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Articoli filtrati per data: Aprile 2014

Carnevale a Bagnoli del Trigno

Rappresentazione dei Mesi - Ultima domenica di Carnevale

Il Carnevale

Il carnevale è una festa mobile, nel calendario liturgico cattolico-romano si colloca tra l'Epifania e la Quaresima e la data di inizio coincide generalmente con la ricorrenza di Sant'Antonio Abate, il 17 gennaio. Il carnevale si può considerare una festa di rigenerazione e di rinnovamento, che indica la fase di passaggio dall'inverno alla primavera, dunque una sorta di capodanno agricolo. In merito all'etimologia del termine, si può citare la derivazione da "currus navalis", con riferimento alla nave e al carro come simboli di morte per il trasporto delle anime e ai carri processionali a forma di nave, riespressi in forma di macabra satira nella Stultifera navis dell'alsaziano Sebastian Brant. Più comunemente si ipotizza che "carnevale" derivi dall'espressione "carnem levare", che indica il periodo di astinenza della Quaresima. Per le analogie con cerimonie dell'antichità, si possono citare in generale i Saturnali, celebrati a Roma in dicembre, come descrive Macrobio, e i Baccanali, feste propiziatorie tenute a marzo, ricollegabili ai culti dionisiaci greci, e represse nel 186 a.C. dal Senatus Consultum de Bacchanalibus per la loro pericolosità sociale.

Il carnevale segna in ogni caso un passaggio, un temporaneo rovesciamento dell'ordine, ed è caratterizzato: dal mascheramento come rappresentazione dell'alterità e dell'irruzione del mondo dei morti nel mondo dei vivi; dal "mondo alla rovescia", come espressione dell'inversione dei ruoli ordinari di potere; dalla trasgressione delle regole quotidiane, attraverso comportamenti licenziosi ed eccessi alimentari; dalla rappresentazione del conflitto tra il bene e il male. La più significativa maschera del carnevale, nell'accezione comune, è Pulcinella, che ha, tra le sue prerogative, il rapporto con il mondo dei morti. Dal suo nome, derivato da "pulcino", si può trarre un'associazione con i gallinacei, animali collegati con gli inferi.

I primi documenti sul carnevale risalenti al medioevo ne mettono in evidenza il carattere sovversivo dell'ordine naturale e morale stabilito da Dio: travestimento, promiscuità, ribellione, scambio dei ruoli. Divenuto, in epoca medioevale, festa popolare per eccellenza, con tratti trasgressivi sempre più accentuati, il carnevale viene fortemente contrastato dalla chiesa cattolica soprattutto nella seconda metà del XVI secolo, età della Controriforma.

La Rappresentazione dei Mesi

La rappresentazione dei Mesi ripercorre il ciclo annuale nei suoi vari passaggi, con riferimento alla propiziazione del naturale svolgimento delle stagioni. Si hanno testimonianze di cerimonie periodiche collegate alle stagioni sin dall'antichità, nel mondo classico e presso gli Egizi. In seguito questi temi, ampiamente ripresi nell'iconografia cristiana, vengono affrontati nel tardo medioevo anche in opere letterarie. In questo periodo si diffondono canzoni e ballate sui mesi, in italiano volgare, che confluiscono nella tradizione popolare e vengono eseguite nelle feste calendariali. Come corrispettivi letterari si possono citare le opere di Alcuino, Bonvesin da la Riva, Folgore da San Gimignano, Cenne da la Chitarra.

Così Alessandro D'Ancona affronta la questione del rapporto tra la forma di rappresentazione popolare dei Mesi e la commedia dell'arte: «Volendo poi riferire un qualche esempio della nostra antica letteratura, potevasi trovarlo presso un poeta che, sebbene ecclesiastico e superiore in dottrina al volgo, non pertanto nei suoi componimenti, tanto nella forma quanto nella sostanza, riproduce il sentir comune e l'intelletto dei volghi: vale a dire fra Bonvesin da Riva. Il suo Tractato dei mesi [...] per molti lati si ragguaglia coi nostri testi popolari, salvo che la forma di contrasto, che pur apparisce di natura sua in cotesti componimenti rimasti tradizionale nel volgo, è in quest'antico testo lombardo maggiormente determinata. Probabilmente a preferire tal forma l'autore era condotto e dalla propria propensione, che si mostra anche in altri suoi componimenti, e dalla conoscenza del Conflictus Veri et Hiemis, che l'età media ben conobbe, attribuendolo a Beda, ad Alcuino, a Milone di S. Amand. [...] Quello che ci premeva mostrare, si era soltanto che, nella forma in che ci si presentano, e il componimento raccolto a Sora ed altri consimili sparsi per varie parti d'Italia, rispondono ad un bisogno e ad un uso tutto popolare di rappresentare ciò che di più naturale e necessario appartiene ai varj mesi in che l'anno si spartisce: il che fu fatto e colle rappresentazioni figurate e colle parlate. Ma, lo ripetiamo, quel che in cotesti componimenti vi ha di drammatico non si collega tanto alla commedia dell'arte, quanto a quello spontaneo modo di rappresentare vivamente le proprietà opposte delle cose, onde fra le plebi cristiane dell'età media ottenne tanto generale aggradimento la forma del Contrasto [...]».

Questo genere di rappresentazioni, un tempo diffuso in molte località del Molise e in altre regioni meridionali e centrali, si rinnova a Bagnoli del Trigno dal 1992, con cadenza generalmente annuale, e a Cercepiccola, con cadenza variabile. Il corteo dei Mesi, a Bagnoli del Trigno , viene rappresentato l'ultimo sabato di carnevale, ed è l'evento più significativo tra i tanti che attualmente scandiscono il ciclo festivo di un luogo spopolato dall'emigrazione, come gran parte dei comuni molisani e di quelli montani in generale.

La Rappresentazione dei Mesi a Bagnoli del Trigno

Bagnoli del Trigno (Isernia) è un paese addossato a un massiccio roccioso e sovrastato dai ruderi del castello longobardo, situato su un masso di pietra calcarea. Le sue particolari caratteristiche ne hanno fatto luogo privilegiato di ricerca sociologica nella metà degli anni '50 dello scorso secolo, in quanto isolato e al proprio interno suddiviso a metà, in corrispondenza di situazioni altimetriche, tra "Terra di sotto" e "Terra di sopra": una differenza espressa nei dialetti, negli usi matrimoniali e in una certa competitività tra i due mondi, percepiti come opposti.

Qui, più che altrove, si è manifestato un tentativo di rivitalizzazione delle usanze tradizionali, attraverso la riproposizione di eventi e feste da parte di associazioni culturali locali, impegnate nella ricerca sul proprio territorio. Il carnevale è uno dei risultati di questa operazione di recupero, gestita in ambiti ristretti ma poi accolta da gran parte della comunità che, sin dai mesi precedenti l'evento, si impegna per l'allestimento dei carri che dovranno raffigurare le stagioni, i mesi e le attività agricole. Su ogni carro viene riportata una scena di vita contadina che contiene riferimenti ai singoli temi, attraverso la ricostruzione di ambienti, rurali e domestici, l'impiego di oggetti tradizionali, la riproposizione di tecniche agricole e modalità di preparazione del cibo.

Le scene sono animate da personaggi in costume, tra i quali alcuni uomini in travestimento femminile. I carri, trascinati da trattori, sono contraddistinti da cartelli indicanti i nomi dei mesi e delle stagioni, accompagnati da versi che ne sottolineano le peculiarità: Ecch Gennai e ch la nev 'nghianga, mo dorm tutta la campagna, / r contadin scta atturn a r fuch, arresctisc castagne e magna fasciul. // Ecch Febbrai, ecch Febbrai m diss, hi sing r cchiù curt d tiutt, / ma s l iurn mia l'avess tiutt, facess ilà l vin dentr a l viutt. // Ecch Marz e ch la mia zappetta, pan e acca, facce r digiun, / n' te fugruà ca su' femitt e ca mo facce la mancanza d la liuna. // Ecch April e la legnama spezza, henne fiorit mentagne e valliun, / April z'ha fatt l ramglitt, e Magge z la god tiutta la gioventù. // I singhe Magge bill e ben vesctute, e port hiuri e rose a la Madonna, / raglia l'uasnielle ben pasciute e tir pret a r nid 'n che la hionna. // Ecch Giugn, Giugn ch r cuarr riutt, cuarr mo è rotta la maiesa, / mena chempagn mia ch'è assiutt, e ca sennò perdimm oper e friutt. // Ecch Lugli e la campagna è tiutta d'or, l gran è tant, geisc 'ncor, / iamm mettemmece sott a met, sennò pu dop aremanemm arret. // Ecch Agusct e ch la malatia, l midc ordena la gallina, / la ordena ben fatta e ben chemposta, bongiorn a signeria, a la faccia vosctra. // Ecch Settimbr e ch la fica moscia, l'uva moscatill z fenisce, / ma se l'annata meia vè d prescia, cu perzeca, precoca e mela lisce. // Ecch Ottobre è cap vellegnatore, e m la vuglie fa na vulignata, / na vuttecella d vin cherdisch, na bella donna e ch 'n litt frisch. // Ecch Nevimbr è cap seminator, m la vugl fa na seminata, / n' poch p me e n' poch p l'augell e n'altr poch è p scte donne belle. // Ecch Decimbr, ecch Decimbr m diss, r 6 fu Sant' Ncola, / 25 nasce l Redentor, e z'accid l purch zenza avè delor

