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Articoli filtrati per data: Aprile 2014

Dal 1997 al 2015

Nel 1997, con la direzione di Stefania Massari, il percorso museale viene riorganizzato sulla base dei suoi stessi presupposti storici: un museo nazionale inteso non solo come espressione di "cultura popolare" o "civiltà contadina" o "artigianale", ma aperto a molteplici temi della cultura, a metodologie d'indagine diversificate e all'elaborazione critica dei dati in sintonia con gli sviluppi delle discipline affini, prima tra tutte l'antropologia culturale.

L'allestimento viene curato tenendo presenti le principali esposizioni di Lamberto Loria e di Paolo Toschi, interpretate quale trama di significati da cui partire per individuare i differenti nuclei tematici d'interesse - siano essi beni materiali o immateriali come il lavoro, la festa, la fiaba, la tradizione orale, il costume, la religione, il rito, o il lavoro artigianale - fino ad analizzare i mutamenti operati dai processi di comunicazione e di omologazione che hanno profondamente modificato usi e saperi, riti e tradizioni.

L'ordinamento, non settoriale, legato essenzialmente al passato, è rinnovato attraverso l'adozione di raggruppamenti per tematica e per materia, per tipi di oggetto, per funzioni e per categorie relative a usi e costumi, percorribili anche grazie al supporto degli spazi virtuali che consentono di dilatare i confini stessi del Museo con la prospettiva di rendere disponibili ad una utenza sempre più vasta i beni demoetnoantropologici.

Il percorso museale è articolato in 3 grandi aree tematiche: La terra e le risorse, Vivere e abitare, Riti feste e cerimonie. Nella prima sezione, La terra e le risorse, sono affrontati i temi relativi al trasporto, al lavoro agricolo e pastorale, al lavoro marinaro e al lavoro artigianale; nella seconda, Vivere e abitare, compare il mondo domestico con i suoi arredi, i gesti del quotidiano, il ciclo della vita umana con i suoi riti e le sue cerimonie. La terza sezione, Riti feste e cerimonie, descrive le varie cerimonie, la musica, i giochi e gli spettacoli, gli abiti e gli ornamenti tradizionali usati per lo più nei giorni di festa.

Dal 1° maggio 2011 al 31 dicembre 2012, con la direzione di Daniela Porro, il Museo è stato rinnovato nei seguenti spazi: Salone d'Onore, Sala delle Colonne, Sala delle Conferenze, Laboratorio Audiovisivo. La mostra dedicata all'Esposizione del 1911 è diventata sezione permanente; numerose modifiche sono state inoltre apportate per migliorare la fruizione delle collezioni espositive e degli archivi.

Dal 2013 al 2015 la direzione è stata affidata a Maura Picciau.

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Dal 1956 al 1996

Il Museo, inaugurato il 20 aprile 1956, venne posto sotto la Soprintendenza delle Gallerie di Roma e del Lazio, contrariamente a quanto auspicato da Paolo Toschi, che volendo dare vita autonoma alla raccolta riteneva più opportuno istituire un'apposita Sovrintendenza coadiuvata da ispettori onorari per le arti e tradizioni popolari, scelti tra i titolari di insegnamenti universitari, in modo da far assumere al Museo il ruolo fondamentale di centro di studi e di ricerca. L'esposizione, che occupava il primo piano dell'edificio, situato nel monumentale palazzo dell'allora Piazza Italia, si prefiggeva di illustrare sinteticamente in dieci sezioni gli usi, i costumi, le credenze, le manifestazioni e gli aspetti più significativi e caratteristici delle tradizioni popolari italiane.

Tullio Tentori ne curò intelligentemente l'attuazione con l'aiuto di vari specialisti: da Diego Carpitella del centro di musica popolare dell'Accademia di S. Cecilia a Corrado Maltese, che si occuperà della parte destinata alle usanze tradizionali relative alla nascita nella sezione dedicata al ciclo dell'uomo. Gli oggetti erano presentati non come espressione dei rispettivi contesti, ma come elementi di un unico discorso; la successione delle sezioni teneva conto della dimensione diacronica dei fenomeni. Dapprima erano rappresentati i momenti maggiormente caratteristici delle manifestazioni collettive che si svolgono durante le tradizionali ricorrenze dell'anno, in particolare, nell'ampio salone d'onore erano visibili gli oggetti delle più note feste popolari italiane, le bandiere del Palio di Siena, i Ceri di Gubbio, i Gigli di Nola; quindi seguiva la prima sezione dedicata al ciclo dell'anno - oggetti, stampe, fotografie per ricordare le principali ricorrenze e le feste stagionali; la seconda sezione illustrava le differenti fasi del ciclo della vita umana partendo dalla nascita fino alla cerimonia funebre; la terza presentava l'abitazione, nelle sue strutture architettoniche e nelle diverse forme d'arredamento; il tema del lavoro era affrontato nelle tre successive sezioni: agricoltura, pastorizia, pesca, piccolo commercio e artigianato, illustrati attraverso i caratteristici strumenti del mestiere; la settima sezione era dedicata all'esposizione di manufatti dell'arte popolare, a completamento di quest'ultima il canto, la danza, la recitazione, e la sala dedicata ai costumi regionali e all'oreficeria; l'ultima sezione illustrava le manifestazioni religiose e le credenze, con i carri delle più note festività popolari, ex voto e maioliche con iconografia religiosa.

Luogo di memoria per eccellenza, il Museo voleva "rappresentare" la cultura folklorica attraverso "testimonianze materiali", ma anche e soprattutto esempi di cultura popolare, esempi che rendevano possibile un viaggio nel passato della tradizione e aiutavano a comprendere la propria identità nazionale. Nel 1978, sotto la direzione di Jacopo Recupero (subentrato a Tullio Tentori nel 1972), il Museo viene chiuso al pubblico per lavori di restauro, con l'eccezione di alcune sale agibili per mostre. A metà del 1980, durante la direzione di Valeria Petrucci, iniziano i lavori di riallestimento, che vengono completati nel 1996, anno in cui si celebra una nuova inaugurazione.

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Dal 1947 al 1954

Per suscitare l'interesse intorno alle preziose collezioni costituenti il Museo di Etnografia Italiana, che per un complesso di circostanze avverse attendevano da anni invano una sistemazione definitiva in una sede appropriata, Paolo Toschi organizzò nel 1947, in collaborazione con la Società di Etnografia Italiana, la Mostra di Stampe popolari e iconografia del costume che si tenne in una sala al piano terreno di Palazzo Venezia: accanto alla rappresentazione delle fogge del vestire furono esposte le stampe appartenute allo stesso Lamberto Loria, ad Alessandro D'Ancona, Francesco Novati, Achille Bertarelli e la collezione iconografica di costumi donata da Salvatore di Giacomo con disegni di Filippo Palizzi, Giacinto Gigante e Domenico Morelli. L'esposizione era articolata in quattro temi principali: stampe popolari; iconografia del costume; motivi popolari, curiosità varie; libretti popolari e fogli volanti: album e volumi.

Sempre nello stesso anno Toschi realizzò, in occasione delle Celebrazioni Centenarie svoltesi nel 1948 a Torino, la mostra su Il Costume popolare di Roma e del Lazio con gran parte della collezione Loria del costituendo Museo di Etnografia, mentre l'anno dopo verrà organizzata, a Roma, grazie alla Società Geografica Italiana, la Mostra di Tappeti e ceramiche popolari a Villa Celimontana (7 ottobre 1948 - 7 gennaio 1949). La mostra si prefiggeva di far conoscere l'artigianato rurale, offrire spunti per la ripresa e lo sviluppo dei prodotti artigianali italiani e riproporre l'annoso problema della definitiva sistemazione del Museo.

Grazie all'interesse suscitato, le esposizioni determinarono la ripresa delle trattative con l'Eur, tanto che nel 1950-51 sembrò definita l'assegnazione per il Museo del Palazzo delle Tradizioni Popolari situato nell'attuale piazza Marconi. Ancora una volta una serie di circostanze, incluso il passaggio di Toschi alla cattedra di Storia delle Tradizioni popolari dell'Università di Roma, avvenuto nel novembre del 1949, ne impedirono la realizzazione.

Tuttavia non diminuì l'interesse per gli studi folklorici tanto che nel 1953 si terrà a Roma, nel Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, la Mostra dell'arte nella vita del Mezzogiorno d'Italia. Scopo dichiarato dell'esposizione era ancora una volta quello di valorizzare le energie artistiche delle popolazioni italiane, in realtà l'intento era dare definitiva collocazione alla raccolta di Loria. La Mostra esponeva l'artigianato artistico rappresentato da oggetti di oreficeria, miniature, cammei, ceramiche, vetri, mosaici, metalli battuti e sbalzati, legni scolpiti, tessuti e icone artistiche, pitture popolari, ex voto.

Nello stesso anno l'intera collezione Loria venne trasferita da Tivoli a Roma per l'Esposizione internazionale dell'Agricoltura (E A 53), al Palazzo dei Congressi dell'EUR, dove una sezione fu dedicata al folklore.

Il successo della mostra sul folklore che aveva esposto, oltre agli oggetti della suddetta collezione, i manufatti più significativi del Museo Pitrè di Palermo e del Museo Etnografico romagnolo di Forlì, e soprattutto l'intelligente e sistematica politica operata da Toschi determinavano il 27 febbraio 1954 la stipula del contratto d'affitto del Palazzo delle Tradizioni Popolari fra l'Ente Eur e il Ministero della Pubblica Istruzione, rappresentato dall'allora Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti Guglielmo De Angelis d'Ossat.

