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Articoli filtrati per data: Aprile 2020

#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle stampe: i giochi di strategia

di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza e Leandro Ventura

Iniziamo oggi il nostro consueto viaggio fra le quattordicimila tavole dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, raccontando le incisioni dei giochi di strategia conservate presso il Gabinetto delle Stampe. Se giovedì scorso abbiamo incontrato l’attesa del giocatore che vive l’ebbrezza dell’azzardo aspettando la decisione della sorte, oggi entriamo in un nuovo campo di gioco, nel quale vengono invece richieste destrezza e abilità tattica.

L’adozione di tavole variamente configurate a fini ludici ha radici antichissime. Risale alla Mesopotamia di oltre 5000 anni fa il gioco reale di Ur e al 5000 a.C. l’egiziano senet, attestato successivamente nella tomba di Tutankamhon, entrambi antenati del backgammon. Antica, ma molto più vicina ai nostri giorni è la tabula lusoria romana, una tavola da gioco conservata in tanti esemplari incisi “abusivamente” su soglie o gradini di molti spazi pubblici, come quella conservata sul bordo di una grande piscina a Roma alle Terme di Caracalla, dove probabilmente i giocatori si sfidavano stando seduti nell’acqua termale: stiamo parlando di veri campi di gioco, tra i cui confini disegnati si entra osservando regole e istruzioni specifiche.

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Tabula lusoria (ph. Roberto Galasso) 

Alle Terme di Caracalla è ancora visibile una tabula lusoria incisa sul bordo di una grande piscina e probabilmente i giocatori si sfidavano stando seduti nell'acqua. Si tratterebbe di una sorta di scacchiera destinata al gioco delle fossette o tropa. Il gioco consisteva nel far cadere le biglie, oppure noci o astragali, secondo una successione stabilita, in tutte le fossette fino ad arrivare all'ultima al di là di una riga. Sulla tabula lusoria delle Terme di Caracalla sono identificabili delle lettere probabilmente incise dai giocatori che frequentavano le Terme, probabilmente frasi scherzose che si scambiavano gli avversari durante il gioco. Paola Caramadre, Soprintendenza Speciale di Roma. 

I più noti tra i giochi di strategia sono certamente la dama e gli scacchi, giochi di fama internazionale che coinvolgono soprattutto giocatori adulti. Nato nel VI secolo in India, il gioco degli scacchi, attraverso la mediazione della cultura persiana, si diffuse presso gli Arabi per giungere infine, con il nome originale di shatranj, nell’Europa medievale intorno al X sec. d. C.: il Museo Archeologico di Venafro, in Molise, conserva i pezzi più antichi d’Europa che una complessa datazione al radiocarbonio ha collocato proprio intorno all’anno mille.

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Capitoli da osservarsi per li giuochi delli scacchi, e dama, fine sec. XVIII-inizio sec. XIX, caratteri mobili tipografici (ICPI, Gabinetto delle stampe)

Presso il Gabinetto delle stampe, oltre ad alcune scacchiere, sono conservate, tra i capitoli dei giochi di fine Settecento, le regole della dama e degli scacchi. Le spiegazioni fornite sono molto dettagliate e utilizzano il lessico della strategia, dallo scacco soffocato alla pedina soffiata.

Il gioco degli scacchi è sempre attuale e appassiona milioni di giocatori in tutto il mondo -sono oltre 150 le federazioni nazionali esistenti- che si sfidano in tornei, campionati nazionali, internazionali, mondiali e Olimpiadi. La terminologia e gli schemi del gioco, molto utilizzati nel linguaggio metaforico e simbolico quotidiano, così come nel cinema e nella letteratura, ispirano la nota performance di Marostica, in provincia di Vicenza, dove oltre cinquecento figuranti in costume medioevale fanno da cornice ad una partita a scacchi giocata in piazza con personaggi viventi, che rappresenta la sfida di due nobili rampolli della città innamorati entrambi della bella Lionora.

Sul rovescio dello scacchiere è generalmente collocato il gioco del filetto, detto anche della tavola-Mulino. Si gioca in due, con nove pedine ciascuno, su un disegno di tre quadrati concentrici. Chi riesce a disporre tre pedine sulla stessa fila fa tris. Vince chi riduce l’avversario con due sole pedine. La versione semplificata e moderna del gioco è anche detta, infatti, tris, un passatempo adatto a tutte le età, ancora oggi diffusissimo che, sebbene richieda solo una matita e una superficie su cui scrivere, è commercializzato su svariati tipi di supporto e anche in molte versioni elettroniche.

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Nuovo giuoco della tavola molino, inizio secolo XX, litografia (ICPI, Gabinetto delle stampe)

Nel Gabinetto delle stampe sono conservati anche alcuni giochi di strategia militare, che vanno dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi decenni del ventesimo secolo. Si tratta di tavole che, attraverso immagini suggestive, gradevoli nel disegno e accurate nella rappresentazione grafica, rievocano alcuni dei principali avvenimenti militari della storia. In periodo di guerra, i giochi di strategia militare ebbero una larga promozione sul piano commerciale, perché educavano i giovani al valore bellico, all’amor patrio e al sacrificio.

La Battaglia del 48 è ad esempio una litografia di primo Novecento dell’editore Bertarelli di Milano che rimanda nel titolo all’avvenimento storico della prima guerra d’indipendenza. Lo scopo del gioco è l’attacco a un vecchio castello posizionato al numero 48 e difeso da due villaggi separati fra loro da una stretta gola.

Veri e propri giochi di strategia militare sono le varie tavole dedicate all’Assalto al castello, in cui lo scopo finale è quello di occupare la fortezza, che corrisponde al riquadro superiore numerato. Proprio come nella dama, sono presenti delle pedine (due difensori e 24 assedianti), che si muovono lungo il percorso e possono essere mangiate.

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Assalto al castello, anni Venti del XX secolo, litografia a colori, editore Marca Stella, Milano

(ICPI, Gabinetto delle stampe)

I giochi di strategia militare si sono trasformati nel tempo in versioni diverse e più attuali, che partono dalla battaglia navale, disegnata sul foglio a quadretti, che tutti conserviamo nei nostri ricordi, per arrivare, attraverso il Risiko, un gioco popolarissimo ma basato su modelli relazionali molto complessi, agli attuali giochi di strategia e simulazione di guerra che consentono di combattere battaglie virtuali contro altri giocatori collegati on-line da ogni parte del mondo.

Vi invitiamo oggi a stampare e a mettere alla prova la vostra abilità tattica con il gioco ottocentesco del lupo e delle pecore, molto simile nello schema ai giochi d’assalto alla fortezza. Chi vincerà? L’unità del gregge o la forza del predatore?

 

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Bibliografia

Come giocavamo: giochi e giocattoli 1750-1960, catalago della mostra (Milano, Rotonda della Be-sana, primavera 1984), a cura di P. Bonato, P. Franzini e M. Tosa, Milano 1984

M. Ceresa alla voce De’ Rossi, Giovanni Giacomo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Roma 1991, vol. 39, pp. 218-220

Fabbrica d’immagini, gioco e litografia nei fogli della Raccolta Bertarelli, catalogo della mostra (Milano, Spazio Baj-Palazzo Dugnani, 13 maggio-13 luglio 1993), a cura di A. Milano, Milano 1993

Gioco voce in Dizionario di antropologia, a cura di U. Fabietti e F. Remotti , Zanichelli, Bologna, 2001

R. Callois, I giochi e gli uomini, Milano 2014

 

Sitografia

http://www.giochidelloca.it/

http://www.treccani.it/enciclopedia/filetto/

http://www.cci-italia.it/index.shtm“Il Bollettino del collezionista di scacchi, edizione italiana del The Chess Collector. Organo ufficiale d'informazione dei collezionisti italiani aderenti al CCI”

http://naibi.net/b/053.pdf “Una datazione per gli scacchi di Venafro”di Franco Pratesi

http://www.ctsbasilicata.it/files/convenevole_r_e_bottone_f_-_la_storia_di_risiko_.pdf  “La storia di Risiko e l’anello mancante. Origini ed evoluzione del gioco di strategia più diffuso nel mondo” di Roberto Convenevole e Francesco Bottone

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Elaborato e video di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza, con la preziosa collaborazione di Roberto Galasso, Marco Marcotulli e Leandro Ventura.
Si ringrazia la collega Paola Caramadre della Soprintendenza Speciale di Roma per le indicazioni sulla tabula lusoria romana

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#LACULTURANONSIFERMA. PLAYGROUND: come il gioco disegna dinamiche inclusive e modifica l’uso dello spazio pubblico.

Testo di Emily Dellheim e Marianna Frattarelli
Foto di Moonchausen


Il progetto Playground, avviato all’interno del Laboratorio Formativo e di Progettazione Interculturale ArtClicks, elabora creativamente il concetto di contact zone di James Clifford, ovvero lo spazio sociale dove le culture si incontrano e si scontrano, utilizzando il patrimonio ludico delle “comunità migranti” presenti sul territorio dove il laboratorio si è svolto. Il gioco, infatti, instaura naturalmente un ponte tra le narrazioni delle tradizioni e le storie personali dei player, e al contempo offre un punto di incontro visivamente connotato: il playground.