Il corteo, nella tarda mattinata, si dirige dalle vie periferiche verso la piazza, dove nel pomeriggio, ha luogo la rappresentazione finale. Alla base vi è il testo che propone la successione dei mesi e delle loro caratteristiche, una sorta di almanacco personificato dai figuranti e rapprentato dalle scene allestite sui carri. Significativo è il ruolo di "Francische 'l giullier", figura centrale del canto bagnolese Sanghe de Serinella. "Francische" indossa una maschera simile a quella di Pulcinella: ha un costume bianco, una cintura dalla quale pende un campanaccio che gli oscilla tra le gambe, il capo sormontato da un cappello a cono, ornato di strisce colorate e con la base a forma di corona, che lo denota come re del carnevale. La sfilata si apre con "Francische", a capo di una processione (nel 2007) con finti sacerdoti, chierici, banda e corona funebre, nella quale si lamenta la morte dell'asina "Rosina", raffigurata dal fantoccio di un asino trascinato su un carretto. Nel corso della festa vengono consumati cibi e bevande, in particolare ricordiamo l'alimento tipico di Bagnoli lo "scattone", un piatto di pasta condita con il vino rosso, e la "paniccia", un composto di verdure.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: E. De Simoni (17 e 18 febbraio 2007)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Carnevale a Castelnuovo al Volturno

Uomo Cervo - ultima domenica di carnevale

Maschere zoomorfe

Le maschere zoomorfe sono presenti in numerosi carnevali europei e italiani, dalla Sardegna all'area alpina, il loro uso cerimoniale è inoltre attestato fin dall'antichità e in aree diverse, in Asia, in Africa e in America. Il travestimento zoomorfo carnevalesco è particolarmente diffuso in ambito agro-pastorale e in zone montane, dove risultano più accentuate le caratteristiche selvatiche della natura e l'importanza del mondo animale.

Le varie forme nelle quali il mascheramento si esprime, nei rituali d'interesse etnologico e nell'iconografia classica, si ricollegano in generale all'aspetto negativo dell'alterità non umana, e rientrano nella dimensione del conflitto tra vita e morte, che caratterizza il carnevale. Tratti lugubri, spaventosi e violenti contraddistinguono questo genere di maschere, che ben rappresentano il carnevale, considerato nel suo aspetto precipuo di drammatizzazione della fine e di propiziazione del nuovo inizio attraverso il sacrificio.

Nella sua lunga storia il carnevale viene osteggiato dal potere dominante, sia esso politico o ecclesiastico, e il travestimento zoomorfo risulta uno degli aspetti più condannati. Paciano, vescovo di Barcellona (IV sec. d.C.), nel suo trattato Cervulus biasima aspramente i rituali di derivazione pagana tenuti nelle calende di gennaio, nei quali è presente la maschera del cervo. Ma più in generale è disapprovato il travestimento da bestia: «In istis enim diebus miseri homines et, quod peius est, etiam aliqui baptizati sumunt formas adulteras, species monstruosas, in quibus quidem quae primum ridenda aut potius dolenda sint, nescio. Quis enim sapiens credere poterit, inveniri aliquos sanae mentis, qui cervulum facientes in ferarum se velint habitus commutare? Alii vestiuntur pellibus pecudum; alii adsumunt capita bestiarum, gaudentes et exultantes, si taliter se in ferinas species transformaverint, ut homines non esse videantur».

Alla figura del cervo sono associate immagini contrastanti: dal dramma di Atteone, tramutato in cervo da Diana e sbranato dai propri cani, alla divina apparizione del Salvatore a Sant'Eustachio, tra le corna di un cervo. Nelle forme carnevalesche il cervo, come le altre espressioni del selvatico zoomorfo, si mostra nella sua duplice valenza di morte e di vita, e soltanto attraverso la sua uccisione si può attuare la rinascita della natura.

L'Uomo Cervo a Castelnuovo al Volturno

La pantomima dell'Uomo Cervo, organizzata a Castelnuovo al Volturno (Isernia) l'ultima domenica di carnevale, si può ricollegare a rituali d'antica origine, presumibilmente connessi non solo a scene di caccia ma anche a incursioni di animali feroci dal bosco al centro abitato. Riproposta dall'Associazione Culturale "Il Cervo" dal 1993, in forma di spettacolo e non più come spontanea manifestazione carnevalesca, la rappresentazione prevede il coinvolgimento di numerosi personaggi, ma le figure centrali sono: il Cervo, la Cerva, Martino e il Cacciatore.

Sin dalla mattina figuranti in costume preparano il cibo per la festa, in particolare la polenta, in grosse pentole di rame. Nel pomeriggio gli attori si dedicano alle complesse operazioni del trucco e del mascheramento, e la gente comincia a radunarsi in piazza, intorno allo spazio circolare che delimita la pantomima. Dopo il tramonto ha inizio la rappresentazione, con l'arrivo delle Janare, streghe dal volto scuro e dalle lunghe capigliature, accompagnate dal Maone, il loro corrispettivo maschile (Queste figure sono state introdotte nella riproposizione). Le Janare danzano intorno al fuoco mentre il suono delle zampogne preannuncia la discesa del Cervo, che giunge improvviso e violento. Il Cervo ha il capo sormontato da grandi corna ramificate, indossa un costume di pelli ruvide e scure sul quale pendono alcuni campanacci, le mani e il volto sono anneriti. Entra dunque in scena la Cerva, ricoperta da un pellame più chiaro. I due si avvicinano, si annusano e comincia il corteggiamento. Sia il Cervo che la Cerva, tuttavia, si abbandonano a tratti a comportamenti aggressivi e bestiali.

La loro furia viene arginata da Martino, un Pulcinella locale. Il costume di Martino è composto da un abito bianco e da un lungo cappello conico addobbato con nastri colorati, il suo volto è vistosamente truccato, ai piedi calza le cioce, in mano ha un bastone e una fune. Martino tenta di catturare gli animali, che fuggono manifestando la loro rabbia con salti e gesti violenti, anche nei confronti della gente che assiste alla pantomima. I Cervi vengono quindi presi e legati da Martino con la fune, ma riescono facilmente a liberarsi. La loro furia sembra non avere limiti, rifiutano anche il cibo che gli viene offerto. Soltanto il Cacciatore riesce a fermare la violenza delle bestie, uccidendole con un fucile. Dopo l'esecuzione, il Cacciatore si avvicina ai corpi degli animali, si china e soffia nelle loro orecchie, restituendo la vita e liberandoli dal male. La rappresentazione termina con l'accensione di un grande falò.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (26 febbraio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Carnevale a Cercepiccola

Rappresentazione dei Mesi - ultima domenica di carnevale - cadenza pluriennale

Rappresentazione dei Mesi a Cercepiccola

A Cercepiccola (Campobasso), l'ultima domenica di carnevale, ha luogo la rappresentazione dei Mesi, una mascherata a cavallo organizzata con cadenza variabile. Tra l'edizione del 1996 e quella del 2008 intercorrono infatti dodici anni. Secondo alcune fonti si ha notizia dei Mesi di Cercepiccola soltanto dagli inizi del XX secolo. La rappresentazione richiede un grande impegno da parte degli abitanti, per l'allestimento dei costumi, in parte antichi, per l'addobbo degli animali e la cura delle scene.

La sera precedente l'evento vengono preparati, con pazienza e abilità, i tipici dolci di carnevale, frappe e struffoli, fritti in un grande recipiente di metallo. Nella palestra della scuola si fanno le ultime prove di canto e di recita, accompagnate dal suono di chitarre e fisarmoniche. Un folto gruppo di bambini e gli interpreti principali ripetono i canti e i testi in successione, secondo le parti assegnate.

Nelle prime ore della mattina seguente si procede nelle case alla complessa vestizione dei partecipanti, mentre in strada si bardano e si addobbano gli animali. La rappresentazione si caratterizza per la ricchezza degli ornamenti, in particolare alcuni personaggi indossano corpetti rivestiti d'oro, pesanti da uno a due chilogrammi. Per realizzare questo rivestimento, si raccoglie presso le famiglie del paese l'oro, che verrà restituito al termine della festa.