Il Ministero della Pubblica Istruzione, in possesso del palazzo, nominò nello stesso anno una Commissione per l'ordinamento scientifico del Museo presieduta da Toschi, nella quale ricoprì un ruolo fondamentale Tullio Tentori, allora direttore del Museo e ispettore del Pigorini, accanto ad altri illustri membri. Venne modificata la denominazione da Museo di Etnografia in quella di Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari in considerazione del fatto che non si riteneva che il termine "etnografia" corrispondesse ai criteri scientifici che avevano ispirato l'ordinamento del Museo, in cui era esposto unicamente il materiale relativo ai prodotti tradizionali e artistici del popolo italiano.

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Biografia di Tullio Tentori

di Luciana Mariotti
 

Tullio Tentori nasce a Napoli nel 1920 e muore a Roma nel 2003. È stato nominato Medaglia d'oro per la Cultura dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il 19 aprile 2002 e Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat il 28 luglio 1970. È stato il primo direttore etnoantropologo del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, denominazione che sostituisce nel 1956 (D.P.R. n.1673 del 1 novembre 1956) quello di Museo Nazionale (ex Regio) di Etnografia Italiana (R.D. 2111 del 10 settembre 1923).

Nel 1939 si iscrive alla alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Roma "La Sapienza". I suoi interessi per le civiltà "diverse" dalla nostra si configurano immediatamente. Segue infatti i corsi di filosofia di Giovanni Gentile (1875-1944) quelli dell'orientalista Giuseppe Tucci (1894-1959) sulla civiltà indiana, di Giovanni Vacca (1905-1964) sulla civiltà cinese e di storia delle religioni di Raffaele Pettazzoni (1877-1959). Con il grande storico delle religioni approda alla novella cattedra di etnologia aperta a Roma nel 1938. Lavora all'Università di Roma durante anni particolarmente intensi per l'avvio e lo sviluppo, in Italia e proprio a partire da questa città, delle discipline etnoantropologiche. Pettazzoni favorisce l'inserimento negli Statuti dell'Università di Roma della cattedra di Letteratura e Storia delle Tradizioni Popolari e fonda - contemporaneamente - l'Istituto per le Civiltà Primitive. Si laurea con il Maestro nell'ottobre del 1942 con una tesi su Religione degli Indiani della California. Il culto di Kuksu diffuso fra le tribù Pomo, Wintu, Maidu,Waffa. La tesi risulta vincitrice di una Borsa di Studio al Centro Italiano per gli Studi Americani "Isabella Grasso". Attraverso lo stesso Pettazzoni, Tentori, nel 1943 , è assistente volontario alla Cattedra di Storia delle Religioni e di Etnologia insieme ad Angelo Brelich (1913-1977 ) e Luisa Banti, allora assistenti ordinari alla sua cattedra.

Nel novembre del 1946 è assunto come avventizio al Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti e prende servizio al Museo Nazionale Preistorico-Etnografico "Luigi Pigorini". In questo Museo resta in carica fino al 1955 e si occupa della riorganizzazione delle collezioni americane, in particolare dell'America del Nord, data la sua esperienza maturata durante la stesura della sua tesi di laurea. Nel periodo della sua permanenza, cura un programma di scambi culturali tra il museo e analoghi istituti scientifici stranieri, partecipa all'organizzazione di Mostre, quali quella internazionale precolombiana del 1951 a Genova; alla Mostra a Palazzo Venezia sulla Ceramica precolombiana della Collezione Nathan Cummings di Chicago nel 1957 e alla Mostra , sempre a Palazzo Venezia, Arte esquimese, organizzata per conto dell'Ambasciata canadese nel 1958. Partecipa al Congresso Internazionale di Studi Precolombiani del 1951 a Genova dove espone un suo contributo. E' relatore a diversi Congressi Internazionali, fra i quali il XXIX° e XXX° International Congress of Americanists, rispettivamente a New York nel 1949 e a Cambridge, in Inghilterra, nel 1952. Nel 1948 vince una borsa di studio alla Wenner Green Foundation for Anthropological Studies (ex Viking Found) con un progetto di ricerca sulle differenze materiali e di struttura delle frecce e degli archi diffusi nei territori indiani. Nel 1949 parte per gli Stati Uniti, ma il suo obiettivo – oltre alla ricerca sugli oggetti etnografici – è l'approfondimento delle conoscenze sul rapporto cultura/civiltà, del quale fin dal 1920 l'antropologo-linguista Edward Sapir ne aveva individuato la distinzione. Il motivo del profondo interesse, Tentori lo spiega nella sua autobiografia: [perché] vedevo che da noi la "cultura" era ancora un patrimonio di lusso, un bene elitario secondo la tradizione umanistica. Si andava faticosamente acquisendo che invece la "cultura" è un tessuto connettivo, invisibile, ma reale e tenace, senza il quale strutture e organi sociali non funzionerebbero. Questa è la cultura tutta da esplorare, tutta da rendere visibile, che intendevo affrontare. Il soggiorno americano fu importante affinchè Tentori potesse introdurre in Italia quella disciplina che – per suo tramite a partire dal 1958 – è l'antropologia culturale. Nel documento, noto con il nome di Memorandum, viene delineata la differenza tra "civiltà", "cultura", "società" e si sostiene che l'oggetto della disciplina antropologica è la cultura intesa come insieme dialettico dei patrimoni psichici, esperenziali, individuali costituitisi attraverso i rapporti socialmente integrati tra ciascun individuo e il suo ambiente sociale ed ecologico, nel quadro di una società storicamente determinata .

Altro punto nodale del documento è la distinzione operata tra "etnologia", studio delle civiltà primitive e "antropologia culturale", studio della cultura. Queste interpretazioni, insieme alle rielaborazioni del concetto di "modello culturale", contrassegnano la sua metodologia etnoantropologica.

Il soggiorno, tanto nelle più prestigiose Università americane, quanto nei Musei ad esse collegati come: la Columbia University, il Natural History Museum di New York, l'Harward University , il Peabody Museum di Boston, il Field Museum di Chicago, l'University of California a Berkeley, inserisce Tentori nel dibattito antropologico internazionale. Entra in contatto con Alfred Kroeber (1876-1960), Robert Lowie (1883-1957), Clyde Kluckhon (1905-1960), Margaret Mead (1901-1978), Melville Herskovits, il sociologo Talcott Parson (1902-1979) , figure decisamente basilari per lo sviluppo dell'antropologia culturale mondiale e, più in particolare, entra in contatto con quello spirito di ricerca antropologica che a lungo ha utilizzato i musei etnografici quali strumenti imprescindibili, e per le analisi antropologiche e per le analisi sulle collezioni etnografiche, come se queste ultime costituissero una sorta di " osservazione prolungata" delle inchieste di campo.

Al ritorno in Italia continua il suo lavoro al Museo Nazionale Preistorico-Etnografico Luigi Pigorini. Quale curatore delle collezioni nordamericane, inizia a frequentare il Museo Etnologico Lateranense, fondato nel 1927 da Papa Pio XI, diretto in quegli anni da padre Michele Schulien (1888-1968). Frequenta anche l'Accademia dei Lincei, dove conosce Alessandro Bausani (1921-1988), orientalista di fama internazionale. Tuttavia, gli interessi di Tentori si concentrano sempre più sul contesto sociale e culturale italiano e accantona la pur vasta documentazione su "frecce ed archi" dei nativi nord americani raccolta negli Stati Uniti.

Nel 1950, il Ministero della Pubblica Istruzione – Direzione Generale alle Antichità e Belle Arti – indice un concorso per storici dell'arte, architetti, archeologi con un solo posto per etnologo. Tentori vince il concorso ed entra così nella carriere del Ministero come Ispettore al Museo Pigorini. Ma, come scrive egli stesso: stavo lì, e pensavo alle comunità d'Italia. L'occasione per dare inizio ad una sua ricerca "di comunità", che avesse un forte impianto antropologico, gli si presenta con l'arrivo a Roma di Friz Friedmann, antropologo sociale ebreo-tedesco, transfuga dalla Germania in Italia nel 1933, dove si laurea in filosofia. Nel 1938, dopo l'emanazione delle leggi razziali, deve lasciare anche l'Italia e si rifugia negli Stati Uniti, dove assume l'incarico di docenza all'Arkansas State University. Il suo campo di interesse è la filosofia del "mondo della miseria" e, quando nel 1949 torna in Italia con u progetto di studio della miseria nel meridione, conosce Carlo Levi, Rocco Scotellaro e - per loro tramite - Ernesto de Martino. Decide di studiare il "contadino meridionale", in particolare, il contadino di Matera per la singolarità abitativa nei Sassi e per gli interessi sociali emergenti su tali condizioni, che infatti hanno spinto l'industriale Adriano Olivetti a dar vita ad un programma di sviluppo civile della comunità, con investimenti proprio a Matera. "E Matera, in quegli anni - scrive Alberto Mario Cirese – significa il quartiere La Martella che deve sostituire il Sasso". Nel 1950, Friedmann costituisce una équipe di lavoro di campo e avvia la prima ricerca interdisciplinare in Italia, a Matera, dove Tentori sperimenta per la prima volta l'applicazione del metodo culturologico – lo studio di comunità. Con suo grande rammarico, tuttavia, la ricerca per essere accettata viene presentata come "inchiesta etnologica". Sembra solo un pretesto, ma il contesto scientifico in cui Tentori si muove per affermare l'antropologia culturale non è senza ostacoli. Mi sembra, pertanto, interessante riportare le sue stesse parole a questo proposito:

Il mio era un tentativo pionieristico. Ostacolato da una parte, dall'establishment accademico che a malapena accettava il folklore, non come cultura di strati sociali legati alla tradizione, ma come residuo di civiltà passate da portare in luce, per altra parte, rifiutato anche da studiosi di valore come Ernesto de Martino...Era piuttosto diffidenza verso una scienza che sembrava priva di impianto storicistico, muovendosi a riconoscere legittimità all'innovazione piuttosto che a studiarne le dinamiche dell'evoluzione.