Il progetto - finanziato dal MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma in collaborazione con ECCOM Idee per la cultura e con l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale (ICPI) - prende le forme di un “workshop di design del gioco e del playground da strada”, finalizzato alla creazione di una dinamica di gioco e all’allestimento di uno spazio dedicato all’attività ludica in strada, offrendo nuovi spunti di riflessione sull’uso dello spazio pubblico e delle pratiche sociali ad esso collegato.

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Il progetto analizzava due contesti urbani e sociali diversi del Lazio con due target diversi: ad Aprilia, collaborando con il Liceo Statale Antonio Meucci e a Roma al museo MAXXI. Ad Aprilia la squadra di lavoro era formata da studenti del programma di alternanza scuola-lavoro e gli ospiti del Centro Residenziale per minori “La Pergola”, mentre a Roma si è formato un gruppo eterogeneo di giovani adulti italiani, stranieri e migranti. Il gruppo di lavoro comprendeva persone provenienti da quattro continenti che parlavano dieci lingue diverse.

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L’avvio del laboratorio è stato affidato all’associazione Liscìa, che si occupa di metodologie non formali di educazione e di laboratori di partecipazione. Attraverso alcune proposte di gioco, le esperte - Cristina Gasperin e Ginevra Sammartino - hanno messo al centro il piacere, quale principio educativo che spinge naturalmente a costruire relazioni armoniose tra i partecipanti. Tema centrale del loro intervento è la costruzione del playground come spazio sacro, un temenos, che si attiva con il gioco, capace di far perdere a chiunque ne entri a far parte la sua connotazione identitaria diventando un Player, un giocatore.

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I laboratori erano affiancati con le visite alla collezione del MAXXI e la mostra temporanea La Strada: dove si crea il mondo, a cura di Hou Hanru, con l’obiettivo di dare un ulteriore contributo alla lettura dello spazio “su strada” e invitando i partecipanti a guardare da un lato ad artisti e architetti (come Sol Lewitt, Labics o Aldo Rossi), che hanno lavorato sulla progettazione, modularità e good design come ispirazione per la creazione del nostro playground, e dall’altro ad analizzare i contenuti valoriali delle opere: inclusione, collettività, azioni di gruppo e interventi nello spazio che hanno un impatto sociale o politico (come le opere di Alfredo Jaar e Boa Mistura), o che riflettono sul concetto di “strada” come luogo di cambiamento e di interazione sociale (come le opere di Robin Rhode, Marinella Senatore e i Modified Social Benches di Jeppe Hein).

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Grazie al coinvolgimento dell’Istituto Centrale per Il Patrimonio Immateriale e alla loro ricerca sul gioco e lo sport per il progetto “Italia dalle molte culture”, abbiamo potuto lavorare con Francesca Berti, ricercatrice presso l’Istituto di Scienze dell’Educazione dell’Università di Tübingen (Germania), con la quale sono stati indagati gli archetipi e le dinamiche ricorrenti nei giochi di strada. La sua proposta è stata incentrata sulla scoperta della varietà e della ricchezza della tradizione ludica dei vari paesi. Obiettivo del modulo era la conoscenza dei giochi tradizionali di strada come esperienza condivisa e dunque luogo di incontro tra le culture. La riflessione finale verteva, inoltre, sulla percezione dello spazio del gioco, delle sue regole e delle possibilità creative e di continua reinvenzione. Il suo intervento prevedeva l’uso di giochi di conoscenza e cooperativi e si sviluppava alternando momenti di auto-narrazione a momenti di gioco, utilizzando gli “strumenti” della tradizione ludica.

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In questa cornice preparatoria alla costruzione del Playground, il collettivo di architetti “Orizzontale” ha trasformato, in chiusura del Workshop, il “campo gioco” nel gioco stesso: PLAY with GROUND è il titolo del loro intervento.

PLAY with GROUND si rifà sia alla tradizione dei giochi di strada che al mondo del design, le cui caratteristiche sono la temporaneità e la modularità, con una particolare attenzione alla riproducibilità dei suoi elementi, sopratutto delle forme geometriche elementari: cerchio, quadrato e triangolo. Grazie alla autoproduzione di elementari strumenti di misurazione - squadre, pantografi e compassi creati con pochi e semplici materiali - è stato possibile rapportarsi in modo creativo e ogni volta inedito con lo spazio. Il loro modulo ha previsto una fase di progettazione del playground, in cui i partecipanti hanno prima condiviso degli schemi grafici riferiti a giochi, tradizionali e non, e poi li hanno “montati” in un lay-out unico che è stato in seguito riprodotto all’aperto, nel cortile della scuola e in quello del museo. Il playground diviene così una cosmogonia dalla quale i player hanno fatto derivare un gioco e il suo “universo di regole”.

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Ad Aprilia il playground era un grande tavolo da gioco, che modulava e rappresentava i giochi di tutti. A Roma, invece, i player al MAXXI cercavano di inventare un nuovo gioco, un ibrido dei contributi di tutti i player, modulando le regole. Lo spazio del playground, attivato nella piazza del museo, ha dimostrato di attirare e includere un pubblico interculturale e intergenerazionale: bambini, migranti e turisti tutti insieme.

I partecipanti hanno compilato un questionario con domande a risposta chiusa e aperta, all’inizio e alla fine del progetto. Alcune domande erano incentrate sul tema del gioco e altre legate alle proprie abitudini, all’uso del tempo libero, alla fruizione degli spazi pubblici della città e ai propri rapporti con i musei (dal punto di vista della conoscenza, frequenza, etc.). Le domande erano finalizzate misurare i cambiamenti tra l’inizio e la fine del progetto, catturare il MSC (Most Significant Change) (Davies e Dart, 2005), indagare sul concetto di gioco, dimostrare l’efficacia di includere il museo nel percorso del workshop, estrapolare gli effetti a lungo termine del progetto e valutare la sua sostenibilità e replicabilità. Durante i laboratori, i partecipanti hanno rilasciato interviste informali in cui sono stati incoraggiati ad esprimersi o raccontare i ricordi legati ai giochi.
Il progetto ha rivelato di aver portato un aumento di confidenza, autostima e pensiero positivo ai partecipanti nonché di avergli fatto superare le barriere delle differenze linguistiche e culturali per creare nuovo amicizie.

Playground è stato presentato a Tocatì – Festival Internazionale dei Giochi in Strada, dove è stato messo a confronto con altri progetti interculturali, offrendo l’occasione di discutere le buone pratiche nella rete territoriale. 

 

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Per approfondimenti:

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Il workshop è coordinato da Emily Dellheim e Marianna Frattarelli, con il contributo di Giovanna Rocchi e Svetlana Antyushyna e con il supporto per la progettazione europea di Gloria Paris.
Tutor di progetto: Giulia Cardona, Project Assistant Progetto Art Clicks | MAXXI

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#LACULTURANONSIFERMA #LAFESTANONSIFERMA. Sguardi incrociati, cronaca di una festa. Santa Fermina, un’eredità alle nuove generazioni di Bianka Myftari

Le feste hanno sempre rivestito un ruolo fondamentale attraverso cui la comunità dialoga con l’esterno, creando relazioni. La festa esprime in un quadro modificato l’aspetto sacrale, i rituali, e soprattutto il valore patrimoniale di cui le comunità sono sempre più consapevoli. Le feste, in particolare quelle patronali, si legano con l’identità stessa del luogo e delle persone, come Santa Fermina, Santo Patrono dei Naviganti, di Amelia e di Civitavecchia. Ad Amelia si festeggia il 24 Novembre, a Civitavecchia il 28 aprile. 

La prima processione della santa, che unisce due località, è datata nel 1647, anno in cui la comunità civitavecchiese vedeva esaudito il secolare desiderio di ricevere dalla Chiesa di Amelia alcune reliquie della comune Patrona. Per questa occasione veniva organizzata per la prima volta una grande festa. Oggi, la festa si compone di vari eventi sia religiosi che laici che culminano con due processioni: terrestre e via mare. L’aspetto laico della festa varia nel corso degli anni, facendo emergere come la riproposizione e la reinvenzione siano caratteristiche peculiari delle feste mariane civitavecchiesi, rivolte soprattutto ai più giovani.