Il corteo è composto soltanto da uomini, generalmente trentadue, che cavalcano cavalli e asini ornati da coperte colorate e con il capo sormontato da pennacchi variopinti. Le parti femminili sono interpretate da ragazzi vistosamente truccati. I personaggi sono: due Pulcinella; un Arlecchino; un Presentatore; un Direttore d'orchestra; gli Orchestrali, otto al massimo, con fisarmoniche e chitarre, sugli asini; un Nonno, che rappresenta il secolo; un Padre, che rappresenta l'anno; dodici Mesi; quattro Stagioni; il carretto dei Cinciunar (straccioni). Ad ogni cavalcatura viene affiancato uno scudiero. Dopo il raduno, il corteo inizia a sfilare nelle vie centrali, e dinnanzi al pubblico ogni personaggio interpreta, a turno, la propria parte, recitata e cantata, sulla base dei testi tradizionali di Cercepiccola.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: R. Cavallaro (25 febbraio 1973) e E. De Simoni (3 febbraio 2008)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Domenico a Cocullo

Serpari - primo giovedi di maggio (dal 2012 il 1° maggio)

La festa

A Cocullo (L'Aquila) il primo giovedì di maggio si celebra la festa di San Domenico, il santo patrono, conosciuta anche come la "Festa dei Serpari", l'avvenimento religioso più noto di tutto l'Abruzzo, festa ricca di sincretismi in molti aspetti della sua ritualità. Il patronato del Santo, al quale si attribuisce un miracoloso potere contro i morsi dei serpenti, si giustifica con un episodio narrato in "Vita e morte del beato Domenico di Sora", scritto da Giovanni, suo discepolo e compagno delle innumerevoli peregrinazioni. Egli narra che «un giorno il priore di Montecassino gli mandò al suo monastero di San Bartolomeo parecchi pesci come dono. Poco prima di arrivare i frati decisero di nascondere quattro fra i più grandi in una cavità della roccia per poi riprenderseli al ritorno. Il Santo dopo averli baciati li invitò a pranzare insieme con lui e i confratelli. Quando al terzo giorno espressero il desiderio di ritornare all'abbazia, Domenico scongiurò loro di non accostarsi ai pesci che avevano nascosto perché si erano trasformati in serpi. E poiché quelli erano perplessi, li fece accompagnare da due frati che portavano il suo bastone. Arrivati alla roccia, trovarono effettivamente delle serpi che, toccate dal magico bastone, tornarono pesci. I due frati, scossi dall'insolito episodio, corsero da Domenico chiedendogli fra le lacrime di intercedere in cielo per la loro salvezza. Il santo, commosso e impietosito, prescrisse loro un digiuno di tre giorni al termine del quale, raccoltosi in preghiera, ne ottenne il perdono».

L'episodio rappresenta una rivisitazione cristiana di rituali e credenze ben più antichi che fonde e trasferisce sul Santo culti precristiani, come quello della dea Angizia, il cui tempio si trovava presso Luco dei Marsi, e alla quale i Marsi, popoli italici del luogo, noti sin dall'antichità come serpari, erano devoti. La dea, una delle tante Signore degli animali italiche, è riconoscibile in una statuetta femminile che trattiene un serpente nella mano sinistra, rinvenuta presso il lago del Fucino. Altro culto di riferimento è quello del sacerdote Umbrone, incantatore di serpenti, descritto da Virgilio nell'Eneide. La figura del serparo si perpetua anche nel medioevo ed oltre, fino ai giorni nostri: il "ciarallo", una sorta di incantatore di serpenti capace anche di immunizzare dal loro morso, si convertirà in serparo.

Alla fine della stagione fredda, alcuni cocullesi, detti "serpari", che secondo la tradizione, conoscono il segreto per rendere inoffensivi i serpenti con il suono del corno (kerallos), si recano sulle falde dei monti vicini per dare la caccia e catturare le serpi (bisce, cervoni, colubri, lattari, ecc.), che saranno le "accompagnatrici" del Santo durante la processione. La caccia si svolge fino al giorno precedente la festa, nel giorno della vigilia detta "festa piccola" o "Santa Maria", giorno in cui si commemorano ufficialmente i caduti, mentre la banda cittadina dà inizio alle esibizioni musicali e le bancarelle cariche di mercanzie aprono i loro "battenti".

Dopo la celebrazione della santa messa nel santuario di San Domenico inizia la vestizione della statua del Santo che, adagiata sul sagrato viene addobbata con ori e grovigli di serpenti vivi segnati sulle teste, viene quindi portata a spalla in processione fino a raggiungere la sommità del paese, dove riceve l'omaggio dei fuochi pirotecnici. Il corteo è preceduto da ragazze in costume tradizionale che portano canestri colmi di ciambellati benedetti, grosse ciambelle di pasta dolce decorate con confetti, che verranno offerte al portatore dello stendardo e a quelli del simulacro del santo.

Durante la processione i rettili si intrecciano in spirali scenografiche e si attorcigliano intorno alla testa del Santo: se i serpenti arrivano a coprirne anche il volto l'avvenimento viene ritenuto di cattivo auspicio. I serpenti a Cocullo sono più rispettati che altrove, specialmente da quando è venuta meno la consuetudine ucciderli alla fine del rituale: fino a non molti anni fa le serpi venivano "sacrificate" nel piazzale della Chiesa di San Domenico, mentre oggi un diverso spirito religioso e una intervenuta consapevolezza ecologista, fanno sì che queste vengano liberate negli stessi luoghi dove sono state catturate.

Al termine si fa ritorno al santuario, dove si svolgono i riti di più intensa carica emozionale. Il culto popolare, come già si è detto, attribuisce a San Domenico anche poteri antifebbrili, antiodontalgici; per questo motivo, nella Cappella di San Domenico, che accoglie l'effige del Santo, i fedeli fanno la fila per raccogliere da dietro l'altare pietrisco da spargere intorno alle case a protezione dalle serpi e da utilizzare anche a scopo rituale nei campi. A questo punto si compie il rito della campanella: i fedeli tirano con i denti la corda della campanella, collocata vicino alla cappella, per preservarsi dal mal di denti ed eseguono riti propiziatori di benedizione alle persone e agli animali. Singolare il commiato dei pellegrini di Atina, radunati per la partenza dinnanzi alla statua, al suono di zampogna e ciaramella: «Addio San Domenico/ noi siamo di partenza/ e dacci la licenza,/ la santa benedizion...». Essi ripetono più volte il saluto, mentre con il viso rivolto al Santo, camminano all'indietro in un lento salmodiare.

Testo: P. Izzo. Adattamento a cura della Redazione

Cocullo

Cocullo (L'Aquila) è situato ai confini tra la Valle Peligna e la Marsica, nell'alta Valle del Sagittario. Il suo più antico insediamento, la cittadina greca indicata dallo storico Strabone (I sec. a.C.) con il nome di Koνκoνλoν, è stato identificato in località Triana e Casale in prossimità dell'odierno paese. Oltre alle considerevoli testimonianze di necropoli preromane, assimilabili in generale alle tombe peligne più antiche, furono ripetutamente verificate in passato presenze di reperti di età romana quali mosaici, muri e isolati resti riconducibili al periodo imperiale. Nel medioevo le esigenze difensive costrinsero la popolazione a rifugiarsi più in alto e a cingere di mura il paese, incluso nella Diocesi di Valva e soggetto politicamente alla Contea dei Marsi, potente famiglia feudale con sede nella vicina Celano. Le famiglie di feudatari che si avvicendarono sul territorio furono numerose: dai Piccolomini ai Peretti, dai Savelli ai Barberini, ai Colonna.

Nel cuore del centro storico, nella parte più elevata del paese, sorge il Rione San Nicola, che racchiude in sé una delle zone urbane meglio conservate e significative. Sovrasta le antiche mura la Torre medievale a base quadrata, (sec. XII) costruita in blocchi di pietra e riadattata a campanile dell'attigua Chiesa di San Nicola, danneggiata gravemente dal terremoto del 1915. La sua facciata mostra i molteplici interventi effettuati durante i secoli di impiego dell'edificio sacro, ormai sconsacrato e ridotto a pochi resti. Opposta al Rione San Nicola sorge la Chiesa di San Domenico dove rivivono i riti in onore del Santo e parte la processione di maggio. Il santuario quasi completamente ricostruito nel corso del XX secolo, sorge sul luogo di una chiesa più antica, dedicata a San Domenico sin dal XVII secolo, periodo in cui divenne patrono di Cocullo.

San Domenico

San Domenico Abate, sacerdote e monaco benedettino nato a Foligno nel 951, giunse alle soglie del Mille in Abruzzo, dove fondò chiese e fu considerato autore di numerosi miracoli. Domenico, dopo aver frequentato una scuola per apprendere a leggere le Sacre Scritture decise di dedicarsi alla vita religiosa, praticando la fede e l'osservanza della regola benedettina "ora et labora" ogni atto della sua vita: da quando scelse di entrare nel monastero di San Silvestro, a Foligno, a quando si spense, a Sora il 22 gennaio 1031, nell'abbazia da lui stesso fondata cui lasciò in eredità il suo corpo, che ancora oggi è profondamente venerato.

