percorso esterno all'abitato fino alle strade del paese. Superata la durissima prova della salita della Croce, si torna dunque lungo la via Marina. Vince il carro che per primo oltrepassa l'Arco di Porta San Martino, raggiungendo così la Chiesa di San Pietro Apostolo. Al termine della gara i vincitori vengono festeggiati dai sostenitori. Il carro vincitore «ha il diritto di compiere il "giro del paese" esprimendo il trionfo per aver conquistato il privilegio di portare il busto sacro di SAN LEO nella processione del due di Maggio. Esso deve essere accompagnato da apposita banda musicale ed un unico "carro" ha la facoltà di far suonare il motivo "PIAVE"».

Nel pomeriggio del primo maggio i carri "vestiti", cioè addobbati, procedono fino alla chiesa, dove ricevono la benedizione. Il 2 maggio il carro vincitore ha il privilegio di condurre, durante la processione, il busto di San Leo, accompagnato dal parroco. Dietro il carro viene portata, a spalla, la statua del santo, gli altri carri «partecipanti alla Carrese precedono a loro volta il primo "carro" seguendo in senso inverso il risultato della corsa. La processione in onore e lode di SAN LEO è il culmine e rappresenta la conclusione della Carrese di San Martino in Pensilis, in cui tutto il popolo si ritrova e si riconosce nei valori propri del Santo e da essi prende forza ed ispirazione».

Carri trainati da buoi

Animale imponente e laborioso il bue, nella profezia di Isaia "conosce il proprietario", cioè Dio. Nella rappresentazione presepiale giace accanto alla culla di Gesù, inoltre è simbolo di sacrificio, associato nell'iconografia a Luca, che inizia il suo vangelo proprio nel tempio dedicato ai riti pagani. Figura non soltanto sacra, ma fondamentale per il lavoro e la sopravvivenza, come la descrive Ovidio: «quid meruere boves, animal sine fraude dolisque, / innocuum, simplex, natum tolerare labores? / inmemor est demum nec frugum munere dignus, / qui potuit curvi dempto modo pondere aratri / ruricolam mactare suum, qui trita labore / illa, quibus totiens durum renovaverat arvum, / quot dederat messes».

Nella religione romana i bovini sono le vittime di un rito sacrificale d'origine orientale, eseguito con scopi rigenerativi, il Taurobolium, una sorta di battesimo cruento. L'animale, ornato e inghirlandato, viene collocato in una struttura dal fondo perforato, posta sul sacerdote o fedele, in modo che, dopo l'uccisione, il sangue sgorghi copioso sulla persona, purificandola in eterno o per un periodo determinato.

L'impiego di carri trainati da bovini nelle cerimonie religiose è testimoniato in molte tradizioni italiane, non solo nell'area meridionale, in particolare in Sardegna , ma anche nel nord Italia, ad esempio in Piemonte . La connotazione agricola del Molise fa si che in questa regione siano particolarmente diffuse rappresentazioni festive collegate al mondo contadino e agli animali.

Tra le principali feste , comprese tra aprile e luglio, che vedono come protagonisti i bovini, si possono citare, oltre la corsa di San Martino in Pensilis, le corse nei paesi di origine arbëresh: il 3 maggio, per il Santo Legno della Croce, a Ururi; il lunedi successivo alla Pentecoste, per la Madonna di Costantinopoli, a Portocannone; il 22 aprile, per San Giorgio, nella confinante Chieuti, in territorio foggiano. Ricordiamo inoltre le sfilate di carri: per San Pardo a Larino; per Sant'Anna a Jelsi; per Sant'Antonio di Padova a Santa Croce di Magliano, Montecilfone (di origine arbëresh), Palata (in passato con parte della popolazione di origine croata) e Lupara.

Oltre Bojano, altri paesi molisani derivano il loro nome da questi animali e in numerose chiese del Molise si trovano scolpite teste di bue o di toro, come ricorda Alberto M. Cirese: «Esiste in effetti un certo numero di chiese che portano effigiate teste o profili di bue. Il parroco di Ferrazzano ne indicava sei; la settima, che egli diceva non essergli nota, era forse anche al suo tempo la Abbazia di Santa Maria di Canneto nel territorio di Roccavivara, attorno alla quale aleggia oggi la medesima leggenda, e che è ritenuta, assieme a Santa Maria della Strada , uno dei più antichi monumenti medievali della regione».

Il Ver Sacrum

Spesso, secondo alcune leggende di fondazione, non soltanto molisane, le reliquie dei santi giungono miracolosamente nei paesi su carri trainati da buoi. Lo stesso territorio dei Sanniti sarebbe stato popolato da giovani guidati da un bue, durante il Ver Sacrum, l'allontanamento dai luoghi d'origine per fondare nuove colonie, così descritto da Lorenzo Giustiniani: «L'atto di religione che dagl'Itali primitivi si reputava più meritorio da rimuovere le pubbliche calamità era il Ver sacrum, ossia la solenne promessa di sacrificare agli Dei ciò che nasceva nel corso di una primavera. I pargoletti che ne facean parte, non erano esclusi se non a patto di viver nei tempj fino all'età di vent'anni , e poscia di andare in cerca di un asilo sotto la protezione di quella Divinità, cui erano consacrati. Ciò diede cominciamento alla diramazione di frequenti colonie, che ora colle armi ed ora coi patti gittarono le basi di nuove società, le quali, attirando da giorno in giorno altra gente col favor della consacrazione, pervennero da piccioli elementi a costituire corpi sociali più o meno possenti».

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Feste e Riti)


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (29 e 30 aprile 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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