Diario di campo, aprile 2019
La domenica del 28 aprile è la giornata più sentita e attesa da gran parte della città, rappresenta il culmine di un intero anno di lavoro per il comitato che organizza la festa, e che raccoglie l’interesse e l’impegno della maggior parte della popolazione. All’alba del 28 aprile parto per Civitavecchia, città portuale aperta sul mar Tirreno, la cui storia è legata alla marineria e al commercio, ed è conosciuta fin dai tempi antichi come porto di Roma. Era una giornata chiara e serena, con il mare calmo e una temperatura gradevole. Camminavo a passo spedito per partecipare in tempo alla messa che si svolge nella piccola cappella di Santa Fermina all’interno della fortezza portuale Forte Michelangelo. La città si sveglia con il suono della Banda musicale “Giacomo Puccini” che percorre tutte le vie cittadine, segna il preludio dei festeggiamenti patronali. La prima messa inizia per le 08.30.
Questo rito rientra in quell’insieme di pratiche e conoscenze che formano i modelli culturali di una data società e svolgono una funzione di trasmissione di valori e norme, di riconoscimento di identità e coesione sociale. Durkheim analizza i riti religiosi come momenti di estasi collettiva nei quali, attraverso l’identificazione dell'oggetto di culto, viene rafforzata la coesione sociale tra i membri. Dopo la celebrazione eucaristica, ci dirigiamo verso la Cattedrale dove si svolgerà l’offerta del Cero da parte della comunità di Amelia preceduta dal trentacinquennale Corteo Storico amerino, che fa capo al prestigioso Ente Palio dei Colombi, composto da circa duecento persone tra tamburini, sbandieratori e costumanti appartenenti alle varie contrade della città umbra. Le celebrazioni continuano con il corteo storico delle cinque contrade di Amelia, Collis, Crux, Valli, Posterola e Platea che sfila per la città con costumi dell’epoca trecentesca romana, dando vita insieme al gruppo di sbandieratori ad un vero e proprio insigne riconoscimento alla Santa Patrona. Per gli amerini la festa e molto sentita non solo perché per un giorno evocano i personaggi del medioevo, ma per partecipare attivamente ed essere parte della tradizione cittadina. Ci sono molti giovani che da molti anni fanno parte delle contrade amerine partecipando attivamente alle cerimonie tradizionali come la festa della comune Patrona Fermina ad Amelia e Civitavecchia, sia anche alle altre celebrazioni come il Palio dei Colombi, una singolare rievocazione in costume che si svolge secondo quanto contenuto negli Statuti Comunali trecenteschi del 1346. In occasione del Palio, ciascuna contrada di Amelia scende in campo con un balestriere, un cavallo e un cavaliere.
Tra le file degli sbandieratori ci sono anche i bambini. Il gruppo degli sbandieratori costituiscono un’antica tradizione ad Amelia che viene tramandata da generazione in generazione; è importante condividere e portare avanti la tradizione, perché questi valori non scompaiano mai. A questi ragazzi gli viene insegnato a custodire la tradizione, un’esperienza fondatrice e dai caratteri basilari del proprio stare al mondo.

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Civitavecchia, 2019 - Piccoli sbandieratori mentre si esibiscono davanti alla comunità (ph. B. Myftari)

Un momento di particolare interesse è il pranzo che il comitato offre dopo la messa pontificale a tutta la comunità amerina venuta a Civitavecchia per i festeggiamenti della comune Patrona. Il cibo è legato al momento festivo della commensalità fra gli uomini, è un momento intimo e allo stesso tempo collettivo. Il cibo a saperlo leggere, è un libro di memoria e, se ci si viene dalla terra in cui siamo nati, è anche un pezzo della nostra infanzia e della nostra storia. I prodotti alimentari sono innegabilmente la caratterizzazione di un territorio, in cui le varie popolazioni hanno affermato la propria identità e il diritto all’esistenza. Quindi storia del cibo, ma anche la storia nel cibo. E in questa prospettiva non poteva mancare il prodotto che rappresenta di più Civitavecchia, il pesce, territorio di pescatori, parte fondamentale della tradizione. Questo incontro annuale, diventato un rito tra gli abitanti di Amelia e di Civitavecchia è un’occasione per rinsaldare il gemellaggio tra le due città. Liberalità e gratitudine sono inseparabili e vengono esercitate palesemente nelle feste, in tanti aspetti che mi limito a menzionare sommariamente: donare il proprio tempo, le proprie capacità, una parte dei propri beni; donare la propria cordialità e gioia, esercitare l’ospitalità, dedicarsi agli altri, e tutto questo porta a accogliere con riconoscenza i gesti ospitali, i trattamenti di riguardo e quel che gli altri hanno donato, in senso ampio, per la buona riuscita della festa. La festa, pertanto, è un’occasione privilegiata per vivere e curare la trasmissione intergenerazionale, così importante per la crescita personale e sociale.
Nel primo pomeriggio, davanti alla Cattedrale comincia il raduno dei cortei storici di Civitavecchia e di Amelia, del gruppo dell’Ordine di Malta, Marinai d’Italia, pro-loco Civitavecchia, di tutte le associazioni, delle confraternite civitavecchiesi e amerine.

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Civitavecchia, 2019 - Bambine vestite con il costume iconografico della Santa (ph. B. Myftari)

Al corteo partecipano anche diversi gruppi boy scout della città. Una particolare menzione alle famiglie che con tanta tenerezza hanno curato la partecipazione alla processione delle bambine vestite con il costume iconografico della Santa. Questa nuova tradizione si è inserita da poco nell’uso locale grazie al nuovo presidente del Comitato, Ombretta del Monte, decisa a far rivivere non solo la tradizione ma anche creare nuovi costumi che siano parte di un nuovo rito festivo. All’interno della Cattedrale i portatori di Santa Fermina finiscono gli ultimi preparativi e controllano che la macchina a spalla non abbia problemi durante la processione percorrendo le vie storiche della città.

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Civitavecchia, 2019 - La statua di S. Fermina esce in processione (ph. B. Myftari)

Aprono il corteo i membri del comitato, proseguendo con le autorità locali civitavecchiesi e amerine, le autorità civili e militari. Dalla Cattedrale esce la statua di Santa Fermina che viene portata sulle spalle dai portatori vestiti da marinai, che sono il simbolo della santa perché sono coloro che “portano” sulle spalle il peso della devozione. In processione vengono portati anche le reliquie della santa. Nel corso della processione si procede con l’accensione di un cero devozionale da parte della staffetta podistica proveniente da Amelia, davanti al monumento della Patrona che si trova all’ingresso della fortezza Forte Michelangelo. La statua di Santa Fermina arrivata al porto, è accolta dalle sirene delle navi. Questo momento è particolarmente difficile per i portatori, ci vuole tanta pazienza e lucidità perché la santa viene spostata dalla banchina al rimorchiatore per intraprendere la processione via mare presso le acque portuali. I rimorchiatori sono accompagnati dalla Guardia Costiera, Capitaneria del porto, i marinai e i pescatori. Tutti salutano la santa suonando contemporaneamente le sirene, mentre il vaporetto si allontana dalla banchina davanti si aprono due prospettive, da un lato il panorama della città splendente dalle luci del tramonto, dall’altro l’orizzonte, l’infinito blu. Un fedele grida “evviva Santa Fermina”, in quel momento sembra di entrare in un'altra dimensione, forse e anche questo un legame intimo con il divino, la necessità aggrapparsi come i marinai, a un credo. Dopo il giro in porto, il corteo religioso riprende il cammino per tornare in Cattedrale per celebrare un’ultima messa e raccogliersi in preghiera da tutti i devoti.

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Civitavecchia, 2018 - Processione via mare (ph. B. Myftari)

La ricerca sulla Processione di Santa Fermina è stata svolta nell'ambito del lavoro di tesi per la Scuola di Specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell'Università La Sapienza di Roma. 

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#LACULTURANONSIFERMA. #Visionidaiterritori. Molise: feste e tradizioni del mese di aprile di Lia Montereale

Nell’articolo precedente abbiamo parlato dell’attesa della Pasqua e del senso di condivisione e di identità che si crea nella comunità in occasione dell’evento liturgico, ma le feste tradizionali del Molise del mese di aprile non si fermano qui. 

Scopriamole insieme e continuiamo il nostro viaggio lungo la mappa delle feste e delle tradizioni del Segretariato Regionale per il Molise.

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La festa di San Giorgio ci porta come prima tappa a Mirabello Sannitico, anche se non è l’unico comune in cui si festeggia. Si celebra infatti in altre località tra cui Campobasso e Petrella Tifernina.
A Mirabello Sannitico, tra il 15 e 22 aprile si accendono centinaia di falò per ricordare l’apparizione di San Giorgio che liberò il paese da attacchi nemici. È una festa di grande impatto scenografico, che alterna momenti devozionali e religiosi, a momenti più prettamente celebrativi, folcloristici e di condivisione di cibo e bevande.
Per saperne di più è possibile consultare la pagina dedicata a San Giorgio a Mirabello Sannitico.

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Spostiamoci ora nel comune di San Martino in Pensilis. La festa patronale in onore di San Leo - 29 aprile-2 maggio - rientra nel ciclo delle feste primaverili che si celebrano nel mese di Aprile. Si distingue per la presenza della Carrese, una corsa di carri trainati da buoi, molto sentita e amata dagli abitanti di San Martino e costituisce un momento di grande partecipazione e coinvolgimento della comunità.

La tradizione locale spiega il perché del legame tra San Leo, San Martino in Pensilis e la Carrese. Si narra infatti che i resti di San Leo furono ritrovati in un bosco e contesi dai signori dei vari paesi circostanti.
Per risolvere la controversia, le reliquie vennero poste su un carro trainato da buoi che giunsero a San Martino in Pensilis. Fu chiaro quindi che il Santo avesse scelto questa cittadina divenendone il santo patrono.
Per saperne di più, visita San Leo a San Martino in Pensilis.

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Carrese, San Leo a San Martino in Pensilis (ICPi)

A Santa Croce di Magliano invece, in provincia di Campobasso, l’ultimo sabato di Aprile si festeggia la Madonna dell’Incoronata. È strettamente legata alla Puglia, in particolare Foggia, e alla pratica della transumanza. Secondo la tradizione infatti, nel bosco del Cervaro, all'alba dell'ultimo sabato di aprile del 1001, la Madonna apparve ad un cacciatore incoronata da due angeli. A costui chiese di edificare, proprio in quel luogo, una chiesa che potesse ospitare la sua statua. ll santuario di Foggia divenne quindi il luogo che i pastori preferivano per la sosta prima di rientrare nelle loro terre di origine.
La processione in onore della Madonna dell'Incoronata è dunque un modo attraverso cui la cittadina di Santa Croce di Magliano esprime la propria devozione verso la Madonna ma allo stesso tempo consente di ricordare e rivivere il lavoro dei pastori, le loro lunghe percorrenze dal freddo Molise verso il clima più mite della Puglia, nonché di celebrare il legame tra uomini ed animali. Durante la processione è possibile vedere greggi di pecore e capre, ma anche buoi e cavalli “circolare” per le strade, a cui si aggiungono piccoli carri con bambini trainati da altrettanti piccoli cavalli.