La sua opera missionaria con le numerose costruzioni di monasteri e chiese rispondeva, da un lato, all'esigenza di portare la parola divina tra la gente, per diffondere i valori della cristianità e, dall'altro, a quella di divulgare la conoscenza delle tecniche agrarie, delle pratiche mediche e delle abilità artistiche; cioè di tutte quelle attività che i monaci benedettini, da ben cinque secoli, esercitavano con successo fornendo un aiuto concreto alle popolazioni locali.

Domenico divenne ben presto molto famoso anche per le sue virtù taumaturgiche: ancora oggi egli è venerato come protettore dalle tempeste, dalla febbre, dalla rabbia, dai morsi degli animali selvaggi e velenosi (come ad esempio i serpenti) e dalle malattie dei denti. Il Santo, che svolse anche un importante ruolo di riorganizzazione del mondo monastico del tempo scosso da una profonda crisi di valori, fu considerato il precursore di importanti movimenti di rinnovamento monastico, come quello dei Cistercensi o dei Cluniacensi e della nascita di nuovi ordini: quelli dei Domenicani e dei Francescani.

Le testimonianze sulla vita di San Domenico Abate sono tratte da due agiografie, scritte pochi decenni dopo la sua morte, dal monaco Giovanni, che lo aveva seguito per gran parte della sua vita, e dal monaco Alberico, cassinese, divenuto successivamente cardinale. Esiste anche una importante raccolta di miracoli, riportata nell'Analecta Bollandiana, di cui non si conosce l'autore, alcune citazioni sulla Chronica Casinensis ed alcuni documenti relativi alla donazione dei cenobi costruiti. Quindi, c'è il ricco filone che ha avuto inizio nel 1604 con l'opera di Gaspare Spitilli ed è proseguito con lo Iacobilli e con il Tosti, al quale si sono rifatti quasi tutti gli autori successivi, apportando soltanto piccole variazioni.


Foto: V. Contino, 1969
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: R. Ludovici, 1982
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: M. Marcotulli, 1983-1998
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: A. Lombardozzi, 1990
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: M. Marcotulli, 2005
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Madonna del Carmine a Pedali di Viggianello

Terza domenica di agosto

La festa

La terza domenica di agosto a Pedali di Viggianello (Potenza) si festeggia la Madonna del Carmine, con un rito particolare e complesso che presenta analogie con festeggiamenti similari che si tengono nei paesi vicini di San Giorgio Lucano ed Episcopia. La celebrazione sembra risalire ancor prima dell'Ottocento e la presenza della danza - danza del falcetto e danza dei cirii unitamente alla processione dei cinti e della meta animata da musiche e canti - costituisce un forte richiamo a comportamenti legati alla terra e alle antiche comunità rurali.

I festeggiamenti cominciano già qualche giorno prima della data prestabilita con una serie di preparativi. I devoti, dal giovedì e venerdì antecedenti alla domenica di festa, si riuniscono per ornare i cirii, le cinte e la meta. Il venerdì pomeriggio, al termine di questa preparazione, si festeggia con la musica al suono di organetti e tamburelli. Nel frattempo, venerdì e sabato mattina, i componenti del Comitato festa girano per le frazioni a raccogliere dai fedeli il grano e gli animali che saranno messi all'asta in piazza il sabato sera: vengono offerti galline, conigli, anatre, colombi e ghiri che saranno utilizzati per ornare la meta.

Intorno alle ore 15,00 del sabato, i cirii, le cinte e la meta partono da località Pezzo la Corte per raggiungere la Piazza San Francesco di Paola a Gallizzi dove vengono benedetti. Lungo il tragitto, anziani, vestiti come era uso un tempo per la mietitura, con fauci, vantera e cannieddi - falce, mantello di tela e protezioni di legno per le dita - al suono di zampogne, organetti e tamburelli mimano l'antica danza del falcetto. Alle ore 18,00 le donne iniziano, al ritmo della tarantella, la danza con i cirii, tenendo in bilico con grande maestria i cirii sul capo. Terminata la danza, ha inizio l'asta detta anche incanto: un battitore, con voce imponente, sollecita i presenti all'acquisto dei doni e del grano offerti dalla popolazione.

La festa religiosa comincia al mattino della domenica con la messa e prosegue nel pomeriggio con la processione. La statua della Vergine viene rimossa dalla chiesa ove è custodita e posta su un tavolo intorno al quale i devoti danzano con i cirii, esprimendo con andamento ripetitivo la "figura del 'cerchio magico' o cerchio protettivo, il cui potere si conserva a tutt'oggi in molte credenze popolari. Il tragitto della processione si snoda percorrendo tutte le contrade per quasi quattro ore e si ferma poi in località Santoianni dove le donne, con i cirii sulla testa, danzano ancora la tarantella al suono degli organetti e della banda musicale.

Cirri, cinte e meta

I cirii, le cinte e la meta offerti alla Madonna nel corso del rituale sono composizioni formate da intrecci di cereali: i cirii hanno la struttura in legno addobbata con mazzetti di spighe di grano e nastri colorati e sono portati sul capo dalle donne, le cinte vengono decorate invece con candele e sono offerte dai devoti che fanno il voto alla Madonna, la meta è una struttura mobile in legno di grosse dimensioni, portata a spalla dagli uomini, decorata con spighe di grano a ricordare la forma del covone che si faceva un tempo dopo la mietitura, ad essa vengono legati animali dell'aia e ghiri in segno di ringraziamento alla terra per la messe prodotta. Anticamente, le donne lungo la processione recavano sul capo anche dei contenitori di legno contenenti grano macinato. L'origine di queste composizioni simboliche di cereali e ceri, adornate con nastri colorati ed animali, è complessa e potrebbe essere ricollegata a riti pre-cristiani legati alla coltivazione del grano, alla mietitura, alla morte e rinascita del ciclo vitale e annuale della terra.

La danza

Il rituale della danza del falcetto, momento importante e simbolico della festività di Pedali, è mimata da uomini che, agendo come se stessero mietendo il grano, agitano le falci nel gesto della mietitura, rasano allegoricamente l'asfalto con la lama, tagliano l'erba ai bordi della strada al ritmo di tarantella in un contesto di suoni di zampogne, musiche di organetti e balli. Il significato simbolico dei singoli gesti è, al giorno d'oggi, sconosciuto alle persone, mentre in passato il loro senso costituiva patrimonio comune condiviso e inteso in maniera naturale e spontanea. Fra le molteplici interpretazioni e significati che vengono ascritti alla danza del falcetto, è interessante segnalare la tesi secondo la quale i mietitori nell'avanzare con la danza, mimando l'atto della mietitura, effettuerebbero allo stesso tempo un rituale di esorcismo delle forze negative della natura e al contempo un atto positivo di vincita rispetto ad esse attraverso la raccolta del frutto.

La danza del falcetto praticata a Pedali, come le analoghe danze armate della valle del Sinni di S. Giorgio Lucano e di Episcopia, sempre danzate da soli uomini, sono danze arcaiche che potrebbero risalire ad antiche pratiche pre-cristiane connesse con il culto di Giunone o Cerere. che accompagnano da sempre le movenze dei corpi. La presenza costante del ballo caratterizza fortemente la festa della Madonna del Carmelo di Pedali di Viggianello dove zampogne, tamburelli e organetti fanno muovere al ritmo di tarantella non solo gli uomini con la falce, ma anche le donne con i cirii ed i fedeli con le cente sulla testa.

Pedali di Viggianello

Viggianello, situata nella parte occidentale del Parco Nazionale del Pollino a 500 m.s.l.m è circondata da montagne e distese di boschi intercalate da pascoli verdi e colture di frumento. La religiosità ed il senso del sacro degli abitanti di questa zona sono molto forti e si esprimono anche attraverso una tradizione religiosa ancora intensamente sentita e partecipata. Secondo la tradizione la fondazione di Viggianello risale al tempo della Seconda Guerra Punica, come sembrano confermare i reperti archeologici ritrovati nei suoi dintorni. Probabile presidio romano - intorno al 132 a. C. - sulla via che congiungeva Roma con Reggio Calabria, non è più menzionata nei periodi successivi, fino al 1132 quando il nome di Vinginello appare per la prima volta in un documento successivo alla conquista da parte dei Normanni.

Anche a Viggianello e nei dintorni, come in gran parte del meridione, nel XVII secolo infuriarono le epidemie di peste che decimarono la popolazione e che probabilmente contribuirono a sviluppare il senso religioso e la ricerca di conforto nel sacro. Allontanandosi di qualche chilometro da paese, si incontra la frazione di Pedali dove la tradizione vuole che in "località Gallizzi, ora luogo sacro della frazione di Pedali", fosse già presente il culto alla Madonna, anche se l'edificio della Chiesa Parrocchiale del S. Carmelo fu edificato solo nel corso del secolo XIX.