Il decennio degli anni Cinquanta è comunque denso per Tullio Tentori. Un decennio in cui iniziano a prendere forma alcune delle sue principali aspettative. Nel 1953 – ancora in ruolo al Museo Pigorini – viene chiamato dal Direttore Generale Guglielmo De Angelis d'Ossat (1907-1992 ) ad entrare nella costituenda Commissione che deve progettare la sistemazione definitiva delle raccolte di Lamberto Loria (1855-1913) per la Mostra di Etnografia Italiana all'interno del Palazzo delle Tradizioni Popolari, edificio già previsto in occasione dell'Esposizione Universale del 1942, nel quartiere EUR. Il 31 marzo 1955 la Commissione, presieduta da Paolo Toschi (1893-1974), si insedia e conferisce a Tentori l'incarico dell'esecuzione dei progetti di allestimento del Museo di Etnografia Italiana che, il 20 aprile del 1956, apre al pubblico con il nome attuale di Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. Gli studi sull'allestimento del Museo prevedono diverse ipotesi, alcune vengono accantonate – come la divisione degli oggetti per aree tipologiche, cara a Giuseppe Cocchiara (1904-1965) – e viene invece prescelta la loro suddivisione sulla base del "ciclo della vita umana", dalla nascita alla morte, con l'obiettivo di dare risalto alle diversità regionali. L'apertura del Museo all'EUR richiama una vasta attenzione e, in particolare, sollecita il Ministro della Pubblica Istruzione, On. Paolo Rossi, a scrivere una lettera di encomio a Tentori per i risultati ottenuti che fanno del Museo degna testimonianza della vita tradizionale e del folklore del nostro popolo...e costituirà un valido impulso allo studio e allo sviluppo della scienza delle tradizioni popolari e delle altre discipline che ad essa si ricollegano (s.p. lettera del 30.4.56). Successivamente Tentori viene nominato Direttore: è l'unico direttore ad aver avuto una formazione etnoantropologica poiché il Ministero della Pubblica Istruzione non ha mai riconosciuti né profilo professionale né, tanto meno, ruolo analogo nell'organigramma della Direzione Generale alle Antichità e alle Belle Arti; né gli etnoantropologi sono stati inseriti al momento della costituzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali nel 1975 (D.L.n.805), né sono stati riconosciuti dalla Riforma del 1998, quando diventa Ministero per i beni e le attività culturali. (D.L.n.368). Lo stesso mutamento della denominazione del Museo nel 1956 è spiegata da Tentori con la necessità di allineamento "burocratico" a denominazioni già presenti nell'ambito della Direzione Generale alle Antichità e Belle Arti. Per questo l'Istituto è inizialmente inquadrato nella Soprintendenza alle Gallerie d'Arte medioevale e moderna del Lazio. Naturalmente Tentori avverte larghi margini di obiezione a queste concezioni, ma si rassegna ad una mentalità ancora non pronta ad accogliere i beni del Museo che sono – per noi [etnoantropologi] materiali e immateriali, che esprimono e testimoniano forme di cultura storicamente ereditate, variamente condivise, in continua elaborazione, forme che comprendono ogni attività umana, pratica e artistica, concezioni del mondo e della vita, valori, norme e comportamenti. Sono beni che definiscono, in condizioni storiche determinate e determinatesi, l'identità o le identità di una nazione, patrimonio di un popolo. Già allora pensavo e forse sognavo il museo delle identità.

Parallelamente all'attività museale, obiettivo di Tentori è senz'altro il riconoscimento accademico dell'antropologia culturale. Intanto dal 1961 ricopriva incarichi di libera docenza in Etnologia, in Civiltà indigene d'America, strettamente collegata alla cattedra di Etnologia di Vinigi Grottanelli. Una concreta possibilità nella direzione del riconoscimento dell' antropologia culturale, si delinea in occasione del 1° Convegno Italiano di Scienze Sociali a Milano nel 1958, Convegno che diventa la sede per presentare- come si è già accennato - gli Appunti per un memorandum sull'antropologia culturale, atto ufficiale della nuova disciplina, dove il termine "appunti" sta ad indicare una procedura di metodo culturologico per l'analisi delle società contemporanee, una base per l'elaborazione di idee e di pensiero negoziati attraverso la discussione. Questo Convegno è presieduto da S.E. Di Pietro, presidente del Consiglio Superiore della Magistratura; nel comitato scientifico ci sono il professor Renato Treves, ordinario dell'Università di Milano; il professor Remo Cantoni (1914-1978), ordinario dell'Università di Pavia. Tentori chiede al Ministro della Pubblica Istruzione l'autorizzazione ad adempiere l'invito a tenere una delle relazioni introduttive (autorizzazione concessa con prot.n. 2735 del 19 febbraio 1962). Dopo la pubblicazione del Memorandum diversi studiosi si riconoscono nelle prospettive di indagine promosse da Tentori e il 4 maggio del 1960 egli acquista la libera docenza in Antropologia Culturale. Il 1962 vede la promozione del 1° Convegno Nazionale di Antropologia Culturale all' Università di Milano; a cui seguono i Convegni di Roma nel 1963 e di Perugia nel 1968, quest'ultimo coordinato da Tullio Seppilli. Nel medesimo anno Tentori è chiamato a far parte della Commissione per l'assegnazione della libera docenza di antropologia culturale e gli viene autorizzata la partecipazione con prot.n.376 del 23 gennaio 1962. Nella Commissione ci sono il professor Norberto Bobbio, il professor Remo Cantorni, il professor Concillo Pellizzi, il professor Paolo Toschi. Il riconoscimento ufficiale all'interno dell'accademia arriva, tuttavia, per Tentori solo nel 1969-1970 quando viene bandito il primo concorso nazionale per la cattedra di Antropologia culturale. Tentori vince il concorso con Carlo Tullio Altan: sono i primi professori ordinari di antropologia culturale, l'uno all'Università di Trento, l'altro all'Università di Firenze.

La maturazione statunitense di Tullio Tentori, rispetto al concetto di cultura, lo conduce nel percorso dei suoi studi – sempre più orientati verso la teoria e il metodo della ricerca sociale - non solo a definire sempre più esplicitamente l'oggetto di questa disciplina, ma anche a mettere in primo piano la necessità di rielaborare saperi, metodologie, forme di rappresentazione nelle analisi di quella cultura che emerge e si forma nella complessità della metropoli. Da questo punto di vista, il suo sforzo teorico più consistente è stato il Convegno di Roma del 1986 dal significativo titolo Antropologia delle società complesse. Anche in questo caso, tuttavia, la risonanza non è stata all'altezza delle aspettative. Il tentativo di promuovere la riflessione sui metodi dell'antropologia culturale nell'ambito di nuovi contesti d'indagine si è arenato: "forse – si è scritto - per il mancato appoggio delle diverse correnti scientifiche".

La "doppia anima" di Tentori lo vede a lungo impegnato tanto sul versante accademico quanto sul versante "beni culturali", con la consapevole percezione che ambedue potessero seguire i medesimi itinerari: vagheggiavo intanto il museo, grande Istituto museale di scienze antropologiche articolato nello studio del passato - paletnologia -, dell'esterno - etnologia - e dell'esterno-interno che è in noi e tra noi - antropologia culturale - in un raccordo di discipline tra Università, enti, istituti scientifici e musei locali. Ma deve restare con i piedi ben saldi a terra. Tuttavia, la sua carriera procede e nell'ambito del riordino delle Soprintendenze, nel 1968 viene bandito al Ministero della Pubblica Istruzione un concorso per Soprintendente di seconda fascia (ex coeff.500) (D.M. del 18 giugno 1968) vinto da Tentori che diventa così, a tutti gli effetti, Soprintendente al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, sebbene nel ruolo degli Archeologi, unico soprintendente "senza soprintendenza", ma - come egli stesso scrive - l'unico ad avere competenza estesa in tutto il territorio nazionale per le discipline etnoantropologiche. Resta in ruolo fino al 1972, fino alla nomina di professore ordinario di antropologia culturale all'università di Trento.

Il tema delle professionalità specifiche da impiegare al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari è tema cruciale che il nuovo Soprintendente sperimenta sulla sua stessa figura e che ha costituito un suo preciso impegno fin dal 1957. Infatti, in questa data, in vista della Riforma della legislazione sulle antichità e le belle arti, il Ministro On. Paolo Rossi invia a tutti i soprintendenti un questionario incentrato - in particolare - sul personale scientifico da impiegare all'interno degli Istituti del quale è richiesto la mansione specifica da espletare. La circolare ha la firma del Presidente della Associazione dei Funzionari del Ministero professor Renato Barroccini. Tentori riempie accuratamente il modello allegato sottolineando la necessità di avere all'interno dell'Istituto specifiche e precise professionalità scientifiche, quali : "1 etnologo, per dirigere le varie attività scientifiche e tutte le manifestazioni di carattere artistico-culturali connesse con il Museo; 4 ispettori, rispettivamente per lo studio del folklore dell'Italia settentrionale e centrale; per lo studio del folklore dell'Italia meridionale e delle Isole; per lo studio della dialettologia; per lo studio della musica popolare". Le sue proposte non ricevono alcun tipo di risposta.