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Processione della Madonna Incoronata, Santa Croce di Magliano (ICPi)

Come tutte le feste tradizionali che si rispettino, non può certo mancare la parte dei sapori locali. Le donne, per l’occasione, preparano infatti un formaggio dalla forma di una “treccia”. È un elemento tipico di questa festa e viene indossato a tracolla dai vari partecipanti tra cui cavalieri e pastori. Simboleggia prosperità e abbondanza ed è un modo per manifestare gratitudine per ricchezza e benessere.
Per gli approfondimenti, per sapere chi era lo Scarciacappa e per tante altre curiosità, clicca a questo link.

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#LACULTURANONSIFERMA la rubrica di Etnomusicologia a cura dell'etnomusicologo Claudio Rizzoni (Demoetnoantropologo - MiBACT): il capodanno cinese tra Italia e Cina

Il capodanno cinese a Milano e a Wencheng (文成)

Video e testo di Francesco Serratore, ricercatore in antropologia della musica presso lo Shangai Conservatory of Music.

La Festa di Primavera (chunjie 春节) è senza dubbio la festività tradizionale più sentita dal popolo cinese, chiamata in occidente con l’espressione, meno diffusa in Cina, di ‘Capodanno Cinese’ (zhongguo xin nian中国新年). Questa ricorrenza segna l’inizio del nuovo anno in base al calendario cinese tradizionale (lunare). Essa coincide con il secondo novilunio dopo il solstizio d’inverno e quindi può oscillare tra il 21 gennaio e il 19 febbraio. Secondo l’astrologia cinese, inoltre, ogni anno è associato ad un animale e a un ‘ramo terrestre’ formando un ciclo di 12 anni cui corrispondono appunto dodici animali: il topo, il bue, la tigre, il coniglio, il drago, il serpente, il cavallo, la capra, la scimmia, il gallo, il cane, il maiale. In Cina i festeggiamenti del capodanno durano 14 giorni e si concludono con la festa delle lanterne.

Questo è di fatto un periodo molto importante per i membri della comunità cinese di Milano, durante il quale vengono attivati processi utili a rimarcare la presenza della comunità sul territorio, a stabilire e mettere in mostra i legami fra vari gruppi di migranti cinesi a Milano, ad affermare il ruolo e lo status sociale, culturale e politico dei gruppi o dei singoli all’interno della comunità stessa, nei rapporti con organizzazioni esterne appartenenti alla società del luogo di approdo e nei rapporti fra la comunità diasporica e il governo cinese.

 

Durante il periodo del capodanno cinese, l’intera comunità tende a essere più gioviale, la chinatown milanese si colora di rosso con le hongdeng (lanterne rosse) disposte per tutta la chinatown e le varie decorazioni come i chunlian e i doufang affisse nei negozi cinesi.

Le lanterne rosse, oltre a essere un simbolo della Cina, sono di certo uno dei simboli della diaspora cinese nel mondo. I chunlian e i doufang sono un elemento grafico che arricchisce la chinatown milanese durante il capodanno. Si tratta di decorazioni rosse contenenti caratteri cinesi di colore oro che richiamano buoni auspici e che vengono tradizionalmente affisse agli ingressi delle abitazioni e dei negozi.

Gli stessi commercianti si vestono in modo più elegante e il colore rosso predomina anche nel loro abbigliamento. Sciarpe rosse per gli uomini e scarpe rosse per le donne sono veramente molto comuni nella chinatown durante questo periodo.

Nelle giornate principali del capodanno Cinese a Milano la musica diventa una parte importante dei festeggiamenti, sia nell'ambito di iniziative private, come ad esempio nei diversi Ktv (Karaoke cinese) presenti a Milano, si sotto forma di iniziative pubbliche. Fra questi ultimi, l'evento principale del capodanno cinese a Milano è rappresentato dalla sfilata del drago su via Paolo Sarpi, e dal successivo concerto in piazza Gramsci.

Che musiche vengono usate in questi contesti, quali sono gli insiemi di significati che contengono?

Osservare e studiare le pratiche musicali del capodanno cinese a Milano ci consente di capire innanzi tutto che la comunità cinese organizza l'evento e la progettazione musicale dello stesso al fine di mantenere e di migliorare le relazioni con la comunità locale. Lo stesso processo organizzativo, gestito per diversi anni dall'associazione "Shoulashou - Diamoci la mano" mette in luce come le finalità di scambio culturale rappresentino una priorità per gli organizzatori. Questo emerge chiaramente durante il concerto di piazza Gramsci dove alcune formazioni musicali vengono create da gruppi misti di italiani e cinesi. Nel video allegato possiamo ad esempio vedere la band di tamburi cinesi (gu) composta da amatori italiani e cinesi. Nonostante i ritmi realizzati dal gruppo siano piuttosto semplici, il valore simbolico è invece molto forte. Non a caso, ad esempio l'evento del 2015 venne ufficialmente aperto da un colpo dello stesso gong da parte dell'allora sindaco di Milano Giuliano Pisapia e dal Console Generale Cinese.

Nel video possiamo anche vedere una serie di attività musicali, che includono musica tradizionale cinese, come ad esempio l'esecuzione di un solo di guzheng (cetra cinese) o di un brano ispirato all'opera di Pechino. Ma possiamo vedere anche la presentazione di brani che afferiscono invece alla sfera della popular music cinese.

Quello che probabilmente ci può interessare è che queste pratiche musicali sono in linea con le pratiche musicali presentate dalle televisioni cinesi, come ad esempio dalla CCTV (China Central Television) durante i festeggiamenti del capodanno cinese in Cina. Queste pratiche fanno quindi riferimento alla cultura nazionale cinese, e questo vale ad esempio anche per la sfilata del drago per le vie principali della Chinatown.

Anche nel caso della danza della sfilata del drago però, vengono mantenute le due finalità simboliche, quella di rappresentare la Cina come nazione e quella di rappresentazione e di scambio culturale nel contesto italiano. La prima, vede il drago come simbolo nazionale cinese, la seconda è rappresentata dal fatto che ogni anno a Milano vi sono almeno due gruppi che eseguono la danza del drago, uno è composto da italiani e l'altro da migranti cinesi.

Quello che però io mi chiedevo spesso durante le mie ricerche sulle musiche dei cinesi a Milano, era quali fossero le tradizioni musicali appartenenti al luogo di origine dei migranti. Dobbiamo di fatto considerare che la maggior parte dei migranti cinesi di Milano proviene da un'area molto circoscritta della Cina, ovvero da alcune aree rurali della città prefettura di Wenzhou, nella provincia sud-orientale del Zhejiang.

Per rispondere a questa domanda, mi sono recato personalmente a Wencheng, (una contea di Wenzhou) per un periodo di ricerca, dove ho avuto modo di osservare e di videoregistrare i festeggiamenti del capodanno Cinese.

Da queste ricerche sono emerse da un lato, molte similitudini fra le attività musicali realizzate a Milano e Wencheng, questo vale soprattutto per quelle pratiche che rappresentano la Cina come nazione. Al contrario proprio la sfilata del drago e le musiche ad essa associate hanno fatto emergere una delle principali differenze. Ovvero la funzione religiosa e rituale che questo evento assume nella contea cinese oggetto di questa analisi. Nel villaggio di Xikeng (contea di Wencheng), dove ho realizzato il filmato allegato, vi è la venerazione di Longwang 龙王 (Re Drago), divinità appartenente alla religione popolare cinese, infatti, il drago nella cultura contadina cinese era una figura mitologica alla quale ci si rivolgeva per chiedere la pioggia e un buon raccolto, col tempo è stato concepito come un elemento molto importante anche all’interno delle religioni cinesi quali buddismo, taoismo.

Per queste ragioni la sfilata del drago assume caratteristiche diverse. L'accompagnamento musicale è realizzato da una tipica formazione musicale chuida, comunemente usata in questa area per i rituali propiziatori e per i rituali funebri. Chuida significa letteralmente soffiare e percuotere, e fa quindi riferimento a fiati e percussioni in relazione agli strumenti musicali. Se il set di percussioni è presente anche in Italia durante la sfilata del drago, lo strumento a fiato principale di questa formazione musicale, che è un oboe tradizionale chiamato suona, risulta assente a Milano e invece fondamentale in Cina.

Durante la sfilata del drago i cittadini di Xikeng preparano nelle loro case degli altari propiziatori, sui quali vengono posizionati oltre a cibi e oggetti sacrificali anche degli hongbao ovvero delle buste rosse contenenti delle somme di denaro, che verranno benedette al passaggio del drago e poi messe sotto il cuscino dei bambini della famiglia. Così le famiglie attendono il passaggio del drago da casa loro, e al suo arrivo accedono delle batterie di fuochi di artificio, invitando poi i musicisti e il drago ad entrare nelle case per la benedizione. Il suonatore di suona deve sempre suonare quando il drago entra nelle case, mentre non è obbligato a farlo quando il drago percorre le vie del paese, e questo ne enfatizza la sua importanza all'interno dei rituali religiosi.