Testo: F. Floccia e B. Terenzi (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione


Foto: S. Cuneo, 1996-1998
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: A. Corraro, 2004-2007
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Madonna della Bruna a Matera

2 luglio

La processione

La festa della Madonna della Bruna costituisce per i materani un evento davvero speciale, coinvolgente e atteso per tutto l'anno. La festa ha inizio all'alba del 2 luglio, con la messa solenne in cattedrale, seguita dalla cosiddetta "processione dei pastori" che, annunciata dai fuochi pirotecnici, porta per le vie principali della città, il quadro della Madonna della Bruna, che si narra sia stato trovato sotto un albero proprio da alcuni pastori. A mezzogiorno prende avvio la seconda processione: quella in cui è la statua della Madonna, guidata dalle autorità religiose e civili e scortata dai "Cavalieri della Bruna", ad essere lentamente condotta dalla Cattedrale verso la periferia della città, precisamente nella chiesa del quartiere popolare di Piccianello.

Nel tardo pomeriggio, dopo la messa, la statua viene collocata nella "torretta" a poppa del Carro trionfale di cartapesta. Incomincia così, all'imbrunire, la lenta processione di ritorno verso il centro della città. Una volta giunto sulla piccola piazza antistante la cattedrale, al Carro si fanno compiere tre giri, e solo successivamente la statua, accompagnata dalla Curia Arcivescovile, viene deposta nella Cattedrale. A questo punto il Carro, ormai privo della sacra immagine e scortato da cavalieri montanti cavalli bardati di fiori di carta e velluto, ma recentemente anche da agenti delle forze dell'ordine in tenuta antisommossa, inizia a guadagnare la strada verso Piazza Vittorio Veneto, dov'è radunata una gran folla in attesa di assistere allo "strazzo": l'assalto e la distruzione dello stesso carro, frutto di un lavoro artigianale durato molti mesi. Dopo lo "strazzo" la festa si conclude a tarda notte con i fuochi pirotecnici.

I Cavalieri della Bruna

Sono personaggi che si tramandano questo ruolo di padre in figlio, con una precisa gerarchia: generale, vice generale, portabandiera, trombettiere, ecc. Scortano la processione pomeridiana lungo tutto il suo percorso. Indossano costumi non appartenenti ad un'epoca precisa, sono pesantemente ornati da nastri colorati, medaglie, penne e piumini, elmi ed armature luccicanti. Hanno cavalcature dall'aspetto maestoso, e cavalli appositamente addestrati a mantenere la calma in occasione delle numerose situazioni di ressa o in allo scoppio dei mortaletti. Anche gli ornamenti dei cavalli sono particolari: tanti fiori di carta preparati appositamente, ogni anno, dalle donne materane.

Secondo alcuni questi personaggi sono arrivati fino a noi dalla antica processione di Sant'Eustachio, primo patrono di Matera, appartenente all'esercito imperiale romano e spesso rappresentato in armi. Secondo altri sono personaggi che originariamente avevano il compito di difendere il carro dallo "Strazzo" anticipato. In realtà molte processioni del Sud Italia ad un certo punto della loro storia sono diventate "processioni scortate" da uomini in armi appartenenti non necessariamente alla milizia regolare, ma spesso anche a compagnie di cittadini o addirittura a compagnie giovanili.

Lo Strazzo

Dopo ore di lenta ed estenuante processione, la tensione a lungo accumulata si riversa con forza estrema nel rito finale dello "strazzo": la festa della "Bruna" non è concepibile senza quest'atto finale. Protagonisti del rito collettivo, al quale tutti i materani sentono l'obbligo di assistere, sono soprattutto i giovani della città. In pochi minuti il carro viene totalmente spogliato delle sue componenti più preziose o cariche di significato religioso.

La comunità distrugge per vedere rinascere ciò che è diventato un simbolo e i trofei di cartapesta, portati a casa o nei luoghi di lavoro, costituiranno un segno di benedizione e felice auspicio per la vita di ognuno per il resto dell'anno. Vale comunque la pena segnalare, con riguardo alla distruzione del carro, come fra il '400 e il '500 fosse comune la pratica del mettere a sacco baldacchini, carri e apparati nel corso di cerimonie ufficiali.

Il Carro

La macchina tradizionale - lunga circa dodici metri, larga tre ed alta quattro - è realizzata in cartapesta ed è montata su una struttura motrice trainata da coppie di muli. Si aggiudica l'assegnazione della gara per la costruzione il cartapestaio che meglio raffigura la scena prescelta nella bozza di presentazione, al miglior prezzo. Il carro è ogni anno diverso ed è arricchito da decorazioni, spesso di notevole pregio artistico, che rimandano a parabole e vicende narrate dal Vangelo e scelte annualmente dal vescovo della città.

La consegna del manufatto è fissata al 29 giugno, festa dei Santi Pietro e Paolo, quando, di sera, il Carro viene benedetto dal Vescovo ed è esposto alla cittadinanza. Anticamente il carro veniva offerto dalle famiglie nobili della città per onorare la Madonna nel giorno della sua festa, successivamente la responsabilità della costruzione del carro fu affidata ad un Comitato che ne è responsabile fino alla sua distruzione.

Numerosi sono i maestri cartapestai, arte particata da secoli a Matera, artefici dei carri e tanti sono gli artigiani ricordati dai materani, ma tra i più famosi, tra l'800 e il 900, sono da ricordare Francesco e Pasquale Nicoletti, Francesco e Michele Pentasuglia, Francesco e Annibale D'Antona, Raffaele Pentasuglia, i fratelli Epifania, Michele Amoroso, Vincenzo Ruggieri, Panza, Conversi.

Testo: P. Izzo (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

Storia di Maria Santissima della Bruna

La "Festa della Visitazione", di origine francescana e già solennizzata dai frati minori sin dal 1263, fu estesa nel 1389 a tutta la Chiesa da papa Urbano VI, che era stato anche vescovo di Matera, il decreto -promulgato nel 1390 dal suo successore Bonifacio IX- indicava nel 2 luglio il giorno della ricorrenza liturgica.

Circa l'origine del nome "Bruna" sono state avanzate diverse ipotesi: derivazione dal latino longobardo "brunja" - tedesco "Brünne"- cioè usbergo, corazza, armatura, con connessione quindi alla difesa della città, derivazione da "Hebron", la località della Giudea dove Maria si recò per la Visitazione all'anziana cugina Elisabetta, infine, richiamo all'origine bizantina della Vergine raffigurata nel dipinto conservato Nel Duomo.

Anche sull'origine del culto, che è giunto a noi come somma di successive stratificazioni, e sull'origine dello sfascio del carro che ne è l'elemento più caratteristico, le fonti documentarie sono scarse e la tradizione orale è contrastante: da molti elementi si suppone che esso sia precedente alla costruzione della Cattedrale ed all'istituzione della "Festa della Visitazione". Un bassorilievo ancora visibile su una lunetta della Cattedrale attesta una processione aperta da una statua della Vergine e non da un dipinto, in una prima fase la festa potrebbe dunque aver avuto un carattere di estrema semplicità molto simile a quella che ancora oggi viene chiamata "Processione dei Pastori". E' a partire dal 1500 che la festa subisce un radicale cambiamento, forse su suggerimento di Mons. Ryos, originario delle Spagna, paese nel quale molte processioni hanno un impianto simile a quello materano.

In una delle variante orali più complete ed articolate, si narra di una donna "dimessa negli abiti, ma di straorinaria e luminosa bellezza" apparsa ad un carrettiere al rientro dai campi. La "bella signora" chiede al carrettiere un passaggio sul suo carro e questi, dopo averla accompagnata fino alle porte della città, nei pressi della chiesetta di Piccianello, la prega di scendere dal carro, per non dare adito a pettegolezzi da parte dei concittadini. La donna, prima di scendere, consegna al carrettiere un foglietto, pregandolo di recapitarlo al Vescovo. Il messaggio riportava un'invocazione della Madonna che chiedeva di essere prelevata dalle autorità civili e religiose della città. Il Vescovo si mosse immediatamente e quando, insieme alle autorità civili, arrivò sul luogo in cui era fermo il carro, con grossa meraviglia vide che il mezzo si era trasformato in un bellissimo carro trionfale, sul quale dominava la statua della Madonna. Il carro, allora, fu condotto verso la Cattedrale e, arrivato nella piazza antistante, fece tre giri, per sancire la presa di possesso della città da parte della Madonna. Nel frattempo i soldati di stanza nella città avevano ricevuto l'ordine di sequestrarlo, ma i fedeli, piuttosto che consegnarlo, preferirono distruggerlo e impossessarsi ciascuno di una sua pur piccola parte.

Un'altra leggenda narra che, durante un assalto saraceno, i materani decisero di distruggere il carro, per scongiurare il pericolo che cadesse nelle mani degli "infedeli".

Matera

Le evidenze archeologiche dell'area della Murgia materana testimoniano che le grotte naturali, che ancora oggi è possibile ammirare a Matera, sono state abitate fin dal paleolitico. Le origini della città, nominata Patrimonio dell'umanità dall'Unesco, vengono fatte risalire ai coloni greci sfuggiti alla conquista romana della Magna Grecia, altre versioni considerano Metello, console romano nel 90 a.C., fondatore della città chiamata Meteola in suo onore, altre ancora rimandano alla parola latina materia o materies (legno, legname da lavoro o da costruzione), basandosi sull'antica ricchezza di vegetazione del territorio; tuttavia l'ipotesi più accreditata è quella che riconduce l'origine del nome attuale della città al termine meta o mata, cioèmucchio, altura sassosa, cumulo, da cui il nome Sassi.