Si ripresenta l'occasione di ribadire questo problema, più tardi con l'istituzione della "Commissione d'indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio" (Legge del 26 aprile 1964 n.310), che prese il nome dal suo presidente Francesco Franceschini. Nel 1965, Tentori redige un Promemoria per la Commissione nel quale, oltre a tracciare le linee essenziali delle vicende storiche del Museo, evidenzia i compiti dell'istituto e ribadisce le professionalità necessarie alla implementazione delle attività del Museo. In seno a questa Commissione, Tentori viene nominato "esperto" e propone la trasformazione dell'Istituto in Soprintendenza Nazionale per l'Antropologia Culturale e l'Etnografia Italiana, ipotesi che la Commissione accoglie.

All'indomani della sua direzione, altro problema da sciogliere riguarda l'autonomia finanziaria e amministrativa dell'Istituto. Egli si adopera a questo fine, visto che la Soprintendenza alle Gallerie d'arte medioevale e moderna del Lazio non può che riservare al Museo i resti del proprio bilancio finanziario. L'autonomia sembra essere ottenuta già dal 1958, sebbene non siano stati rintracciati documenti precisi in proposito negli archivi del Museo. Tuttavia, una lettera alla Tesoreria Provinciale dello Stato, sezione di Roma, datata 27 luglio 1971(prot.1118) fa esplicito riferimento alla lettera 2371 inviata il 29 luglio 1958 per sottolineare che è ancora lui il Delegato del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari per il deposito in banca e che pertanto rinnova la propria firma che "apporrò sui documenti contabili". Inoltre, da un "Appunto ... per il Dr. Felice Campoli" – Ispettore Generale della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti – si apprende che " in seguito alla Legge n.1964, del dicembre 1961, il Museo è tornato ad essere classificato tra gli istituti autonomi dipendenti dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti ( e non più dalle Gallerie di Roma come era avvenuto nel 1956, alla data della sua apertura)".

La politica culturale che impianta in Museo è fortemente ancorata alla ricerca sul campo: Tentori stesso ricorda la preziosa collaborazione di Annabella Rossi (1933-1984), prima avventizia in Museo e poi docente di Storia delle Tradizioni Popolari a Salerno. Rifiuta l'ipotesi che l'Istituto debba essere antiquario delle tradizioni e fa in modo che sia fortemente ancorato alla disciplina etnoantropologica. Verso il territorio impianta una vasta rete di rapporti con studiosi locali, i quali vengono da lui nominati ispettori onorari, una rete che riesce a coprire gran parte delle regioni italiane. Alcuni rapporti sono particolarmente interessanti, quale ad esempio quello istituito il 9 novembre 1965 con il prof. Gaetano Perusini di Udine per la schedatura del materiale del Friuli Venezia Giulia presente al Museo. Una modalità di conoscenza delle tipologie oggettuali dei patrimoni locali conservati al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, che diventa un prototipo delle sue competenze oltre che costituire quel sottile file rouge riconoscibile nelle collezioni e nelle raccolte contemporanee presenti nei musei locali, diffusi in tutte le regioni italiane. La valenza internazionale del Museo si intensifica con la presenza del suo Direttore negli organi organizzativi dell'Unesco, già a partire dal dopoguerra, quando l'istituzione organizza un'indagine interdisciplinare sulla eventuale persistenza del pregiudizio razziale a Gauting, a Monaco. Nel 1957, i rapporti con la prestigiosa organizzazione delle Nazioni Unite si rafforzano con l'incarico ricevuto di organizzare in Italia il IV Congresso Mondiale di Sociologia e lui entra a far parte dell'International Council of Social Sciences. Il 26 marzo 1964 (prot.n.580) è la data in cui il Ministero per gli Affari Esteri registra la sua nomina ufficiale nella Commissione Nazionale Italiana, in qualità di membro per le Scienze Sociali, nomina che mantiene fino alla morte. L'8 ottobre 1968, il Ministero per gli Affari Esteri lo designa membro della Delegazione Italiana alla XV Conferenza Generale Unesco a Parigi, con incarico rinnovabile annualmente (prot.n. 975). In questa veste si reca spesso all'estero e riceve delegati dell'ICOM e dell' ICOMOS.

Il 16 ottobre 1972 gli viene comunicato dal Ministero per gli Affari Esteri che è "stato designato a far parte della Delegazione Italiana alla XVIII Conferenza Generale dell'UNESCO a Parigi". Tentori cura, in modo particolare, i rapporti a livello internazionale sia sul versante accademico, che sul versante istituzioni museali. I documenti conservati nella sua cartella personale ne riportano i periodi e, spesso, le motivazioni dell'interesse. È il caso del Victoria and Albert Museum di Londra nel 1964, dove si reca Simonetta Picone-Stella, allora collaboratrice del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, per studiare - secondo una prospettiva comparativa - le collezioni di oreficeria del Victoria Museum. Nel 1963 intesse rapporti con il Museo di Eger, in Ungheria, in particolare con il prof. F.Bako interessato all'indagine sugli edifici rurali e sui costumi popolari. Durante gli anni di permanenza al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari provvede a dare all'Istituto una sua propria fisionomia attraverso la revisione e l'ampliamento delle sezioni espositive; l'acquisizione di nuove collezioni; l'estensione della Biblioteca che diventa, sotto la sua direzione, un'istituzione sempre più specialistica proprio nell'ottica da lui proposta alla Commissione parlamentare di indagine"Franceschini", di biblioteca di Soprintendenza Nazionale per l'Antropologia Culturale e l'Etnografia Italiana. Impianta un laboratorio di restauro, in accordo con l'Istituto Centrale del Restauro; una sezione di documentazione fotografica, la quale diventa nel tempo un vero e proprio Archivio fotografico. Inoltre istituisce un centro di documentazione e informazione per gli studiosi e instaura una fattiva collaborazione scientifica con le cattedre di antropologia culturale e di tradizioni popolari dell'Università di Roma. Infine seleziona e prepara accuratamente il personale da immettere nei diversi servizi. Sotto la sua direzione sono numerose le Mostre sulla cultura popolare italiana, alcune delle quali vengono allestite in Museo; mentre altre in diverse sedi italiane ed estere.

Presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari si ricordano: Magia e fattura in Lucania, dal 15 marzo al 20 aprile 1958, in collaborazione con Ernesto de Martino; Rito del sega la vecchia in Umbria dal 9 al 30 aprile 1959, in collaborazione con Tullio Seppilli e Romano Calisi; La leggenda dei magi nel disegno infantile, dal 12 al 30 maggio 1959; Proverbi Toscani dal 22 settembre al 30 ottobre 1959; Spettacolo in Piazza dall'11 luglio al 15 luglio 1960; Canti Popolari del Risorgimento dal 15 novembre al 15 dicembre 1960; I mestieri per la via nel 1962, con Annabella Rossi; La processione dei misteri a Barile del Volture dal 15 aprile al 15 maggio 1962; La fame (per la Giornata Mondiale della Fame organizzata dalla FAO), dal 17 marzo al 7 aprile 1963; Oreficeria popolare italiana , maggio-giugno 1964, sempre con Annabella Rossi; Tatuaggi a Loreto e Ciociaria dal 1 luglio al 1 settembre 1965; Retrospettiva delle attività del Museo e recenti acquisizioni dal 2 al 6 aprile 1967; Giochi e giocattoli popolari italiani dal 28 dicembre 1966 al 28 febbraio 1967; La passione dal 27 marzo al 3 aprile 1968; Ex-voto calabresi dal 31 marzo al 6 aprile 1968; Costume popolare napoletano e siciliano dal 13 al 20 aprile 1969.

Su incarico del Ministero per gli Affari Esteri e del Ministro della Pubblica Istruzione, nel quadro degli accordi culturali bilaterali, la Mostra Oreficeria popolare italiana è stata ospitata tra il 1965 e il 1969 in numerosi Musei esteri; al Museo di arte popolare di Budapest, al Museo etnografico in Finlandia; al Museo etnografico di Stoccolma, al Museo di arte popolare di Copenaghen, in Lussemburgo e a Malta. Nel giugno 1968, inoltre, la Mostra su Tradizioni popolari in Italia, costituita dalle raccolte del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari va a Tokio, in Giappone. La Mostra è promossa in accordo con il quotidiano Yomjuri Shimbum . La richiesta riporta il protocollo n.740 del 10 giugno 1968 ed è ospitata presso l'Istituto Italiano di Cultura. Per questa occasione Tentori richiede che la reggenza, in sua assenza, venga riconosciuta a Domenico Faccenna, direttore dal 1968 del Museo Nazionale di Arte Orientale. La questione è singolare poichè, di norma è Gaetano Jacopo Recupero, ispettore dal 1961 alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, ad essere richiesto da Tentori nei casi di sua assenza. E sarà proprio Gaetano Jacopo Recupero a prendere le redini dell'Istituto nel 1972, quando Tentori è chiamato all'Università di Trento.