In questi termini, lo stesso insieme di significati che la processione del drago contiene variano: a Wencheng la figura del drago è strettamente legata alle divinità della religione popolare e alle credenze e auspici del mondo contadino. Il drago è inteso come quella creatura sovrannaturale che porta il buon auspicio, regola la pioggia e favorisce un buon raccolto.

La sua matrice divina emerge dal suo legame con il tempio locale, dagli altari propiziatori che vengono appositamente allestiti in attesa del passaggio del drago e, ad esempio, dagli hongbao che vengono posizionati su questi altari per essere benedetti e poi donati ai bambini.

A Milano il drago seppur è un elemento di buon auspicio, rappresenta la Cina come stato e il potere, il drago è messo in mostra più come simbolo dell’’impero cinese’ che come atto rituale. Non vi sono altarini, né tantomeno vi è un tempio al quale fare riferimento.

Le pratiche musicali che accompagnano il drago simboleggiano di fatto questo dualismo. A Milano le percussioni vengono utilizzate per creare enfasi alla sfilata del drago e per sostenere ritmicamente i movimenti degli acrobati. A Wencheng, vi è la presenza del suona, che suona solamente all’ingresso delle abitazioni, a voler ristabilire l’ordine dopo la confusione creata dai fuochi d’artificio e dalle percussioni che suonano in modo irregolare.

Bibliografia

Cologna, Daniele

2002 La Cina sotto casa: convivenza e conflitti tra cinesi e italiani in due quartieri di Milano, Milano: Franco Angeli.

Hood, Marlowe

1998 "Les communautés d'émigrants du Zhejiang", Enciclopédie de la diaspora chinoise. A cura di Lynn Pann, 39-42. Paris: Les Éditions du Pacifique.

Serratore, Francesco

2016 “Musica e identità transnazionale: un viaggio nella comunità cinese di Milano Identità di luogo, pluralità di pratiche. Componenti sonore e modalità partecipative nel contesto urbano milanese. A cura di Malatesta, C. e Giovannini, O., 169-89. Milano: Mimesis.

Serratore, Francesco

2018 “Funeral Music in Wencheng and its Transnational Application in the Chinese Community of Milan”, AEMR-EJ, 2: 65-79.

Wong, Wai Yip

2011 “Defining Chinese Folk Religion: A Methodological Interpretation”, Asian Philosophy,
XXI/2: 153-170.

Yang, Lihui, Deming An, e Jessica Anderson Turner.

2005. Handbook of Chinese Mythology. Oxford: Oxford University Press

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#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle stampe: giochi di sorte e di fortuna di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza e Leandro Ventura

Il tema del gioco governato dalla sorte è raccontato oggi attraverso la selezione di alcune incisioni rappresentative che vanno dalla tombola al lotto; le tavole scelte fanno parte della più ampia raccolta del Gabinetto delle Stampe, la cui cura è affidata all’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.

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Cartella per il gioco della tombola, secolo XVIII, dipinta a mano su cartone con collage di incisioni ritagliate (ICPI, Gabinetto delle stampe)

La tombola resta uno dei giochi tradizionali più noti e diffusi nel nostro Paese, in particolare durante le festività natalizie. Presso il Gabinetto delle stampe è conservato un raro esemplare settecentesco, con cartelle dipinte a mano, insieme a figurine appositamente ritagliate e incollate come nel moderno decoupage. Al centro di ogni cartella, la fascia con i numeri rimanda al gioco della tombola, mentre le figurine in alto e in basso, così come l’alternarsi dei colori (giallo, violetto, verde e olivastro) riguardano altre meno note funzioni del gioco: forse i colori potrebbero ricondurre a una sorta di roulette e le figure al mercante in fiera. Più recenti cartelle della tombola, risalenti all’inizio del Novecento, sono invece contraddistinte da proverbi in dialetto siciliano, da rime curiose, oppure da graziosi giochi figurati sul dorso.

L’antenato comune non solo a molti noti giochi di fortuna ma al concetto stesso del gioco di estrazione può essere considerato il biribissi, come viene specificato nelle istruzioni di fine Settecento: “Il banchiere, in ogni sorta di Lotto, o Biribisso, pagherà il denaro”. Si trattava di un gioco d’azzardo dalle moltissime varianti, forse il più popolare e diffuso nell’Europa del XVII secolo. Nel Gabinetto delle stampe è conservato ad esempio Il nuovo et piacevole giuoco del Biribisse, una stampa seicentesca del noto editore romano Giovanni Giacomo De’ Rossi. La tavola non venne mai adoperata realmente perché, come si evince dalle istruzioni, si sarebbero dovuti tagliare “li 42 bolettini piccolini” in basso in modo da utilizzarli per l’estrazione all’interno di un cappello.

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Il nuovo et piacevole giuoco del Biribisse, secolo XVII, stampa calcografica, editore Giovanni Giacomo De Rossi, Roma (ICPI, Gabinetto delle stampe)

È prevista una vincita in denaro anche nel gioco della barca, di cui l’Istituto conserva la stessa litografia di primo Novecento presente presso la raccolta milanese di stampe “Achille Bertarelli”. Al centro della tavola sono raffigurati due bambini in barca, su un lago. Lo scopo del gioco è vincere le monete che, di mano in mano, vengono messe sul piano secondo il lancio di due dadi. Il giocatore sembra subire il verdetto della sorte, sperando con trepidazione nell’arrivo della fortuna, rappresentata dal doppio sei dei dadi, che regala al giocatore l’intera posta accumulata nel corso del gioco.

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Nuovo giuoco della barca, 1902-1906, litografia colorata, editore Eliseo Macchi, Milano (ICPI, Gabinetto delle stampe)

Un approfondimento a parte meriterebbe il lotto, nato come gioco clandestino nella Genova di fine Cinquecento e che ebbe presto una larga diffusione in tutti gli stati preunitari della penisola italiana, i quali lo resero legale spinti dall’enorme apporto economico dato dai suoi introiti. Presso il Gabinetto delle stampe, un botteghino per il lotto è ben rappresentato da un’acquaforte di Bartolomeo Pinelli del 1831. Interessante è infine una Lotteria dei fanciulli che risale agli anni Venti del Novecento. Espressamente rivolta ai ragazzi, è composta di 64 biglietti da ritagliare. La posta in gioco prevista consiste in soldatini, confetti o altri piccoli oggetti.

I giochi fin qui descritti sono accomunati dalla fortuna, favorevole o avversa, dall’estrazione di un numero e da una posta in gioco, spesso in denaro. Siamo in un campo del giocare nel quale si tratta di vincere non tanto su un avversario quanto sul destino; il giocatore partecipa con le proprie puntate al lotto, aspettando che la buona sorte si fermi sui propri numeri.

Nei giochi di fortuna, la destrezza o l’abilità strategica non sono doti richieste: le azioni del giocatore si concentrano sulla scelta iniziale e sulla disponibilità economica, per un risultato finale che dipende dalla sorte. Ne conseguono l’ebbrezza di puntare su un numero e il divertimento di sfidare la fortuna con gli altri partecipanti nelle giocate casalinghe, mentre nelle partite d’azzardo si mettono in gioco anche la posizione economica e il conseguente status e prestigio sociale. L’attualità dei giochi di sorte, discussa per i suoi rischi e le sue ricadute finanziarie, è indubbia. Cogliamone oggi il messaggio ludico positivo nonché il legame con la storia e la tradizione in essi presente.
Vi diamo appuntamento a giovedì prossimo per i giochi di strategia conservati presso le raccolte dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.

 

Bibliografia

Come giocavamo: giochi e giocattoli 1750-1960, catalago della mostra (Milano, Rotonda della Besana, primavera 1984), a cura di P. Bonato, P. Franzini e M. Tosa, Milano 1984

M. Ceresa alla voce De’ Rossi, Giovanni Giacomo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Roma 1991, vol. 39, pp. 218-220

Fabbrica d’immagini, gioco e litografia nei fogli della Raccolta Bertarelli, catalogo della mostra (Milano, Spazio Baj-Palazzo Dugnani, 13 maggio-13 luglio 1993), a cura di A. Milano, Milano 1993

Gioco voce in Dizionario di antropologia, a cura di U. Fabietti e F. Remotti , Zanichelli, Bologna, 2001
R. Callois, I giochi e gli uomini, Milano 2014

Lotterie, lotto, slot machines. L’azzardo del sorteggio: storia dei giochi di fortuna, n. 13, a cura di Gherardo Ortalli, Fondazione Benetton Studi Ricerche/Viella, Borgoriccio (Padova) 2019

 

Sitografia

http://graficheincomune.comune.milano.it/ 

 

Elaborato e video di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza, con la preziosa collaborazione di Marco Marcotulli e Leandro Ventura.

 


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#LACULTURANONSIFERMA. "Babylon Caffè - Amiata, Kurdistan" di Riccardo Putti con la comunità curda del Monte Amiata

Oggi, per la rubrica "Italia dalle molte culture", incontriamo Riccardo Putti, professore di Antropologia visiva dell'Università degli Studi di Siena, che tra il 2013 e il 2015 ha realizzato una ricerca sulla comunità curda del Monte Amiata, nell'ambito del progetto PRIN - Migrare. Migrazioni, legami familiari, appartenenze politiche.