La storia e la cultura della città - e secondo alcuni anche il culto alla Madonna della Bruna - sono state fortemente influenzate dalla presenza saracena e dalla dominazione bizantina, nel corso della quale arrivarono a Matera i monaci orientali che consolidarono il cristianesimo e costruirono chiese e cenobi. I Normanni impossessatisi della città, iniziarono il processo di sostituzione del rito greco con quello latino favorendo la diffusione degli Ordini Monastici dipendenti dalla Chiesa di Roma. Non è, inoltre, da sottovalutare la presenza nel materano di numerosi Ordini cavallereschi. Le successive lotte per il dominio del regno svevo porteranno Matera a far parte del ducato di Benevento prima e della Terra d'Otranto poi. A metà del Seicento Matera, distaccata dalla Terra d'Otranto, viene eletta "Sede della Regia Udienza della Basilicata" e conoscerà un nuovo impulso culturale, urbanistico ed architettonico che la porterà ad estendere l'impianto urbano fuori dai Sassi, sul cosiddetto "Piano" e ad acquisire la fisionomia che ancora oggi la contraddistingue.

La storia dell'attuale Cattedrale di Matera, che si erge nella Civita, il nucleo più antico della città, non è sufficientemente documentata: edificata probabilmente su un luogo di culto più antico in pieno periodo federiciano, tra il 1226 e il 1231 e terminata nel 1270, fu originariamente dedicata a Santa Maria di Matera, poi a Santa Maria dell'Episcopio. Nel 1380 o nel 1389, papa Urbano VI attribuì alla Cattedrale il titolo di Santa Maria della Bruna e nominò la Madonna patrocinante della città. Infine, nel 1627, Mons. Fabrizio Antinori, Arcivescovo di Matera, intitolò la Cattedrale sia alla Madonna della Bruna, sia a Sant'Eustachio, compatrono della città.

L'affresco della "Madonna della Bruna", custodito nella cattedrale, quello a cui si rivolge la devozione popolare, è un dipinto di scuola bizantina che rappresenta l'Odigitria (Colei che indica la Via), ossia la Madonna che regge il Bambino benedicente (con due dita, secondo l'uso rituale greco) sul braccio sinistro e lo indica con il braccio destro. L'opera, secondo alcuni storici dell'arte, risalirebbe al XIII secolo, sarebbe cioè coeva alla costruzione della Cattedrale.

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San Giuliano ad Accettura

Il Maggio di Accettura

In occasione dei festeggiamenti per San Giuliano, patrono di Accettura, in provincia di Matera, si svolge ogni anno la sagra del Maggio, un antico rito nuziale e propiziatorio.

Foto: S. Paderno
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Rocco a Tolve

16 agosto - 16 settembre

La festa

Uno degli aspetti che maggiormente caratterizza oggi il culto di San Rocco a Tolve (Potenza) è lo sdoppiamento della festa che inizialmente si svolgeva solo il 16 agosto e che a partire dal 1904 viene replicata anche il 16 settembre. La motivazione di questo duplice appuntamento non risulta ben chiara, le fonti storiche più accreditate giustificano questa scelta con una motivazione connessa all'andamento della vita agricola: nel mese di agosto, i contadini tolvesi erano impegnati nei campi nella raccolta del grano e la festa del Santo patrono finiva per distoglierli dai loro impegni, inoltre il doppio festeggiamento offriva la possibilità di trarre vantaggio da un duplice flusso di pellegrini e di offerte e facilitava la gestione del gran numero di fedeli in arrivo. In conclusione la pratica di festeggiare San Rocco in due tempi diversi ha incontrato il favore di tutti e per questo è continuata nella pratica attuale.

Il rito del 16 agosto

I percorsi dei pellegrini che dai loro paesi si avvicinavano a Tolve spesso si sviluppavano lungo i tracciati dei tratturi ed erano intrapresi a piedi, sugli asini o sui carretti, con una durata spesso di più giorni - ancora oggi accade che qualche pellegrino arrivi a piedi come voto al Santo - lungo queste strade si sono andate creando tappe di sosta dove i pellegrini riprendevano le forze, si incontravano, condivendo le loro esperienze di fede. Lungo questi tragitti, edicole votive e chiesette sono diventate passaggi obbligati presso i quali ogni comunità in cammino di devozione si ferma per svolgere i propri riti.

I festeggiamenti iniziano con la prima festa del 16 agosto, richiamando quelli che i tolvesi definiscono "pellegrini della marina", in passato, infatti, accorrevano in questa data soprattutto i contadini provenienti dai paesi della pianura sottostante dove la mietitura era già terminata. Attualmente, oltre ai tanti emigranti che fanno ritorno al proprio paese per le vacanze, alla processione del 16 partecipano i fedeli dai vicini paesi di Spinazzola, Minervino Murge Montemilone, Palazzo S. Gervasio, Genzano, Banzi, Grassano, Oliveto Lucano, Calciano, Forenza, Acerenza e Oppido Lucano.

Fino agli inizi del secolo scorso, alla vigilia della festa, gruppi di pellegrini trascorrevano la notte intorno ai fuochi, cantando e ballando. Oggi i festeggiamenti di agosto, proprio per la natura stessa dei pellegrini partecipanti, assumono una aria di sagra di paese e nella via principale addobbata di luminarie viene allestito un variopinto mercato che offre i prodotti più diversi. Nel mescolarsi alla folla è ancora possibile incontrare degli anziani che indossano parte del vecchio abbigliamento tradizionale: alcuni uomini passeggiano nei loro pantaloni e gilets di velluto pesante, i bastoni e le robuste scarpe, alcune donne indossano le ampie gonne scure, con il grembiule, le camicie lavorate ed il capo coperto con gli ampi "fichu". Continua, anche se in maniera molto minore, la vecchia pratica devozionale di portare al santuario i propri bambini indossando il costume tipico del Santo, come tributo e ringraziamento per grazia chiesta o ottenuta.

Il rito culmina il 16 agosto con la solenne processione del mezzogiorno intorno al paese, della durata di circa tre ore. La statua lignea, custodita nel Santuario, per l'occasione viene "vestita" con tutto l'oro del tesoro di San Rocco costituito da un numero immenso di catenine d'oro, medaglie, orologi, bracciali, collane, penne ed anelli donati al santo. Le stime più attendibili dicono che l'oro ammonti a circa un milione di euro. In passato al Santo venivano offerti, oltre all'oro e al denaro, anche galline, capi di bestiame, tavolette dipinte, abiti da sposa o di battesimo ed addirittura trecce per grazie ricevute o per propiziare richieste di aiuto. Fino a qualche tempo fa, giovani ragazze vestite di bianco aprivano il corteo dinanzi al Santo reggendo borse piene di denaro, oggi questa offerta non viene più esposta lungo la processione, ma in uno dei locali della Casa del Pellegrino vengono conservate foto e filmati dell'epoca che mostrano il rito. All'uscita della Chiesa Madre, la statua di San Rocco, presentata alla folla dei fedeli in cima alla scalinata, suscita una forte emozione e l'apparizione con la sua copertura d'oro lascia completamente storditi. Tutte le campane suonano a festa e da più parti s'innalza il noto canto al Santo mentre inizia la musica della banda Il corteo solenne viene aperto e guidato dal Cerimoniere che con la fascia e il bastone nella mano, guida la processione lungo l'intero percorso Seguono i cirii (detti anche cinti, cente, sciglii o gregne) costruzioni in legno e innumerevoli candele, decorate con immagini sacre, fiori e nastri colorati, di dimensioni imponenti e portati a spalla da più persone. Al termine della processione le candele dei cirii vengono offerte al santuario per essere arse nel corso dell'anno davanti al Santo. Gagliardetti, la croce astile e il clero seguito dai carabinieri anticipano l'arrivo di San Rocco coperto dal suo "vestito" d'oro portato a spalla dai fedeli. Chiude la successione un baldacchino di seta gialla ricamato nella parte inferiore, sostenuto dalle donne. E' ancora possibile incontrare devoti che seguono scalzi la processione. Lungo il percorso le finestre e i balconi, pieni di fedeli, sono abbelliti con stoffe preziose e fiori.

L'inno al Santo "Evviva Santi Rocco! ...ca int'a Tolve stai" cantato dalle donne e dagli anziani, risuona lungo il corteo incrociandosi con le invocazioni del clero al seguito della processione e si affianca agli stacchi della banda. La processione, avanzando con una andatura lenta e suggestiva, si snoda per le vie di Tolve e ritorna lentamente al santuario, dove il santo viene ricollocato per ricevere l'omaggio finale dalla folla dei pellegrini.