In conclusione, Tentori è sicuramente riuscito nell'obiettivo di radicare al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari l'approccio di analisi etnoantropologica applicata al patrimonio materiale e immateriale conservato e da salvaguardare nell'intero territorio regionale italiano. Dal punto di vista legislativo senz'altro la normativa in vigore riconosce, individua e valorizza - almeno a partire dal Testo Unico del 1999 - la fisionomia, la peculiarità e interrelazione del patrimonio materiale e immateriale etnoantropologico, che il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 valorizza nelle sue connessioni con le altre tipologie di beni culturali. Tentori, dunque, ha mantenuto viva e vigile la sua "doppia anima" di antropologo culturale, direttore appassionato al Museo e trovo opportuno concludere con le sue stesse parole circa gli esiti che la "sua creatura" - come amava definire il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari - dovrebbe avere all'indomani del terzo millennio:

L'idea di un museo delle identità che da molti anni mi accompagna, dai tempi della fondazione del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, non è un ideogramma museale di contenuti, ma progetto di laboratorio tra testimonianza e ricerca che metta l'identità culturale, di per sé quasi tautologicamente distintiva, dentro le sue rischiose contraddizioni di esclusione o di inclusione, e che aiuti a introdurre la consapevolezza della propria appartenenza nel pluralismo e, storicamente, nel pluriverso che viviamo. Attraverso la conoscenza delle varianti culturali di cui ogni appartenenza è composta, attraverso scambi culturali e dialogo nella reciprocità di interessi e di scopi.

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Dal 1913 al 1943

La morte di Lamberto Loria, avvenuta il 6 aprile 1913, e il sopraggiungere della guerra mondiale impedirono la realizzazione del Museo. Finita la guerra l'interesse per le tradizioni popolari si riaccese e con il Regio Decreto del 10 settembre 1923 n. 2111 venne istituito ufficialmente il Museo. La collezione dal 1923 era sistemata in casse nelle scuderie di Villa d'Este a Tivoli, dove era pervenuta dopo un lungo peregrinare, dai padiglioni di Piazza d'Armi alle cantine di Palazzo Bazan a Valle Giulia, a Villa Mills al Palatino. Sempre nel 1923 la riforma aveva decretato l'insegnamento dell'etnografia regionale nelle scuole primarie e complementari, mentre nel 1927 il Ministro della Pubblica Istruzione auspicava che la Facoltà di Lettere e Filosofia "avesse il necessario compimento nell'esame dei costumi e delle regioni con le loro passioni, le loro memorie, le loro tradizioni".

Nel 1936 il problema della sede non era ancora stato risolto e il Ministero per l'Educazione Nazionale formò una apposita Commissione nella quale un ruolo fondamentale ricoprì il Direttore del Museo, Paolo Toschi, che avviò la catalogazione scientifica del materiale che sarebbe stato esposto nella sede definitiva. La soluzione sembrò apparire nel quadro dell'Esposizione Universale che si sarebbe tenuta a Roma nel 1942 (E 42), in essa veniva inclusa una Mostra di tradizioni popolari e assegnato il palazzo all'Eur che successivamente diverrà la sede attuale del Museo. Tale mostra, al termine dell'evento temporaneo dell'Esposizione, si sarebbe dovuta trasformare nel Museo Etnografico in cui sistemare, in maniera definitiva, il Museo Kircheriano e la collezione Loria, giacente ancora in casse a Villa d'Este a Tivoli. Concetto ispiratore della mostra, che in primo tempo ebbe la denominazione di Mostra Etnografica e del Costume poi modificata in quella di Mostra delle Arti e Tradizioni popolari, il cui nucleo fondamentale era costituito dalla raccolta Loria, era superare la concezione romantica e positivista relativa all'"arte popolare" e mettere in evidenza quanto della civiltà romana sopravviveva nelle usanze delle varie regioni d'Italia. Il piano della mostra, che verrà inaugurata il 10 giugno 1939, prevedeva nove sezioni articolate secondo quelle che venivano considerate le principali forme espressive della vita e dell'arte popolare italiana:

1) Architettura rustica e urbanistica paesana (le case nei suoi elementi e coi suoi annessi complessi architettonici degli abitati rurali);
2) Interno delle case rustiche e nobili e oggetti che li decorano;
3) Arti domestiche e piccole industrie paesane a carattere tradizionale (tessuti, ricami, oggetti locali in legno, metalli, cuoio, ceramiche, stampi per la lavorazione;
4) Strumenti e arnesi della vita agricola, pastorale e marinara;
5) Arti personali (costumi e fogge di vestire: oggetti e strumenti di uso personale, giochi e giocattoli);
6) Arti sociali e religiose (oggetti urbanistici usati per le feste, ex voto...);
7) Stampe popolari;
8) Canti, musiche e danze popolari;
9) Pubblicazioni, studi, atlanti linguistici ed etnografici, ecc.

La divisione in sezioni composte di serie di oggetti, salvo alcuni complessi doveva essere "scientifica, ma presentata artisticamente" comprendendo solo i manufatti "il cui uso è tuttora vivo, intendendosi la tradizione come essenza dinamica". Con delibera presidenziale n. 51116 veniva conferito a Toschi l'incarico di ultimare lo studio scientifico della collezione Loria e di studiare il raggruppamento degli oggetti per poter facilitare il lavoro di allestimento degli architetti Massimo Castellazzi, Pietro Morresi e Annibale Vitellozzi a cui era affidato il progetto dell'edificio articolato su tre piani, situato sul lato sinistro di Piazza Imperiale, palazzo che verrà ultimato, nelle linee generali, il 25 giugno 1942. Il problema annoso del Museo Nazionale di Etnografia Italiana pareva di prossima soluzione tanto che nel Congresso Nazionale delle arti e tradizioni popolari tenutosi a Venezia, nel settembre 1940, nella seduta presieduta dal Ministro Giuseppe Bottai veniva dato l'annuncio ufficiale della sua costituzione a Roma. Purtroppo ancora una volta gli eventi bellici ritarderanno l'ultimazione del Museo e la sistemazione definitiva della raccolta etnografica che, ancora nelle casse di Villa d'Este, sarà notevolmente danneggiata a causa del bombardamento di Tivoli nel 1943.

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La mostra del 1911

Il 1911 è l'anno del grande giubileo laico, la festa con cui si volevano celebrare i progressi fatti dalla nazione negli ultimi cinquant'anni attraverso l'Esposizione Internazionale (Firenze, Roma, Torino). A Roma i festeggiamenti per le celebrazioni erano concentrati nella Mostra Etnografica e nella Mostra Regionale, situate nella zona urbanizzata dell'ex Piazza d'Armi, e nelle iniziative collaterali organizzate sulla riva destra del Tevere.
Asse portante dell'intera esposizione era una sorta di viaggio attraverso l'Italia realizzato attraverso quattordici padiglioni regionali, edifici che riproducevano gli elementi dei modelli classici di maggiore bellezza della regione di rappresentanza, circondati da una quarantina di "gruppi etnografici", veri e propri quadri viventi, dove ad esempio Napoli era stata ricostruita attraverso uno spaccato del vecchio quartiere di Santa Lucia e la Sardegna attraverso i nuraghi e le case del Campidano.

La Mostra Etnografica, era ospitata in due palazzi, il Palazzo delle Scuole e il Palazzo delle Maschere e del Costume: preceduta da un enorme lavoro di ricerca e di schedatura finalizzato alla costituzione del nuovo Museo Nazionale di Etnografia Italiana che nelle intenzioni di Lamberto Loria avrebbe enormemente favorito gli studi in campo folklorico, era articolata in sezioni. Fra queste una era riservata all'oreficeria, ad una collezione di stecche da busto intarsiate, a mobili, bastoni, coltelli e oggetti d'uso della vita dei pastori, un'altra sezione, nello stesso Palazzo, era dedicata a modelli di carri e macchine per processione, ai presepi, a oggetti relativi alla religiosità popolare, agli ex voto, agli amuleti della collezione di Giuseppe Bellucci, ai tatuaggi, ai pani e ai dolci rituali.
Una sezione ancora era riservata alle insegne di venditori e di spettacoli popolari, alle ceramiche, ai tessuti e merletti con i rispettivi strumenti di lavoro, ai giocattoli. Nel Palazzo del Costume erano invece visibili i costumi e le maschere delle varie regioni indossati da centinaia di manichini di legno, intagliati dallo scultore fiorentino Aristide Aloisi su scenografie elaborate dai pittori Galileo Chini e Giovanni Costantini. In mostra anche l'iconografia popolare curata da Francesco Novati e da Achille Bertarelli con la raccolta di stampe popolari e la biblioteca di letteratura popolare di Alessandro d'Ancona e Salvatore Salomone Marino.

 
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Racconti di Museo: Pasqua 2014

20 - 21 aprile 2014

Nell'ambito di un progetto di riorganizzazione espositiva e comunicativa, il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari da molto mesi si apre al pubblico con un insieme di attività che affrontano le tradizioni regionali italiane del lavoro, della vita quotidiana, dei rituali festivi, del gioco, della musica etc.

Attraverso racconti, letture e proiezioni il Museo propone ai visitatori, in particolare ai giovani, il suo patrimonio regionale, materiale e immateriale, con uno sguardo al passato e un confronto con la contemporaneità, riflettendo sugli scambi interculturali che hanno dato vita, nel tempo, alle diverse realtà territoriali.
Ogni mese è stato affrontato un tema specifico: ogni domenica è stato narrato un tema attraverso l'analisi di alcuni oggetti esposti nelle sale museali e particolari itinerari anche attraverso la storia dell'architettura e delle decorazioni del palazzo.
L'attività ha avuto un sempre maggior successo di pubblico e in occasione della Pasqua si è deciso di prorogare l'iniziativa proponendo altri "racconti" nei giorni di apertura festiva del Museo il 20 e 21 aprile:

DOMENICA 20 APRILE
ore 11.30
Paolo Maria GUARRERA racconta "le feste floreali della primavera e le piante della Pasqua"
ore 17.30
Marisa IORI racconta "l'abitazione e le attività domestiche"

LUNEDI 21 APRILE
ore 11.30
Maria Letizia CAMPOLI racconta "i sistemi di trasporto: il carretto a vino laziale e la gondola di Venezia"
ore 17.30
Stefano SESTILI racconta "i giochi e gli spettacoli di piazza"

L'INGRESSO ALLE ATTIVITÀ RACCONTI DI MUSEO È LIBERO

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Carnevale a Tufara

Diavolo - martedì grasso

Maschere diaboliche

Fin dai primi secoli della cristianità la chiesa associa le maschere al demonio, in questo atteggiamento non vi è soltanto il tentativo di eliminare le cerimonie dei "pagani", ma anche la volontà di sottrarre la morte al precedente orizzonte religioso, e di inglobarla in un nuovo ordinamento salvifico, che non prevede l'azione partecipativa al sacrificio, con i suoi eccessi e le sue trasgressioni.