Uno degli esiti della ricerca è stato il  docufilm "Babylon Caffè - Amiata, Kurdistan", realizzato da Riccardo Putti con un gruppo di lavoro internazionale che si sviluppa sul Monte Amiata, nella zona appenninica della provincia Grossetana.

Il docufilm sarà visibile per tutta la settimana al link: https://vimeo.com/230894242

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Riccardo, da dove parte l'idea della ricerca?

Questa ricerca nasce nel contesto di un progetto PRIN di cui Cristina Papa era coordinatrice Nazionale; il progetto era dedicato a studiare le relazioni tra comunità migranti e religione. Per un periodo avevo lavorato nella Moschea di Colle Val d’Elsa con il suo Imam Abdel Qader. Tuttavia più mi addentravo in questa dimensione e più mi sembrava che le pratiche religiose in realtà fossero intimamente legate ad un sistema politico e quindi avrei voluto verificare più approfonditamente il nesso che legava la forma di comunità con l’aspetto religioso. Ciò in altri termini voleva dire verificare se vi fossero comunità migranti che non basavano la loro coesione sul fattore religioso. Sempre in quel periodo avevo contatti con il mondo curdo e in particolare mi interessava l’esperienza del Rojava di cui si iniziava a parlare molto diffusamente anche in Italia. In questo contesto ho dunque conosciuto l’esistenza di un gruppo consistetene di famiglie curde che vivevano nella zona del Monte Amiata. Il gruppo era consistente perché formato da più di duecento individui e composto da intere famiglie e non solo da uomini. Si palesò dunque l’occasione di verificare se e come una cospicua massa di persone avesse al suo interno legami diversi da quelli religiosi come forma di collante strategico con cui sia mantenere una forma di unità interna sia entrare in relazione con il territorio sociale in cui vivono lavorano.

Puoi inquadrarci la situazione curda e la condizioni di migrazione.

La questione curda in Italia ha radici profonde e complesse. Per estrema sintesi ricordo come l’affaire Ocalan scosse la politica Italiana tra la fine del 1998 e i primi mesi del 1999 e che se pur in maniera molto contraddittoria con i fatti a Ocalan venne concesso asilo politico. Ancor prima però si era già concretizzata la vicenda di Badolato e della nave Ararat, siamo nel 1997 e il piccolo borgo di Badolato in Calabria accoglie i curdi giunti con la nave Ararat incagliatasi sulla costa prospiciente, si trattava di circa 800 persone. Se analizziamo questi fatti possiamo comprendere vari elementi in primo la provenienza dall’area turca della migrazione curda verso l'Italia, l’esistenza di una organizzazione politica, difficile condurre una nave verso l’Italia dalla Turchia senza una organizzazione, inoltre anche dall’analisi delle presenze ad esempio sulla nave Ararat prevalentemente di uomini ma anche di famiglie che questa forma di migrazioni ha un carattere sociale strutturato e che rappresenta un progetto collettivo. Il Centro Ararat di Roma nasce nel maggio del 1999 e coagula intorno a se varie esperienze di rapporti tra il mondo curdo (sopratutto turco) e gli attivismo sociale italiano, in questo va ricordata la figura di Dino Frisullo, che già nel 97 aveva preso parte al “Treno della pace”. Sempre nel 1999 nasce anche l’Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia (UIKI-Onlus) come in altre parte di Europa. Quest’ultimo ha una valenza molto più politica rispetto al Centro Ararat che invece ha un profilo culturale e di mutualismo.

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Il tuo lavoro mette in evidenza uno spazio pubblico locale dinamicamente utilizzato dalle famiglie curde che hai incontrato, come si inserisce la presenza di una piccola ma importante comunità curda nel territorio?

In effetti quando iniziai a girare il Babylon non esisteva e Metin era un operaio agricolo e Sevda seguiva la casa e i due figli piccoli. Tuttavia per comprendere la vicenda del Bablylon Cafè e di come si inserisce nella dinamica sociale della comunità curda del monte Amiata bisogna risalire appunto ai periodi precedenti. La comunità curda si era organizzata in una associazione e aveva dato vita ad una sorta di circolo di ritrovo ad Arcidosso. Il locale era situato in una zona periferica del paese in prossimità di un grande giardino pubblico e in una zona dove risiedevano alcune famiglie curde. Quando iniziai a far ricerca il circolo/bar era stato chiuso da poco per difficoltà economiche nel gestirlo. In sostanza era un ritrovo solamente frequentato da curdi e questo in parte costituiva almeno secondo l’opinione di alcuni una delle difficoltà. Tuttavia l’area del giardino pubblico che era prospiciente al locale era ancora area di ritrovo soprattutto delle donne curde con i figli piccoli; a volte ho sostato in quella zona per alcune conversazioni e capitava anche che arrivasse un vassoio di bicchieri e una cuccuma di té portato da case vicine. In quella fase Metin era comunque un punto di riferimento della comunità in quanto svolgeva anche attività di traduttore ufficiale. Inoltre sebbene prevalentemente dediti ai lavori agricoli vi erano anche alcune esperienze di commercio e di negozi gestiti da curdi ma che avevano una clientela più ampia. Ad esempio nel centro di Castel del Piano era attivo un negozio di frutta e verdura a cui si rifornivano anche italiani. In questo contesto e anche molto legato alla personalità di Metin nacque il Babylon la cui storia è presentata nel docufilm. Insomma mi sembrava una buona occasione per dare una scenografia alla narrazione. 

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Il titolo del docufilm è dedicato al locale Babylon Café aperto a Castel del Piano, che avete seguito nel lavoro sin dalla sua apertura. Che ruolo ha avuto questo nella costruzione di reti sociali all'interno delle famiglie curde e tra questa e la più ampia cittadinanza del territorio? Che ruolo ha questo luogo per la ricerca che avete svolto e per la narrazione che avete scelto di sviluppare nel docufilm?

La narrazione filmica ha delle sue caratteristiche particolari soprattutto quando si tratta di lavorare su una comunità, un gruppo sociale. E’ difficile infatti creare una narrazione sociale soprattutto lavorando con le modalità dell’antropologia visiva e non della fiction. Quando si tratta di mettere in scena una comunità nel suo complesso occorre infatti partire da elementi fondamentalmente già presenti nell’accadere sociale. Lo si può fare ad esempio usando una festa o un rito più complesso questo permette di mettere in scena una comunità nel suo complesso, ma questo lega all’accadimento specifico tutta la narrazione limitandola in un certo senso. Una formula possibile è scegliere alcuni elementi/persone paradigmatiche le cui vicende possono essere esemplificative di una più generale esperienza di vita. Tuttavia in questo caso si perde la coralità. Il caso del Babylon a me è apparso come una sorta di risoluzione a queste problematiche. Da un lato la storia di Sevda e Metin e del loro impegno per far nascere il Babylon Caffè tracciava la storia di una coppia giovane di curdi delle loro speranze e al tempo stesso della loro volontà di aprirsi alle interazioni sociali con il tessuto in cui erano inseriti. Dall’altro lato il luogo Babylon creava una scenografia naturale in cui poter mettere in scena altre narrazioni di singoli, che con le loro storie di vita rendevano conto di una più ampia realtà sociale rispetto alla sola esperienza della coppia Sevda Metin, e mostrava il locale nella sua caratteristica di sistema di connessione. Insomma offriva un centro alla narrazione e al contempo il luogo di propagazione da cui partire anche visivamente per entrare nelle varie e articolate esperienze di vita che compongono la dimensione della comunità curda del Monte Amiata.

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All'interno del progetto IMC Italia dalle Molte Culture dell'ICPi sarà avviata una nuova ricerca etnografica, condotta insieme alla comunità curda del Monte Amiata grazie anche alla collaborazione delle associazioni UIKI e ARARAT. La ricerca sarà centrata sullo studio del sistema di trasmissione dell'“eredità culturale” e le sue forme di osmosi con l'ambiente culturale di inserimento, sul rapporto con le istituzioni e con la popolazione locale sia nel quadro delle attività lavorative che nel quadro di quelle ricreative. In particolare un focus del lavoro di ricerca sarà rivolto alle giovani generazioni, il rapporto con la scuola con i coetanei e le problematiche di genere, rintracciando attraverso le immagini i segni della presenza dei componenti della comunità rispetto allo spazio pubblico e privato.

 

Intervista realizzata da Rosa Anna Di Lella e Cinzia Marchesini. Si ringrazia il prof. Riccardo Putti per la disponiblità e collaborazione. 

 

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#LACULTURANONSIFERMA la rubrica #VisioniDaiTerritori, Il culto dei defunti: pratiche e luoghi simbolici

Per la rubrica #VISIONIDAITERRITORI Alessandro D'amato (Demoetnoantropologo, MiBACT) ci guida alla scoperta del culto dei defunti e alle recenti azioni di patrimonializzazione del Cimitero dei Cappuccini di Tricase (Le) e del Nuovo Cimitero Monumentale di Parabita (Le).Le immagini d’archivio sono tratte dal libro: E. de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 2000 (1958). Le immagini del Cimitero dei Cappuccini di Tricase (Le) e del Nuovo Cimitero Monumentale di Parabita (Le) sono di Vincenzo Giuliano (SABAP Lecce). Montaggio video a cura di Vincenzo Giuliano (SABAP Lecce)

Riferimenti bibliografici

Ariès 1979

Ariés P., L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari 1979.

de Martino 1958

de Martino E., Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino 1958.