Il rito del 16 settembre

Il secondo festeggiamento in onore del San Rocco di Tolve cade il 16 settembre. La festa autunnale richiama i tradizionalmente detti "pellegrini della montagna", contadini provenienti dai paesi delle zone montuose circostanti, dove la mietitura terminando oltre la metà di agosto, impediva loro di partecipare alla festa del 16 agosto. I festeggiamenti di settembre, pur seguendo nell'insieme uno schema di svolgimento analogo a quelli del mese precedente, hanno conservato comunque un aspetto più devozionale. Alla processione di settembre partecipano soprattutto fedeli da Vaglio, Potenza, Tricarico, Stigliano, Accettura, Campomaggiore, Pietrapertosa e Castelmezzano. La festività del Santo patrono rappresenta a tutt'oggi, per i cittadini di Tolve un momento particolare che caratterizza l'immagine del paese e il suo ruolo di custode del più importante culto rocchiano dell'area. Inoltre, nonostante i cambiamenti nel tempo, il culto continua ad essere fortemente sentito in tutta la regione, ne costituisce uno dei suoi tratti identitari più forti e rinnova ogni anno la validità e la profondità di questo immenso patrimonio culturale e spirituale.

San Rocco

San Rocco è venerato dalla Chiesa cattolica come protettore dei pellegrini, degli appestati e dei contagiati in generale, in alcuni luoghi è invocato a protezione degli animali e contro gli eventi catastrofici naturali, inoltre, per aver patito le stesse sofferenze, è patrono degli invalidi, dei prigionieri e degli emarginati.

Gli studi sulla storicità della vita di San Rocco sono molto complessi e spesso controversi, si è comunque concordi nell'indicare Montpellier in Francia come sua città natale e Voghera in Italia come luogo della sua morte.

Le principali tappe della vita del Santo, considerate attendibili dagli studiosi, sono: la nascita francese, la partenza per Roma - dove sulla via, ad Acquapendente, effettua la prima guarigione di appestati - l'arrivo a Roma con la guarigione del cardinale che lo presenterà al papa, la ripresa del viaggio per ritornare a Montpellier passando per Rimini, Novara e Piacenza, il contagio della peste a Piacenza e il ritiro nel bosco dove guarirà, la ripresa della via verso la Francia e la morte a Voghera, dopo 5 anni di prigionia. Rocco venne nominato santo già nel 1414, durante il Concilio di Costanza, ma solo nel 1584 ne venne sancita la canonizzazione e fissata al 16 agosto di ogni anno la festa liturgica.

Nell'iconografia tradizionale il Santo è vestito da pellegrino con alcuni attributi simbolici che ne rappresentano la vita e le opere: un bastone, una zucca per contenere l'acqua, conchiglie - forse a ricordare il suo presunto pellegrinaggio a Compostela - la bisaccia. In alcuni casi è raffigurato anche con una piccola fiaschetta attaccata alla cintola - forse contenente un medicamento- piccoli bisturi, la corona del Rosario, una croce rossa sugli abiti, sul lato del cuore, ad indicare l'angioma a forma di croce che si dice avesse avuto sul petto fin dalla nascita. Spesso è accompagnato da un angelo, soprattutto nelle raffigurazioni più antiche: è il messaggero di Dio che interviene più volte nel corso della vita del Santo. Anche il cane con in bocca un tozzo di pane - o che lecca la piaga del santo - è un altra figura simbolica che caratterizza il Pellegrino di Montpellier: narra infatti la leggenda che un cane ne abbia avuto cura, nutrendolo e leccandone le ferite, durante la sua malattia. Tuttavia, l'elemento distintivo di San Rocco sono i segni della peste: una piaga, solitamente sulla coscia, o le mani e gli arti deformati dai postumi del contagio.

Il culto a San Rocco è ancora evidente e vivissimo in tutta Europa, forse perché questo Santo, più di altri, rappresenta la guarigione e l'azione di volontariato e di carità verso i malati ed i bisognosi in generale. Per questo motivo sono numerosissime le Confraternite e le Parrocchie italiane a lui intitolate: 284, secondo alcuni. Non sono pochi neppure i Comuni che lo hanno eletto a Patrono ed è quasi impossibile elencare le cappelle e le edicole dedicategli, spesso alle porte dei paesi, quasi a da difesa da malattie contagiose e calamità naturali.

Dal punto di vista della religiosità popolare, il culto di San Rocco mantiene ancora oggi, in Italia come all'estero dove è stato esportato dagli emigrati italiani, una forte componente emotiva e di partecipazione e contrariamente ad altri culti non sembra affievolirsi, anzi, in alcune realtà si rileva addirittura una rinnovata partecipazione.

Il culto di San Rocco a Tolve

In Lucania, percorrendo l'antica via della transumanza che attraverso l'area del potentino collega la valle del Bradano con la Puglia, si incontra uno dei più interessanti luoghi dedicati ancora oggi alla devozione di San Rocco: Tolve, che lo festeggia ogni anno per ben due volte: il 16 agosto ed il 16 settembre.

Il culto di San Rocco a Tolve è relativamente giovane: fin quasi agli inizi del '700 il patrono della città era San Nicola di Bari, che appare raffigurato nell'abside e in un polittico del '500 nella Chiesa Madre. Si narra che la statua lignea di San Rocco fu abbandonata nelle campagne di Tolve dalle truppe francesi in ritirata nel XVI secolo - leggenda coerente sia con l'origine francese del santo che con le guarigioni miracolose dalla peste che, nella realtà storica, venne diffusa proprio dalle truppe francesi.

Il crescendo del culto rocchiano è confermato dai registri dell'Archivio Parrocchiale di Tolve, dai quali si rileva come fra la fine del '600 e inizio del '700 il nome Rocco diventi il più diffuso nell'area. Un fatto storico che potrebbe essere connesso all'infiammarsi della devozione a San Rocco è il terremoto del 1783, uno dei più disastrosi della storia lucana: l'istintivo ricorso alla intercessione della Madonna e di alcuni santi potrebbe essere in relazione con il restauro della statua del Santo e la creazione della prima struttura di accoglienza per i pellegrini che verrà gestita, fino alla metà del '900, dalla Confraternita del Glorioso San Rocco di Tolve.

La grande intensità del culto al Santo è confermata dal consistente patrimonio di ex voto custodito nella "Casa del Pellegrino", una struttura nei pressi della Chiesa Madre di San Nicola, dove viene offerta assistenza ai pellegrini. La raccolta di ex voto testimonia - attraverso immagini, tavolette dipinte, parole ed oggetti - molti aspetti della vita di questa zona e della pietas popolare dei suoi abitanti.

Testo: B. Terenzi (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione


Foto: P. Ciliento, 2007
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Madonna del Carmine ad Avigliano

16 luglio - seconda domenica di settembre

I miracoli della Madonna del Carmine

Si tramandano numerosi miracoli avvenuti nel corso del tempo, legati soprattutto a calamità atmosferiche e a terremoti. Secondo la tradizione popolare fatti miracolosi indicarono chiaramente, nel 1719, la necessità di riprendere i festeggiamenti e la processione al Monte sospesi da un certo periodo: si tramanda che in quell'anno a seguito di una pioggia torrenziale una giovane che lavava i panni al fiume venne travolta dalle acque del Braida, ma mentre stava per annegare venne salvata dalla Vergine del Carmine da lei invocata, che le apparì invitandola a riferire agli aviglianesi di riprendere la pratica di portare in processione la statua sul Monte Carmine il 16 luglio di ogni anno. Si racconta che ancora fino a qualche tempo fa in una cappella della Chiesa in Avigliano (Potenza) fosse conservato un ex voto che ricordava l'accaduto.

Si narra ancora che nel 1844 dopo molti mesi di siccità, alcuni fedeli arrivarono ad Avigliano per invocare l'intercessione della Madonna con una processione nel corso della quale si dice le donne indossassero in segno di penitenza una corona di rovi ed il volto coperto da una stoffa bianca. Alcuni fedeli seguivano la processione scalzi portando un otre pieno di acqua da versare sulla soglia del Santuario. Il miracolo della pioggia avvenne e si ripeté anche nel corso di altre successive siccità. Ed ancora, nel dicembre del 1857, la protezione della Vergine del Carmine salvò Avigliano dal terribile terremoto che distrusse molti paesi della Basilicata. Per ricordare questo evento miracoloso, ogni anno nella stessa data si svolge una processione di ringraziamento per le vie della città. A testimonianza invece delle tantissime grazie individuali ai singoli devoti basta considerare il cospicuo tesoro di ex voto tuttora conservati nei locali della Parrocchia di S. Maria del Carmine ad Avigliano.

La festa

Ogni anno la notte precedente il 16 luglio, sera della veglia presso la Chiesa Madre, la statua della Madonna viene rivestita con un manto carico di tutto il suo tesoro votivo in oro e argento. Una corona cinge il capo sia della Vergine che del Bambino, uno scapolare è appeso ad un braccio. Il 16 luglio la statua viene portata in processione fino al convento di Santa Maria degli Angeli da dove ha inizio il pellegrinaggio popolare per raggiungere il santuario al monte. Lungo il corteo vengono trasportati i cinti insieme ai palii, insegne di forma triangolare in lino con l'immagine della Madonna ricamata in oro. Giunti al monte, la statua effettua tre giri intorno al Santuario e, una volta entrata, viene celebrata una Messa Solenne. Al termine della celebrazione i devoti rimangono a consumare cibi all'aperto.

