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Maschere e mascherine. Fenomenologia del distanziamento sociale. Di Alessandra Broccolini (SIMBDEA/Sapienza)

Maschere e mascherine. Fenomenologia del distanziamento sociale. Di Alessandra Broccolini (SIMBDEA/Sapienza)

Maschere e mascherine. Fenomenologia del distanziamento sociale.

All'inizio sembrava uno scherzo. Mettere il naso fuori dalla porta di casa e vedere il paesaggio consueto del proprio quartiere deformato, improvvisamente vuoto come non lo si era visto. Niente macchine, niente negozi, quasi nessuno per la strada, niente rumore, niente smog, ma soprattutto il segno più straniante era vedere lo spazio dominato da questi strani oggetti alieni con i quali stiamo imparando a convivere, che sono divenuti strumento quotidiano del cosiddetto "distanziamento sociale": le mascherine. All'inizio mi sembrava uno scherzo, uscire e vedere che là fuori ero l'unica a non portarle, vedere i molti occhi uscire da queste "museruole" dalle forme e dai colori più disparati, a volte nere e pesanti, simili all'armamentario di un inquietante immaginario fetish sadomaso, a volte colorate, gialle, blu, verdi, oppure candide e "sanitarie", celesti, bianche, morbide. Altre volte ancora, "tecnologiche", con mirabolanti filtri colorati, rosso su bianco, azzurro su bianco, dalle forme appuntite come becchi di anatre o di cigni bianchi.

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Foto de "Il Corriere" del 04/04/2020

Volontari che hanno costruito l'ospedale da campo di Bergamo 

 

Un campionario ricco in un paesaggio umano inquietante, apparentemente dominato dalla paura e dalla precauzione di evitare gli altri a tutti i costi, più per non contagiarsi che per non contagiare. Ma sopratutto, oggetti introvabili, invidiati e ormai costosissimi, ordinati e mai arrivati, più spesso venduti sottobanco, oggetti del desiderio. Un giorno mentre facevo la mia consueta fila al supermercato (ormai le uniche occasioni per uscire) un signore di origine cinese (lo capisco dal taglio degli occhi perché è rigorosamente "mascherinato") ne ha regalate un pacchetto da dieci a ciascuno di noi nella fila. Ce le ha date ed è andato via di fretta, come mosso da una missione da compiere. Siamo tutti rimasti un po' sbalorditi con questi pacchetti in mano, un dono inatteso, una generosità mai vissuta in strada da uno sconosciuto.

 

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foto dal web 

 

Ricostruire la "vita sociale" delle mascherine al tempo del "distanziamento sociale", parafrasando un noto lavoro dell'antropologo angloindiano Arjun Appadurai, sarà probabilmente l'esercizio che alcuni di noi faranno nei prossimi mesi. Da oggetto di nicchia lontano dalla vita quotidiana (solo in paesi lontani lo vedevamo usato saltuariamente nello spazio pubblico), oppure simbolo del mondo medico-sanitario, dove al più lo trovavi dal dentista o nei nail centers per la cura delle unghie, la mascherina è divenuto un dispositivo di uso quotidiano che si è guadagnato un suo spazio nella sfera domestica, come in quella pubblica, da appendere all'attaccapanni di casa, ad un angolo della sedia, o nascosto in luogo riparato della casa. Oggetto necessario, ma anche ironico, eccessivo, superaccessoriato. In brevissimo tempo il mercato (occidentale?) lo ha fagocitato, lo ha fatto proprio, ce lo ha restituito trasformato, rivisitato, reinterpretato, investito di significati, scelte, gusti e distinzioni sociali. Dal fai-da-te della sartoria casalinga, da distribuire entro i circuiti di dono vicinale, all'alta moda (la mascherina di Fendi venduta a 190 euro), dalla carta da forno o lo scottex spillato dietro le orecchie, o lo scampolo di una vecchia camicia, alle mascherine sartoriali, dalle mitiche e introvabili FFP3 a quelle colorate di stoffa, per bambini e non. Ci sono anche mascherine per cani e gatti. La mascherina è un oggetto quindi totale, che sta velocemente scalando la classifica del nostro quotidiano, tanto velocemente quanto veloce è la diffusione del virus che dovrebbe fermare.