Faeta 2015

Faeta F., Dalla memoria collettiva alla patrimonializzazione familiare della memoria. Riflessioni sulle trasformazioni delle pratiche del lutto nel Mezzogiorno italiano contemporaneo, in Buttitta I.E. – Mannia S. (a cura di), La morte e i morti nelle società euromediterranee, Atti del Convegno Internazionale (Palermo 7-8 novembre 2013), Palermo 2015, pp. 113-128.

Faeta – Malabotti 1980

Faeta, F. – Malabotti, M., Imago mortis. Simboli e rituali della morte nella cultura popolare dell’Italia meridionale, Roma 1980.

Hertz 1978

Hertz R. Sulla rappresentazione collettiva della morte, Roma 1978.

Leschiutta 2009

Leschiutta P. Luoghi e spazi della morte. Nuove immagini di cimiteri, in «Nuovi Argomenti», 45, gennaio 2009, pp. 30-49.

Lombardi Satriani – Meligrana 1989

Lombardi Satriani L. M. – Meligrana M., Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Palermo 1989.

Mauss 1923-1924

Mauss M., Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les sociétés archaïques, in «L’Année Sociologique», seconde série, 1923-1924.

 

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#LACULTURANONSIFERMA #COVID-19/FASE-2 DALLA PARTE DELLE COMUNITÀ': CHI SI STA PRENDENDO CURA DEL PATRIMONIO IM-MATERIALE? RIFLESSIONI A MARGINE, AL DI LA' DEI SOGNI. Di Alessandra Broccolini con illustrazioni grafiche di Aino Garcia Vainio

IMG-20200418-WA0006E' notizia di qualche giorno fa. E per definire quello che il governo sta pianificando per la Fase 2 di uscita dall'emergenza sono stati scomodati i sogni. Dream Team, così è stata chiamata la "task force" (sempre la lingua inglese per le grandi occasioni), la squadra di mega-esperti che Vittorio Colao sta già guidando per indicare al governo le migliori strade per tornare alla normalità. Già, la normalità, quella che per alcuni già "prima" era un problema. 17 componenti, tutti esperti nel loro settore. Ma chi sono questi esperti ? Nella lista abbiamo diversi economisti e top manager, che occupano un terzo del gruppo, un fisico, uno specialista di lavoro, un avvocato, un commercialista, un esperto di disabilità, un sociologo (economico), una psicologa e uno psichiatra. Pochissime le donne (vabbè, si dirà, non sottilizziamo). Molti componenti di questa squadra -la maggioranzasono rappresentanti dei settori "forti" della società, di quelli che contano. Tutte persone con grandi curriculum alle spalle, che certamente faranno bene per il bene di tutti. Non è ovviamente questa la sede per entrare nel merito di questioni che vanno oltre delle semplici riflessioni domenicali.

IMG-20200418-WA0007Ciò che tuttavia, più sorprende è la totale assenza dai "sogni" delle cosiddette humanities, che sono forse proprio quelle discipline più attente ai sogni della gente, che più guardano alla "condizione" umana vista nella sua globalità. Perché al di là degli aspetti materiali, che sono sacrosanti, è evidente che questa pandemia sta intaccando pesantemente proprio quella qualità della vita, quei sogni, quelle aspettative di futuro già parecchio in difficoltà e in bilico prima, ma che ora con le restrizioni alla libertà personale, la paura, lo stress, il distanziamento sociale, la caccia alle streghe, la criminalizzazione del nulla, rischiano di naufragare. Certo, si dirà che quando c'è la salute c'è tutto; oppure che quando le tasche sono piene (un proverbio popolare dice che "quello che non strozza ingrassa") tout va bien se passer. E che è quindi qui che si deve più agire. Poi c'è la resilienza, ci sono gli effetti sorprendenti della solidarietà, ci sono quelle risorse sociali nascoste che riaffiorano, le creatività "culturali", la capacità di resistere. Sarebbe troppo facile in questa sede lamentare la totale assenza dell'antropologia da questi sogni da "task force"; l'antropologia, che come dice la stessa etimologia, alla condizione umana guarda da sempre con attenzione, che le relazioni umane le studia nelle loro diversità storicamente fondate, tra singolarità e comunità, tra agire pratico e memoria, creatività e identità. D'accordo, non è questo il luogo.

IMG-20200418-WA0008Tuttavia, per la vocazione che abbiamo, in verità sempre poco riconosciuta dai più, è nostro dovere fare sentire la nostra voce iniziando proprio con una piccola riflessione che parte da qualcosa che proprio ai "più" potrà sembrare sconosciuto, se non poco rilevante, ma che invece riguarda molto da vicino proprio quel sognare che tanto sta a cuore in questo momento al governo, parliamo del cosiddetto patrimonio culturale immateriale. Qual è quindi il nesso di tutto ciò con il titolo che ho voluto dare a questa riflessione ? Con il patrimonio culturale immateriale ? Qualche giorno fa l'UNESCO, l'Organizzazione delle Nazioni 2 Unite nata più di 70 anni fa per promuovere pace e dialogo tra le nazioni attraverso la cultura, ha pubblicato un comunicato stampa nel quale pone -a dire il vero un po' troppo sinteticamente- la questione degli effetti della crisi su piani diversi da quelli riportati giornalmente nei media, sottolineando che "we are also seeing the ways in which the impact of this crisis goes beyond our physical health"*. Non sono le singole humanities a dirlo per rivendicare chissà quale posto al sole, è un organismo globale come l'UNESCO. Entrando nel merito il comunicato prosegue ancora sottolineando come "Festivals and cultural events are being cancelled or postponed, and cultural practices and rituals are being restricted, causing disruptions in the lives of many people". "Disruption", che significa "spaccatura". Quindi la cancellazione di pratiche festive, rituali, collettive, espressive, può essere fonte di una "distruzione", di rottura negli equilibri vitali della gente e delle collettività. Quindi forse le humanities non sono così inutili. "At the same time - prosegue il comunicato- we are seeing how living heritage can be a source of resilience in such difficult circumstances, as people continue to draw inspiration, joy and solidarity from practising their living heritage". La pandemia, come sappiamo, ha reso necessarie misure di distanziamento sociale che sono misure di distanziamento esclusivamente fisiche.

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Per la strada si deve camminare disaggregati, tutti, anche mogli e mariti, padri e figli (che in casa mangiano e dormono vicini); il metro e mezzo di distanza è diventata una nostra ossessione; tutte le forme di vita sociale fondate in uno spazio fisico sono rimandate a data da destinarsi, anche una semplice passeggiata in solitaria (?). Che sia giusto o meno, ciò vuol dire che anche e soprattutto gli eventi collettivi, quelle occasioni speciali, rituali, calendariali nelle quali le persone si calano "dentro" la vita sociale "fisicamente" (e non solo tramite i social che semmai ne rappresentano una estensione non un sostituto), quegli eventi in cui si partecipa con il corpo, tutto questo è sospeso per ragioni di salute pubblica. Eventi che sono spesso quelle forme di espressioni collettive che collochiamo nella sfera del patrimonio culturale immateriale, esperienze collettive, religiose e non religiose, che esprimono valori, vicinanza, senso di appartenenza, creatività, memoria, affettività, partecipazione, come anche interessi di vario tipo e conflitti. La stessa UNESCO con l'adozione della Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003 aveva inteso veicolare in questa definizione una concezione diversa dell'heritage, intesa non più come prodotto di un'elite, nelle sue espressioni materiali e monumentali, ma come parte della vita sociale e culturale delle comunità umane, paesi, villaggi, piccoli gruppi, in tutte le forme ed espressioni, anche quelle più marginali. Nel paradigma patrimoniale è stato usato il termine "living heritage" e di certo non è questo il luogo per entrare in dibattiti e definizioni "di scuola". Ma sta di fatto che ciò che il patrimonio immateriale definisce (nel bene e nel male) è ciò che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui, definiscono come parte importante delle loro pratiche di vita, ciò a cui le comunità danno valore e che danno senso all'esistenza. Già prima dell'emergenza sanitaria molte dimensioni collettive del vivere sociale e culturale erano state sottoposte a vincoli e restrizioni di vario genere, via via sempre più pressanti. Prima era stato il fuoco nelle feste a fare paura, che ha portato a regolamentarne l'uso (vedi la regolamentazione dei fantocci e dei falò rituali, alcuni dei quali sono scomparsi dalle pratiche anche per questo motivo). Poi era stato l'imprevedibile comportamento della folla e i suoi rischi, o il rischio incidenti di vario tipo (allora sono state introdotte transenne e sono state aumentate le distanze) e si è 3 compiuta la trasformazione dei rituali in spettacoli disciplinati. Ora è la volta della dimensione sanitaria. Questo ingresso della dimensione "sanitaria" nelle pratiche sociali e culturali ci riguarda molto da vicino e su questo si dovrà riflettere. Certo, si dirà che è l'emergenza ad aver provocato la cancellazione di tutte le feste ed i rituali dal mese di marzo a chissà quando ed è giusto così. Ma in che modo la sicurezza sanitaria, divenuta oggi un imperativo globale, si rifletterà nelle pratiche del futuro ? Quanto e in che profondità le mascherine e il metro e oltre di distanza entreranno strutturalmente anche in questi ambiti della "prossimità" e della condivisione rituale e quali pratiche di "resistenza" verranno messe in atto ? Ce li vedete i "passanti" della Madonna del Monte, festa sulle rive del lago di Bolsena nel Lazio, cantare "Evviva Maria" tutti insieme con le mascherine ? Di esempi come questi se ne possono fare a migliaia. In diverse città e paesi già pochi giorni fa accendere i falò per S. Giuseppe è stato dichiarato un atto "da delinquenti" (vedi nota 1). Ma il fuoco una volta non era purificatore ? Ciò che dico è chiaramente una provocazione, ma vuole esprimere un problema di fondo molto serio, soprattutto un disagio e uno scenario di cambiamento.