La seconda domenica di settembre, dopo due mesi di permamenza della statua presso il santuario al monte, avviene la traslazione di ritorno. La notte precedente la discesa ha luogo una veglia presso il santuario sul monte, poi la domenica mattina la statua della Madonna con un pellegrinaggio ritorna in paese dove all'altezza del convento dei Riformati si forma la processione che attraversa la città e reca la Vergine alla Basilica Pontificia Minore di Santa Maria del Carmine di Avigliano dove rimarrà fino a luglio dell'anno seguente.

I cinti

I cinti o cente sono grandi costruzioni votive di candele a più piani, architetture complesse che rappresentano torri, navi, frontespizi di chiese o altarini e altre immagini devozionali. Essi sono realizzati da esperti artigiani che però nel tempo stanno scomparendo; alcuni fra i più conosciuti della zona sono Rocco Rosiello, Marco Rosa, Antonio Rosiello e Pietro Pace. I cinti, riccamente decorati con nastri colorati, fiori e immagini sacre, vengono offerti in segno di devozione, voto o richiesta di grazia sia dai singoli fedeli che dai paesi che partecipano al rito.

Sono i giovani familiari del devoto che offre il cinto a farsi carico di portarlo a spalla durante la processione, mentre alle giovani donne della famiglia, che un tempo dovevano essere pure, è lasciato il compito di reggere i lunghi nastri colorati attaccati alle costruzioni. In passato le giovani accompagnavano il pellegrinaggio delle cente con il canto: le rime delle invocazioni passavano da una voce all'altra creando un incrocio fra di loro nel cantare le lodi e gli inni dalla Madre Protettrice. Al termine del pellegrinaggio i cinti offerti alla Madonna rimangono nella cappella sul monte.

Il culto alla Madonna del Carmine

La devozione alla Vergine del Carmelo è molto diffusa in Basilicata, tra le molte chiese e santuari dedicati quello di Avigliano è certamente il più antico e conosciuto. La Madonna di Avigliano è invocata in tutte le situazioni di pericolo: preserva dalle cadute, dagli incidenti e protegge dagli influssi negativi di spiriti maligni e masciari. Anticamente la sua immagine era sempre presente negli "abitini", scapolari utilizzati tradizionalmente dalle popolazioni di queste zone, al giorno d'oggi è portata nei portafogli, nelle borse e nelle autovetture di molti lucani.

Secondo la tradizione il culto alla Madonna del Carmine, o Vergine del Carmelo, fu diffuso ad Avigliano da reduci dalle Crociate devoti al culto del Carmelo. Già nel XII secolo si ha notizia di un culto mariano ad Avigliano, quello alla Madonna delle Grazie, presso la Cappella di Santa Maria de Cornu Bonu che risulta censita nel 1164.

Si narra che nel 1240, la statua della Madonna scomparve dalla sua Cappella per essere ritrovata nei pressi della cittadina di Campagna in provincia di Salerno. Gli aviglianesi reclamarono la restituzione della statua e nonostante l'opposizione da parte degli abitanti di Campagna, la Madonna fu riportata ad Avigliano. Dopo breve tempo, però, la statua sparì di nuovo e fu ritrovata nella stessa località campana i cui abitanti spiegarono l'accaduto come segno della volontà della Vergine di rimanere con loro: oggi questa statua è ancora venerata a Campagna con il nome di Madonna di Avigliano, mentre gli aviglianesi furono costetti a commissionare una nuova statua simile alla precedente.

Notizie più precise circa il culto si hanno solo intorno al 1694, anno in cui, dopo una terribile carestia, si ebbe un forte terremoto: gli Aviglianesi si rifugiarono in cima alla montagna per 40 giorni pregando ed invocando la Madonna del Carmelo. Quando, alla fine, ritornarono in città trovarono che le case e il paese non avevano avuto quasi danni né vi era stato alcun morto.

Nel 1696, a memoria, fu steso un atto pubblico di ringraziamento alla Vergine del Carmelo per la sua miracolosa intercessione, redatto dal Notaio Apostolico Don Francesco Viggiano. In esso si stabilivano una serie di iniziative per manifestare la gratitudine della popolazione fra cui l'acquisto di una statua della Madonna del Carmine e la costruzione di una Cappella sulla montagnola da allora detta Monte Carmine. La statua policroma, commissionata ad un intagliatore napoletano ed ancora oggi venerata, rappresenta la Madonna in piedi che con gesto materno sostiene al petto il Bambino proteso verso di lei quasi a volerla abbracciare a toccare il velo ed accarezzare il volto. Nell'atto si stabilì inoltre di ricordare ogni anno il miracolo con una festa solenne e di portare la statua al monte ogni 16 luglio per riportarla ad Avigliano la seconda domenica di settembre, in ricordo del tempo trascorso sul monte dalla popolazione durante il terremoto. Infine, nello stesso anno, la Vergine del Carmelo fu proclamata patrona e protettrice di Avigliano. Si istituiva nello stesso anno la Confraternita della Madonna del Carmine i cui iscritti, che indossano tuttora un saio con il cappuccio simile a quello dell'ordine dei Carmelitani, erano tenuti a partecipare alle processioni di andata a di ritorno in onore alla Madonna con il diritto di trasportare la sua statua.

Nel 1935 la Vergine del Carmine, con decreto del Capitolo Vaticano, venne incoronata Regina del popolo aviglianese con una solenne cerimonia. Nel 1949 e nel 1985, la statua fu portata in processione nei diversi paesi della provincia e a Potenza dove ricevette sempre l'espressione di una fortissima devozione da parte dei numerosi fedeli. Nel 1996, vennero festeggiati solennemente i tre secoli di culto e in tale occasione la Confraternita della Madonna del Carmine collocò una grande stele sulla cima del Monte, con l'immagine della Vergine a testimonianza della ancora forte fedeltà alla Madonna. Nel 1999 la Chiesa Madre di Avigliano fu elevata a Pontificia Basilica Minore con il titolo di Santa Maria del Carmine, infine, per il Giubileo del 2000 venne realizzato un centro di accoglienza per i pellegrini nei pressi del Santuario di Santa Maria del Carmine sul Monte, eretto nel 1696.

La data di costruzione della Chiesa è incerta, ma potrebbe addirittura risalire al IX secolo. Essa è situata nella parte più antica della città ed ha subito vari interventi di restauro fino al suo totale rifacimento nel 1854 ad opera dell'architetto Domenico Berni. Con una pianta a croce latina a tre navate, una profonda abside e undici altari in marmo di epoca successiva, oggi si presenta esternamente in stile neoclassico mentre l'interno è in stile barocco; in essa sono conservate statue di San Vito e San Leonardo, precedenti Patroni della città insieme a San Bartolomeo. Sull'altare maggiore è collocato il trono di marmo con la statua lignea della Madonna del Carmine del XVII secolo.

Testo: F. Floccia e B. Terenzi (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione


Foto P. Ciliento, 2005
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto L. Corbo, 2005
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Madonna di Pierno a San Fele

14-15 agosto

La festa della Madonna di Pierno si svolge a San Fele (Potenza) il 14 e il 15 agosto. In occasione della festa i fedeli si recano in pellegrinaggio al santuario, che sorge a 960 metri sul livello del mare, in un luogo roccioso ricco di sorgenti e di boschi di castagno. Il culto della Madonna è tuttora molto sentito, in passato i devoti, soprattutto gruppi di contadini, si recavano al santuario a piedi.

La leggenda narra che nel 1130, anno di fondazione del culto, i monaci che abitavano il Monte Santa Croce, a causa di un'incursione di pirati saraceni, si ritirarono nei boschi nei pressi del monte Pierno dove, in una cavità rocciosa, nascosero la statua lignea raffigurante la Madonna. Successivamente venne costruita sul luogo la prima chiesa, che divenne poi il santuario vero e proprio, consacrato nel 1221. A causa di un terremoto nel 456 la statua della Madonna fu trasferita in una località diversa, ma sparì e riapparve sul monte Pierno. In seguito a questo evento miracoloso l'edificio del santuario fu ricostruito.

Nel corso del pellegrinaggio i fedeli esprimono la loro devozione per la Madonna trascorrendo la notte sul luogo del santuario e accampandosi nell'area circostante. Portano al santuario offerte arboree o altri oggetti votivi come ex voto anatomici, fotografici, epigrafici e così via. Al ritorno molti riportano a casa souvenir acquistati sulle bancarelle o all'interno del santuario, in ricordo del pellegrinaggio e per mantenere vivo il culto della Madonna nello spazio domestico.


Foto: A. Rossi, 1965
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Dal lunedi al venerdi
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