La maschera, intesa come attributo del diavolo nella prospettiva cristiana, rientra nelle forme carnevalesche e persiste come maschera principalmente diabolica, collegata alle anime dei morti e agli spiriti infernali. Ne sono prova le maschere di tanti carnevali, italiani ed europei, caratterizzate da un aspetto misterioso e da atteggiamenti demoniaci, prerogative condivise anche da figure più note, come Pulcinella e Arlecchino.

Il Diavolo di Tufara

Il Diavolo di Tufara (Campobasso) contiene gli elementi più significativi del carnevale, interpretato come espressione simbolica del contrasto tra la vita e la morte, tra il bene e il male. Inoltre al Diavolo, o ai Diavoli, si affiancano simulacri che raffigurano il carnevale stesso: il capro espiatorio viene in tal modo sdoppiato, e ne risulta un rafforzamento della duplicità di base. La presenza di un alter ego del carnevale è documentata anche in altri esempi italiani, dalla Sardegna al Trentino. Gli interpreti della rappresentazione di Tufara sono tutti ragazzi e uomini, come nel carnevale di Cercepiccola. L'organizzazione è affidata generalmente a un'associazione locale, ma l'intervento di altri gruppi può dar luogo, talvolta, a più di un corteo. In alcune edizioni è previsto un gemellaggio con altri carnevali, caratterizzati dall'uso di maschere zoomorfe o comunque affini a quella del Diavolo (ad esempio, nel 2006, con i "Thurpos" di Orotelli).

La preparazione inizia nella tarda mattinata del martedi grasso, in posti che si vorrebbero mantenere segreti. La vestizione e il trucco sono effettuati dai ragazzi stessi che comporranno il corteo. Particolarmente complessa è l'operazione di mascheramento del Diavolo, che deve essere ricoperto da una pesante casacca scura, composta, secondo la tradizione, da sette pelli di capra, cucite tra loro al momento della vestizione. Il Diavolo indossa una maschera nera, sovrastata da due protuberanze a forma di corna ornate da nastri rossi; dalla maschera pende una lunga lingua di colore rosso. In mano ha un tridente di ferro, con il manico di legno.

Al termine della preparazione il corteo esce: dinnanzi al Diavolo avanzano due figure che hanno il volto imbrattato di farina, un costume bianco, attraversato da strisce colorate, un fez rosso sul capo e un falcione. I due personaggi rappresentano la morte e il bianco delle vesti rievoca il costume di Pulcinella, maschera collegata all'oltretomba. 

Alberto M. Cirese, Il diavolo a Tufara, “La Lapa”, a. III, n. 1-2, 1955, pag. 37

Il Diavolo viene trattenuto con pesanti catene da tre o quattro personaggi incappucciati, in abiti monastici e con la faccia annerita. Il corteo inizia dunque a scendere impetuosamente per le vie del paese. Dalle finestre la gente assiste alle acrobazie del Diavolo, che salta e si rotola in terra, agitando e battendo ripetutamente il tridente sulle pietre delle strade e sugli usci delle case, mentre le altre maschere tentano di prendere in ostaggio con le catene chiunque capiti sul loro percorso. Il frastuono che deriva dalle 

grida animalesche e inquietanti delle maschere e dal rumore dei loro oggetti sembra rappresentare l'ultima esplosione vitale e minacciosa del carnevale prima del silenzio quaresimale, l'esultazione del Diavolo risorto dalla notte dell'inverno. Il corteo non si limita ad agire nello spazio esterno, ma invade anche l'interno delle abitazioni, per reclamare vino e cibo.

La rappresentazione tradizionale del Diavolo è l'evento principale del carnevale di Tufara, ma si organizzano anche sfilate di carri allegorici, generalmente ispirati a temi d'attualità. Altri personaggi inoltre si esibiscono nella giornata festiva: tra questi alcuni musicanti in maschera, che compongono un'orchestrina itinerante, uomini in travestimento femminile e "U' Pisciatur", figura 

che rappresenta gli eccessi carnevaleschi, in particolare alimentari. La lunga corsa del Diavolo ha fine verso sera quando, dinnanzi all'antica fortezza longobarda, si compirà il processo e la condanna a morte di Carnevale. Sulla rocca sono pronti i fantocci di panno e paglia da giustiziare, e vi è un tribunale composto da un presidente e da due giudici. Vengono elencati misfatti e meriti del Carnevale, difeso dalla madre-parca, con la conocchia e il fuso, e dal padre, i quali già portano in una culla il nuovo nato. Dopo la sentenza i fantocci vengono gettati dalle mura. Il Diavolo si libera dalle catene e prontamente si avventa sui "corpi" con il tridente e ne fa scempio, disseminandone poi le spoglie e scomparendo nell'oscurità.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: R. Cavallaro, (7 marzo 1973)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (28 febbraio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Corpus Domini a Campobasso

Misteri - Corpus Domini

Il Corpus Domini

La solennità del Corpus Domini venne istituita l'8 settembre 1264 da papa Urbano IV con la Bolla Transiturus de hoc mundo in seguito al miracolo di Bolsena. Secondo la tradizione, nella tarda estate dell'anno 1263 un sacerdote boemo, Pietro da Praga, assalito dal dubbio sulla reale presenza di Cristo nel pane e nel vino consacrato, intraprese un pellegrinaggio verso Roma. Dopo aver placato il suo animo pregando sulla tomba di Pietro, riprese il viaggio verso la sua terra fermandosi a pernottare nella chiesa di Santa Cristina a Bolsena. Assalito di nuovo dal dubbio, chiese di celebrare messa e, dopo la consacrazione, alla frazione dell'Ostia, sarebbe apparso ai suoi occhi un prodigio al quale da principio non voleva credere: l'Ostia che teneva tra le mani sarebbe diventata carne da cui stillava miracolosamente abbondante sangue. Impaurito e confuso ma, nello stesso tempo, pieno di gioia, concluse la celebrazione, avvolse tutto nel corporale di lino usato per la purificazione del calice che si macchiò immediatamente di sangue e fuggì verso la sacrestia. Durante il tragitto alcune gocce di sangue sarebbero cadute anche sul marmo del pavimento e sui gradini dell'altare. Il sacerdote andò subito da papa Urbano IV, che si trovava ad Orvieto, per riferirgli l'accaduto e il pontefice inviò a Bolsena il vescovo di Orvieto, per verificare la veridicità del fatto e riportare le reliquie. Il vescovo di Orvieto tornò con le reliquie del miracolo e il Papa le depose nel sacrario della cattedrale orvietana di Santa Maria. Attualmente le reliquie sono conservate nel Duomo di Orvieto, fatto appositamente costruire nel 1290 per ospitarle.

I Misteri

Con il termine Misteri si definiscono rappresentazioni medievali di oggetto sacro in lingua volgare, attestate in Francia dal secolo XI che venivano eseguite nelle solennità religiose a compimento degli uffici liturgici. Si tratta di forme affini alle teatrali, originatesi dalla decadenza del teatro classico greco e romano e dalla stasi del teatro durante tutto il periodo medievale, che divennero i mass-media del tempo e diedero il lento avvio, in pieno Rinascimento, ad una ripresa delle forme teatrali vere e proprie, le quali, a loro volta, costituirono le basi del teatro moderno. Da un lato c'era la necessità istintiva del popolo di dare sfogo alla propria religiosità mista di umanità, dall'altro il desiderio della chiesa di educare le masse, per lo più analfabete, con forme spettacolari tali da suscitare interesse. Queste forme vennero così ad affiancare, all'aperto, la funzione didattico-narrativa affidata alla scultura ed alla pittura all'interno delle chiese. Il fenomeno fu comune a molte località europee nel suo contenuto di base ma ebbe diversa denominazione nei diversi luoghi: mystére (spettacolo simbolico) in Francia; auto sacramental (sacra rappresentazione) in Spagna; passionsspiele (mistero della passione) in Germania; myracle-plays (rappresentazioni sacre) in Inghilterra.

Nel corso dei secoli (XV-XVII), con l'evolversi dei costumi, con il dilagare della magnificenza esaltata dalle ricche corti rinascimentali, con la rivoluzione ideologica e psicologica del Rinascimento che distolse gli spiriti dalla contemplazione di un regno soprannaturale per rivolgerli ai beni terreni, si arrivò a curare più gli effetti scenici che l'essenza religiosa tanto da causare l'infiltrazione di elementi pagani nei drammi sacri, scivolando talvolta nello sconveniente e nel volgare. Di qui il divieto per queste rappresentazioni figurative, sancito in alcuni concili tenuti in Francia nel XVI secolo, e la sostituzione, in alcune città italiane, dei gruppi viventi con gruppi lignei (ad esempio i Misteri del Venerdì Santo a Trapani) nei quali la forza intuitiva e la capacità dell'artista dovevano raggiungere l'efficacia suggestiva promossa una volta da persone viventi.