Ma "mascherina" è diminutivo di "maschera" e la maschera per l'antropologo evoca ben altri scenari, tutt'altro che apocalittici e contaminati, anche se pur sempre eccessivi e finanche "diabolici" se pensiamo alle condanne della chiesa nei confronti del mascheramento, o all'ostilità dei poteri costituiti per la maschera nel mondo folklorico; evoca scenari rituali complessi, performativi, espressivi, creativi; evoca momenti calendariali precisi, i carnevali, scenari di possessione, di comunicazione con il sovrannaturale, ma anche il mascheramento diffuso che percorre il contemporaneo con la fuoriuscita dell'eccessivo nel tempo libero.

 

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Carnevale di Serino, foto di Alessandra Broccolini (2005)

 

Il diminuitivo nel quale questo oggetto è imprigionato esprime una sua collocazione semantica e di uso su un piano differente, ma non lo sottrae al gioco dell'eccesso della maschera e all'occultamento del volto, in una nuova fase di ridefinita identità per un manufatto non più condannato, non più diabolico o sinonimo di falsità, ma simbolo questa volta di ragione, di resistenza al "male", al contagio. Con la mascherina la maschera "si fa volto" ma quando ciò accade, come suggerisce Vincenzo Padiglione "la stagione del cambiamento appare alle porte: emergono ibridi, si rendono immaginabili mutazioni antropologiche. Segno che l’evoluzione procede verso orizzonti imprecisati".

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Il Diavolo di Tufara, foto di E. De Simoni e D. D'Alessandro 2005 ©ICPI

 

Ricordo il momento in cui ho dovuto fare la scelta di metterla, dopo un periodo di resistenza, la difficoltà di reperirle, il pellegrinaggio nelle farmacie a "chiedere" e la soddisfazione quando finalmente le ho trovate sottobanco in un negozio bangladese del mio quartiere. Ricordo la percezione di "sacralità" del primo giorno, la prima uscita, lo straniamento, ma anche la veloce abitudine che ho fatto al "mascherinamento". Cosa faccio: la metto ? Sentire il proprio respiro, sentirsi uguali agli altri con questa pseudo-protesi facciale. La maschera coincideva ormai con il mio volto pubblico.

Ma è legittimo domandarsi, al di là della creatività individuale o collettiva (come ad esempio le produzioni fai-da-te dei laboratori tessili donate al paese), se e in che modo cambiano o stanno cambiando le relazioni sociali e interpersonali con queste nuove protesi, oggetti ossimorici e paradossali delle politiche del distanziamento sociale ? Che ne è delle relazioni quando non si vedono i volti ? Possiamo considerare questi manufatti una forma di costrizione evitante e inibente delle relazioni, o uno spazio agentivo che rimodula e rimette in gioco le relazioni attraverso una diversa forma comunicativa ? Come si rimodulano le prossemiche, le cinesiche (per citare campi a noi cari) con l'entrata in scena di questa protesi facciale "mascherante" che diventa volto ? E come viene interpretata la scelta (quando non è assoluta necessità sanitaria) di non indossarle ? E ancora, in che modo stanno circolando i vari "modelli" tra la gente ? Quali reti di "approvvigionamento" si sono attivate a livello locale e familiare ? Ma più in generale, quali reti del mercato globale si sono attivate e chi ne sta usufruendo, chi ci sta guadagnando ?

La globalizzazione dei mercati ha reso possibile l'attivarsi rapido e simultaneo di diversi macroattori che hanno saturato una offerta (a fronte di una domanda esponenziale) che solo in parte è stata intercettata dai bisogni dell'approvvigionamento medico-sanitario, dando luogo ad una rete di possibilità di reperimento e di circolazione (e anche di dono), che "sulla strada" diventano spazio per l'esibizione di scelte, rivelatori di condizioni economiche, ma anche di reti di contatti personali (per trovarle sottobanco o riceverle in dono) che non sempre coincidono con i parametri classici delle condizioni economiche e sociali. Io stessa ho avvisato la mia rete di amici del quartiere quando le ho trovate.  