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L'Unesco parla nel comunicato di "resilienza", resilienza come una capacità del patrimonio immateriale a continuare a vivere continuando a far vivere le comunità, anche nel dramma della pandemia. E indirettamente accenna ad un fenomeno assolutamente nuovo che stiamo vivendo e che abbiamo ad esempio vissuto pochissimi giorni fa, quando abbiamo visto i riti della Settimana Santa, in tutto il mondo cristiano trasformarsi in riti social: processioni in solitaria delle sfere ecclesiastiche e "partecipazione" virtuale di cittadini che hanno partecipato in solitudine, senza conoscersi e vedersi; trasformazioni di "living rituals" in riti della memoria "a distanza", tramite condivisione di immagini. Riti della solitudine social, si potrebbe dire, un ossimoro al quale eravamo già abituati dopo anni di esperienze a distanza, ma che ora va intaccando anche la partecipazione ad uno dei pochissimi ambiti della vita sociale non mercificati che si era conservato nello spazio pubblico, nel quale il coinvolgimento dei sensi, l'esperienza del "corpo" nel rituale (il sudare, il guardarsi negli occhi, il ballare, il cantare, il camminare insieme) erano centrali. Sicuramente si tratta di un fenomeno nuovo e per noi interessante, già anticipato da molti anni di feste in diretta streaming e di partecipazione a distanza grazie alle nuove tecnologie. Ma in che misura -mi domando- al di là della disruption attuale che stanno vivendo molte comunità e alla quale queste stanno rispondendo con resilienza e speranza- in che misura tutto questo non lascerà delle tracce profonde nelle forme della partecipazione sociale e comunitaria, che costituiva la "carne e il sangue" del patrimonio immateriale? Conosco alcuni paesi e città dove si sta vivendo come un vero e proprio "dramma sociale" il rischio di vedere cancellata la "loro" festa. Ma soprattutto, al di là dell'emergenza, siamo sicuri che la paura del contatto fisico, che in questi giorni ci viene comunicata in forme e modi spesso confusi e contraddittori, non lascerà delle tracce profonde nella vita di relazione, al di là dei facili entusiasmi per le tecnologie a distanza ? Nello stesso comunicato, al quale di certo ne seguiranno altri, con nuove iniziative, il sito UNESCO invita le comunità a condividere esperienze di salvaguardia durante la pandemia e incoraggia queste a condividerle, a scambiarle per poter dare spunto ad altre comunità a fare altrettanto. Il comunicato UNESCO parte in pratica dal bicchiere mezzo pieno e cioè dalla possibilità di guardare alla pandemia come una occasione per poter sperimentare delle pratiche nuove di salvaguardia del patrimonio immateriale e per guardare ad esso come una risorsa cui attingere, in forme e modi diversi, anche in un'epoca di distanziamento sociale e di paura. Quindi una finalità pedagogica del patrimonio se vogliamo. Una prospettiva nobile, che è inscritta nella mission dell'UNESCO fin dalla su fondazione. Tuttavia -bicchiere mezzo vuoto, anzi completamente vuototutto questo non è sufficiente e cela una dimensione nascosta che è nostro dovere far emergere, sulla quale occorrerà vigilare in futuro. Le pratiche espressive che vediamo spesso rappresentate da feste e rituali, non solo sono a volte fragili, basandosi proprio sui legami tra le persone (a volte poche persone), sulla loro vicinanza, che è anche fisica, fatta di sguardi, di famiglie coinvolte, di intenti comuni, di serate passate a realizzare un carro votivo, o a preparare insieme un piatto, o fare una questua per finanziare la festa. Ma anche quando possono contare su apparati più istituzionalizzati di finanziamenti o di organizzazione, si sostanziano proprio di azioni volontarie che fondano il senso stesso della partecipazione.

Che ne sarà dunque della partecipazione dei cittadini al patrimonio quando questa, anche quando le disposizioni governative saranno ammorbidite, continuerà ad essere vista come un assembramento pericoloso per la salute?

 

 

note:

1. Per esempio a Taranto: https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/taranto/1212789/coronavirus-taranto-accendere-i-fuochi-di-s-giuseppe-e-da-delinquenti.html

Oppure a Bari: http://www.baritoday.it/cronaca/coronavirus-sporcaccioni-rifiuti-decaro.html

O ancora sulle "vampe" per S. Giuseppe a Palermo: https://palermo.repubblica.it/cronaca/2020/03/18/news/il_virus_non_ferma_le_vampe_sette_falo_spenti_a_palermo-251639837/

 

* https://ich.unesco.org/en/news/living-heritage-experiences-in-the-context-of-the-covid-19- pandemic-13261

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#LACULTURANONSIFERMA. #VISIONIDAITERRITORI. Le feste del fuoco: il Cavallo di Fuoco di Ripatransone (AP)

Molto spesso nelle occasioni festive elementi naturali trasformano e arricchiscono il paesaggio: sono spesso icone connesse a cicli produttivi, a cicli dell’anno e/o a particolari forme devozionali, che vengono ricreate per l’occasione, fra queste il fuoco. Il simbolo oggi visibile, che sia fuoco o altro, è il prodotto di nessi stratificati e densi, esito di trasformazioni storiche, visibili nelle sintesi creative delle espressioni artistiche e artigianali, che ri-disegnano anno dopo anno i paesaggi locali grazie a “portatori” patrimoniali. Il fuoco come elemento e simbolo di processi rituali diffusi su tutto il territorio nazionale potrebbe essere denominatore comune di potenziali reti. Tali tratti culturali im-materiali qualificati anche per modalità di trasmissione, che rimandano all’oralità e al rapporto diretto fra le generazioni e al rispetto delle diversità culturali sono meritevoli di attenzione, necessitano di prime forme di inventariazione, azioni di salvaguardia e di particolari forme di tutela.

Tra le tante feste del fuoco diffuse nel territorio nazionale oggi approfondiamo quella del cavallo di fuoco di Ripatransone, che si sarebbe dovuta celebrare in data odierna, nell'Ottava di Pasqua. 

Dal 1682 a Ripatransone (AP) prende vita una fra le manifestazioni folkloristiche più antiche e singolari d'Italia, il Cavallo di Fuoco. In ricordo di quanto successe, per la prima volta, il 10 maggio di quell'anno, i Ripani si ritrovano tutti gli anni nella sera dell’Ottava di Pasqua, a rievocare un evento che è molto più di un semplice fuoco d’artificio.

L'episodio si lega indissolubilmente alla profonda devozione dei Ripani nei confronti del Simulacro della Madonna di San Giovanni, realizzato a Recanati da Sebastiano Sebastiani e giunto in Città la Domenica in Albis del 1620. La venerazione nei confronti dell’immagine spinse i fedeli a richiederne l'incoronazione al Capitolo di San Pietro, ottenuta il 30 giugno 1681 e celebrata solennemente proprio il 10 maggio dell’anno successivo.

“Poscia (dopo la processione e i fuochi) il maestro che lavorò i fuochi, che fu chiamato da Atri, cavalcò un cavallo, che era tutto ripieno di fuochi artificiali con il quale girò più volte la piazza buttando sempre raggi ed altre bizzarrie composte di bitume ed altre simili materie incendiarie. Pareva giusto un Plutone quando sopra un cavallo di fuoco uscì dal monte Vesuvio a rapire la figlia di Cerere”.
Il Marchese Filippo Bruti Liberati in un suo scritto descrisse così l'evento che cambiò definitivamente la storia della Città divenendone nei secoli il suo emblema.
L’abile fuochista chiamato per i festeggiamenti, dopo aver concluso il suo lavoro, con tutto ciò che gli rimaneva, improvvisò uno spettacolo in sella al suo cavallo; la gente radunata in piazza gradì a tal punto che seguì un lungo ed intenso applauso che accompagnò l’uscita dal paese di questo anonimo fuochista. Ciò che accadde entusiasmò molto i Ripani al punto da spingere alcuni cittadini, memori del fatto, a rievocare l'accaduto fin dall'anno successivo. Nei secoli, quella che in origine era una figura equina vivente fu sostituita dapprima da sagome portate a spalla da forzuti cittadini, poi da riproduzioni a grandezza naturale in legno (e attualmente in ferro) a traino.

La manifestazione viene oggi curata dalla Confraternita della Madonna di San Giovanni che ha in carico l'organizzazione dei festeggiamenti dell'Ottava di Pasqua, perpetuando la memoria dell’arrivo del simulacro di cui nel 2020 sarebbe stato celebrato il 400° Anniversario. Il Cavallo di Fuoco è stato insignito nel 2011 del riconoscimento di Patrimonio d’Italia per la Tradizione; è motivo di richiamo per migliaia di spettatori e rappresenta per tutti i Ripani, residenti ed emigrati, il simbolo concreto dell’immutabilità delle tradizioni.

Presentazione a cura della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche

 

 

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