I Misteri di Campobasso

Origini
A Campobasso si ha notizia, sin dal XVI secolo, dell'allestimento di sacre rappresentazioni su palchi in legno collocati nei pressi delle chiese. A partire dal secolo successivo le principali confraternite laiche della città, per solennizzare la festività del Corpus Domini, presero l'abitudine di rappresentare scene sacre, il cui soggetto variava di anno in anno, su barelle che venivano portate a spalla in processione davanti al Santissimo Sacramento. Le confraternite, intorno alla metà del XVIII secolo, commissionarono allo scultore campobassano Paolo Saverio Di Zinno la progettazione di macchine che assicurassero stabilità alle raffigurazioni, in modo che le scene rappresentate fossero sempre le stesse e i figuranti avessero sempre gli stessi atteggiamenti, e ne affidarono la realizzazione agli esperti fabbri ferrai campobassani.

Secondo una tradizione orale non documentata, vennero realizzati ventiquattro Misteri ma sei non ressero al collaudo e non furono più ricostruiti. Si ha invece notizia certa della realizzazione di diciotto Misteri di cui sei furono distrutti durante il terremoto del 26 luglio 1805 dal crollo degli edifici in cui erano conservati. I sei Misteri distrutti rappresentavano il Corpo di Cristo (chiamato dal popolo il Calicione a causa della presenza di un grosso calice), la Santissima Trinità, Santa Maria della Croce, la Madonna del Rosario (in cui il ferro principale della struttura poteva ruotare su se stesso quando il Mistero era fermo), Santo Stefano e San Lorenzo. Da allora hanno sfilato i rimanenti dodici Misteri, raffiguranti Sant'Isidoro, San Crispino, San Gennaro, Abramo, Maria Maddalena, Sant'Antonio Abate, l'Immacolata Concezione, San Leonardo, San Rocco, l'Assunta, San Michele e San Nicola. Nel 1959 i fabbri campobassani Tucci realizzarono un tredicesimo Mistero, il Santissimo Cuore di Gesù, sulla base di un disegno attribuito al Di Zinno.

In passato erano le confraternite a gestire, tra lo sforzo e la competizione, la processione dei Misteri, che univa fede popolare a ostentazione del potere. A partire dal XIX secolo, a seguito della soppressione delle confraternite, la processione dei Misteri è organizzata dall'amministrazione comunale di Campobasso che, dal 1997, è supportata dall'Associazione Misteri e Tradizioni.

I Misteri: struttura e scene

I Misteri sono macchine o ingegni costituiti da una base di legno, nella quale è inserita una struttura in ferro fucinato che, sviluppandosi in verticale, si ramifica e porta ad ogni estremità delle imbracature, in ognuna delle quali viene posto un bambino. È da sottolineare l'intelligenza dell'artista e la grande capacità professionale dei suoi collaboratori fabbri che, ben dimensionando la struttura e usando alcuni artifici costruttivi (tecnica della bollitura), sono riusciti a realizzare dei congegni ancora oggi, dopo più di 250 anni, pienamente funzionali. L'espressione quadri viventi ben si adatta a questi congegni, in cui il dinamismo dei figuranti si fonde perfettamente con la staticità della struttura in ferro.

I bambini rappresentano angeli, diavoli, santi e madonne e sembrano sospesi nel vuoto perché i loro costumi mascherano struttura e imbracature. Sulla base del Mistero sono presenti altri personaggi interpretati, a seconda del ruolo, da bambini o da adulti. I Misteri vengono portati a spalla in processione per le vie della città e il passo cadenzato dei portatori, facendo oscillare la struttura in ferro, crea l'illusoria sensazione di vedere angeli e diavoli volare a diversi metri da terra. Secondo la tradizione Di Zinno, per dare forza ed elasticità alla struttura dei Misteri, avrebbe ideato una lega speciale della cui composizione era unico depositario. Questo spiegherebbe perché i Misteri distrutti nel 1805 non siano stati ricostruiti e perché quello realizzato nel 1959 sia il più pesante.

I Misteri rappresentano scene dell'Antico e del Nuovo Testamento e scene tratte dalla vita di alcuni santi. La processione si apre con i Misteri di Sant'Isidoro e San Crispino, rispettivamente protettore dei contadini e dei calzolai, in ricordo delle Faci o Faglie che i coloni e gli artigiani costruivano come ringraziamento a Dio per l'anno trascorso, e che precedevano la processione del Corpus Domini.

Sant'Isidoro: il Mistero raffigura il santo, contadino presso il cavaliere spagnolo Giovanni de Vergas, che percuote il terreno con un bastone facendo scaturire acqua per saziare la sete del suo padrone; domina il Mistero un grosso cero sostenuto da tre angeli che rappresenta la Face dei coloni. Personaggi: cinque; portatori: quattordici; altezza: m. 5,10; peso: Kg. 534.

San Crispino: abbandonate le nobili origini romane, San Crispino predicò il Vangelo in Gallia e per vivere imparò a cucire scarpe; mentre si trovava al lavoro in compagnia di due aiutanti gli apparvero tre angeli con in mano i simboli del futuro martirio che avvenne sotto l'imperatore Massimiano, la spada segno della decapitazione, la palma, simbolo del martirio, la corona, per i meriti del Santo. Personaggi: sei; portatori: dodici; altezza: m. 4,70; peso: Kg. 430.

San Gennaro: il Mistero raffigura San Gennaro circondato da tre angeli, dei quali uno porta le ampolle, a ricordo di quelle che tutt'oggi conservano il sangue del Santo, e un altro una tabella con la scritta Est nobis in sanguine vita; il santo è patrono della città di Napoli, rappresentata sulla base del Mistero dal Vesuvio e dal fiume Sebéto simboleggiato, come nelle antiche raffigurazioni, da un vecchio disteso che tiene in mano una vanga (tradizionalmente definito il Pezzente per il suo aspetto). Personaggi: cinque; portatori: dodici; altezza: m. 5,20; peso: Kg. 425.

Abramo: obbediente alla volontà di Dio, Abramo sta per sacrificare il suo unico figlio Isacco quando un angelo del Signore gli ferma la mano che impugna il coltello e gli indica un ariete da offrire in olocausto al posto di Isacco. Personaggi: tre più un agnello; portatori: dodici; altezza: m. 4,10; peso: Kg. 450.

Maria Maddalena: esule in Provenza dopo la risurrezione di Cristo, Maria Maddalena si ritirò in preghiera in un luogo deserto; un giorno chiese a San Massimino, vescovo di Aix, di comunicarla, quando questi entrò in chiesa vide la santa sospesa in aria nei pressi dell'altare circondata da angeli e, dopo averla comunicata, vide la sua anima salire al cielo; completano la scena altri due angeli che fanno le veci dei chierichetti. Personaggi: sei; portatori: diciotto; altezza: m. 5,40; peso: Kg. 535.

Sant'Antonio Abate: il Mistero rappresenta le tentazioni subite da Sant'Antonio Abate ad opera di diavoli presenti sia nella forma consueta, al di sopra e al di sotto del santo, sia sotto le sembianze di leggiadra donzella; ai lati del santo sono presenti due angeli che portano in mano rispettivamente un libro, su cui arde una fiamma, e un bastone con un campanello; la fiamma rappresenta il fuoco da cui Sant'Antonio Abate ha virtù di difenderci, il bastone è il simbolo della vita da eremita condotta dal santo, il campanello rammenta con il suo squillo l'invito alla preghiera; nella scena il diavolo si esibisce al grido di "Tunzella Tunzella, vieténne vieténne", invitando la Donzella a seguirlo nel suo regno; sembra che in passato la Donzella fosse impersonata da un femminiello, e ancora oggi si crede che la Donzella riceva un premio in denaro se riesce a non ridere alle provocazioni del diavolo. Personaggi: sei; portatori: quattordici; altezza: m. 5,80; peso: Kg. 490.

Immacolata Concezione: soggetto del Mistero è l'Immacolata Concezione della Vergine Maria che è rappresentata con la luna sotto i suoi piedi e una corona di dodici stelle sul capo (Apocalisse 12,1) ed è circondata da cinque angeli; i due ai suoi piedi sorreggono rispettivamente la sfera celeste e una croce, mentre quello sopra il suo capo è rappresentato nell'atto di incoronarla; la croce è il simbolo della vittoria di Cristo sul peccato, rappresentato dal serpente con la testa schiacciata (Genesi 3,15: esso ti schiaccerà la testa e tu lo assalirai al tallone). Personaggi: sei; portatori: quattordici; altezza: m. 5,80; peso: Kg. 455.

San Leonardo: San Leonardo ebbe somma carità verso i carcerati e faceva di tutto per redimerli dal vizio e dal peccato; molti di essi, innocenti, benché incatenati e sorvegliati da sentinelle, furono miracolosamente liberati dal santo e riportati alle loro case; per questo motivo San Leonardo è considerato il protettore dei carcerati, e sul Mistero è rappresentato mentre, circondato da tre angeli, soccorre due prigionieri guardati a vista da un alabardiere. Personaggi: sette; portatori: quattordici; altezza: m. 5,40; peso: Kg. 410.

San Rocco: abbandonate le nobili origini francesi, San Rocco partì pellegrino per l'Italia dove guarì numerosi appestati; durante il viaggio di ritorno in patria si ammalò e riuscì a sopravvivere grazie al cibo portatogli da un cane; arrestato con l'accusa di essere una spia, morì in carcere colpito dalla peste; il Mistero raffigura San Rocco che appare ad un appestato mostrandogli la propria piaga pestifera mentre un angelo sorregge il bordone (bastone da pellegrino) e un altro una tabella su cui è scritto Rochum invoca et sanus eris. Personaggi: quattro e un cagnolino; portatori: dodici; altezza: m. 4,80; peso: Kg. 340.