Un esercizio etnografico basato sull'osservazione del vissuto quotidiano riserva sorprese. Il primo elemento che si offre all'evidenza è la "normalità", la velocità con la quale l'umanità si adatta (ahinoi?) al nuovo volto delle relazioni sociali nell'era (sarà un'era ?) del distanziamento. Ma si aprono anche inedite dimensioni relazionali, laddove ciò che "prima" era considerato altro, discriminante, discusso e discutibile, diventa ora buona pratica dettata dalle norme (non sempre coerenti e lineari) medico-sanitarie. Diverse mie vicine di casa, in un quartiere con un alta componente di residenti di origine asiatica e mussulmana, sono solite coprirsi il volto con una sciarpa colorata dal colore variabile, una sciarpa spesso alla moda, molto curata, che lascia visibili solo gli occhi, di donne che per questo nella sfera pubblica delle pratiche quotidiane sono soggette a facili esposizioni, imbarazzi relazionali, sbuffi da parte degli "altri", di quelli che vanno "a viso scoperto". Tutti disagi e intolleranze che ora sono completamente saltati, ora che tutti (o quasi) mostriamo in pubblico solo i nostri occhi, ora che a chi non lo fa è forse riservata la stessa sorte di coloro che "prima" erano bersaglio di disagi e (pre)giudizi per il loro apparire in pubblico. Sono soprattutto gli occhi a beneficiare di questo nuovo corso del distanziamento, ora che sembra di essere stati catapultati in uno strano villaggio di alcuni secoli fa, quando il distanziamento tra i generi e le distanze sociali erano rigidi e dettati da regole morali e sociali. Occhi che tornano centrali nella comunicazione. Come si fa a vedere se una persona sta ridendo, per esempio, se non ne puoi vedere la bocca, ma solo gli occhi? E se invece si è alterati per qualche motivo, gli altri lo potranno capire dagli occhi, o da quelle piccole rughine della fronte? Ma non sono le stesse rughe che vengono fuori quando si ride ? Una competenze del genere ci è sconosciuta, dobbiamo fare ancora pratica e sviluppare dei codici condivisi che non lascino spazio a malintesi. Chi ci sarà dietro quella bellissima maschera a becco di cigno ? Chissà poi se si rimorchia di più o di meno dietro una mascherina, o se si viene trattati con più gentilezza in un luogo pubblico, in un negozio, all'ufficio postale, ora che il nostro nuovo volto è visibile solo parzialmente e lo si può solo immaginare dietro la garza. Anche la prossemica offre spunti interessanti. La strada si riconfigura sulla base di un distanziamento che cancella alcune pratiche ma ne definisce altre. Si parla a distanza, si accelera il passo per superare qualcuno per evitare di camminargli a fianco, si compiono con il corpo torsioni indescrivibili per evitare di entrare nel raggio di azione di chi ci viene incontro per la strada, ed è incredibile come sia facile invece riaggregarsi non appena ci si distrae un po', al supermercato, con la signora che ti passa vicino (ma quanto vicino?) per prendere il latte al bancone, mentre tu sei davanti a lei, o nel corridoio dello stesso supermercato, o al bancone del pane, del pesce. Ora che siamo tutti più attenti ai corpi degli altri, che forse "prima" avevamo ignorato, siamo tutti più vigili alle nostre come alle altrui traiettorie, come api alla ricerca del volo perfetto.

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A. Appadurai, The social life of things: commodities in cultural perspective, Cambridge University Press, 1986.

V. Padiglione, "Della maschera. Tracce da un'etnografia della cultura giovanile", in Archivio di Etnografia, n. 1-2, 2016, pp. 29-33.

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