L'Assunta: Il Mistero raffigura l'Assunzione della Madonna; sulla base c'è la tomba scoperchiata custodita da un angelo (tradizionalmente noto come l'angelo della fossa), mentre altri quattro angeli circondano la Vergine che, assunta in cielo, viene accolta da Gesù. Personaggi: sette; portatori: sedici; altezza: m. 6,00; peso: Kg. 484.

San Michele: in questo Mistero è rappresentata la cacciata dal Paradiso di Lucifero e degli angeli ribelli ad opera di San Michele Arcangelo che, brandendo una spada, li spinge verso la bocca dell'Inferno (Apocalisse 12, 7). Personaggi: quattro; portatori: sedici; altezza: m. 5,10; peso: Kg. 510.

San Nicola: il Mistero raffigura un miracolo compiuto da San Nicola, protagonista un fanciullo di Bari rapito alla propria famiglia da corsari saraceni e venduto come servo al re di Babilonia; una sera, mentre il fanciullo stava servendo da bere al re, apparve San Nicola che lo prese per i capelli e lo riportò in patria sotto lo sguardo stupito degli astanti; l'angelo che accompagna il santo tiene in mano un libro con sopra tre sfere d'oro, in ricordo del vangelo donato a San Nicola dall'imperatore Costantino e delle doti miracolosamente procurate da San Nicola a tre giovani fanciulle. Personaggi: nove; portatori: diciotto; altezza: m. 5,30; peso: Kg. 644.

Santissimo Cuore di Gesù: costruito nel 1959 dai fabbri campobassani Tucci, il Mistero rappresenta l'amore del figlio di Dio per gli uomini, simboleggiato in alto da un cuore contenente le consonanti JHS (Jesus Hominum Salvator); completano la rappresentazione quattro angeli, di cui due sorreggono il cuore e gli altri si porgono i fiori che vanno a costituire lo stesso; il bastone fiorito in mano a San Giuseppe ricorda la tradizione dei vangeli apocrifi, secondo cui Giuseppe fu scelto come sposo di Maria dopo che il suo bastone fiorì miracolosamente. Personaggi: sei; portatori: venti; altezza: m. 5,60; peso: Kg. 586.

I Misteri in processione

L'organizzazione della processione impegna i volontari dell'Associazione Misteri e Tradizioni già nei mesi precedenti la festività del Corpus Domini. Bisogna infatti revisionare le macchine, sistemare i costumi dei figuranti, le divise dei portatori e, soprattutto, reclutare i figuranti fra quanti, bambini e adulti, desiderano partecipare alla più sentita tradizione campobassana. La scelta dei figuranti viene effettuata dal coordinatore dell'Associazione, principalmente in base alle caratteristiche fisiche e fisionomiche: requisito fondamentale per i bambini è la possibilità di stare comodi all'interno delle imbracature, mentre per gli adulti è la capacità di interpretare al meglio il ruolo assegnato. La formazione delle squadre dei portatori e la loro gestione nel corso della processione avvengono a discrezione di ogni singolo caposquadra, ciascuno secondo i propri criteri. I Misteri sono tredici; i personaggi che vi fanno parte sono settantasette, di cui cinquantacinque bambini da due a quattordici anni; due sono gli animali, il cane di San Rocco e l'agnello dell'Abramo. Ogni Mistero ha: una squadra di portatori che varia, secondo il peso del Mistero, da dodici a ventidue portatori; due addetti agli scanni; un caposquadra ed un vice. Complessivamente sono duecentocinquanta le persone preposte al trasporto. Le bande che suonano incessantemente la marcia del Mosè di Rossini sono cinque, per complessivi cento musicisti. L'apparato logistico è articolato con trenta componenti l'organizzazione, ventiquattro addetti alla vestizione, due sarte, due fabbri, due falegnami, un tappezziere ed un elettricista. Dodici sono addetti ai collegamenti radio, venti al primo soccorso con a disposizione tre ambulanze, sei all'antincendio.

La mattina del giorno del Corpus Domini, alle otto, nel cortile del museo che ospita i Misteri in mostra permanente, l'arcivescovo dell'arcidiocesi di Campobasso-Boiano celebra la messa alla presenza dei volontari dell'Associazione, dei figuranti con i loro genitori, dei portatori, e delle autorità. Terminata la funzione, i figuranti vanno ad animare le strutture in acciaio dei Misteri grazie alla preziosa opera dei vestitori (due per ogni Mistero), che si occupano di assicurare i figuranti alle imbracature e di curare i costumi e gli aspetti scenografici. La processione raggiunge il borgo di Campobasso scendendo per via Marconi, ma è da sotto l'arco della porta di Sant'Antonio Abate che si coglie l'essenza autentica dei Misteri, quando la dura salita esalta i portatori, che nella stretta via portano gli ingegni a sfiorare le mura e i balconi delle case, mentre la gente dalle finestre porge caramelle e dolciumi agli angeli.

Di tutti i personaggi dei Misteri, i Diavoli sono gli unici a non avere l'obbligo di restare immobili e, grazie al trucco e al costume, si rendono irriconoscibili. I Diavoli deridono il pubblico e lo minacciano, brandendo una coda di vacca, in particolare spaventano i bambini, mostrando la lingua. Durante la processione, alla ripartenza dopo una sosta, il caposquadra gridando "scannétt allért" (cavalletti allerta) invita gli addetti ai cavalletti a stare pronti e i portatori a posizionarsi. Poi, battendo tre volte il suo bastone sulla base del Mistero, dà il segnale affinché questo venga sollevato e riprenda il percorso (il termine "scannétt" sta ad indicare non solo il cavalletto che sorregge i Misteri ma anche colui che lo porta). Lo slargo di San Leonardo getta una luce violenta sulla processione: è da lì che uscendo dal borgo si raggiunge via Ferrari, o meglio via dei Ferrari, dove i fabbri realizzarono i Misteri. La strada corre in lieve discesa raggiungendo via Mazzini e la stazione ferroviaria, una sosta è d'obbligo davanti al carcere. Si riparte per Corso Bucci, il Corso Vittorio Emanuele e la parallela Viale Elena. Alle 13.30 i Misteri sono allineati sotto il balcone di Palazzo San Giorgio, dove il vescovo impartisce la benedizione. Ancora poche centinaia di metri, dei circa 4.000 dell'intero percorso, ed i Misteri tornano nella loro sede, per attendere il Corpus Domini dell'anno successivo.

Testo: L. e G. Teberino (tratto da Feste e Riti d'Italia)


Foto: R. Cavallaro (21 giugno 1973)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: E. De Simoni, (29 maggio 2005 - 18 giugno 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Madonna delle Grazie a Vastogirardi

Volo dell'Angelo - 1 e 2 luglio

Il Volo dell'Angelo (o Calata dell'Angelo) è un rito che, in più regioni italiane, in occasione di feste religiose, vede come protagonisti dei fanciulli, i quali, istruiti sul ruolo da interpretare e abbigliati secondo particolari esigenze sceniche, diventano gli 'attori' d'una suggestiva rappresentazione devozionale. Nel Molise, il volo dell'angelo è oggi tradizione esclusiva di Vastogirardi, ma nei secoli scorsi ha interessato anche altre località.

Le origini

Giorgio Vasari, dando notizia degli ingegni ideati da Filippo Brunelleschi, scrisse che ve n'erano alcuni che permettevano d'inscenare sacre rappresentazioni durante le quali si poteva ammirare un cielo pieno di figure vive moversi, tra cui putti vestiti da Angeli; ed il pubblico restava meravigliato ad osservare immagini illusorie, come quando co' canapi e le ruote gli angeli scendevan dal cielo.

Ecco alcuni stralci della descrizione che Vasari fece delle macchine utilizzate da Brunelleschi a Firenze, nel 1439, per la Rappresentazione dell'Annunziata: «Dicesi ancora che gl'ingegni del Paradiso di S. Felice in piazza, nella detta città, furono trovati da Filippo, per fare la rappresentazione o vero festa della Nunziata, in quel modo che anticamente a Firenze in quel luogo si costumava di fare. La qual cosa invero era maravigliosa, e dimostrava l'ingegno e l'industria di chi ne fu inventore: perciò che si vedeva in alto un cielo pieno di figure vive moversi [...]. ...per questo effetto [...] si metteva in su ciascuna delle dette basi un fanciullo di circa dodici anni e col ferro alto un braccio e mezzo si cigneva in guisa che non avrebbe potuto, quando anco avesse voluto, cascare. [...]. Questi otto angioli retti dal detto ferro mediante un arganetto che si allentava a poco a poco, calavano dal vano della mezza palla fino sotto al piano de' legni piani che reggono il tetto [...]. Questi dunque così fatti ingegni e molti altri, furono trovati da Filippo; se bene alcuni altri affermano che egli erano stati trovati molto prima».

Qualche anno dopo la creazione degli ingegni di Brunelleschi, nel 1453, a Reggio Emilia si rappresentò un trionfo in onore del Duca Borso d'Este, durante il quale discesero dall'alto tre comparse vestite da angeli, scorrendo per mezzo di corde. E nel 1460, un coro di angioli vivi suso alti che volitavano entrò nella chiesa di san Mercuriale a Forlì assieme ad un corteo festoso. Si trattò «...dell'impiego parziale o in scala ridotta d'un mirabile ingegno o congegno fiorentino (i fiorentini, almeno se ne attribuirono la paternità), consistente in una struttura sospesa, cava all'interno (il tabernacolo o roda), capace di contenere angeli, santi, Dio padre, Cristo e tutto quanto potesse alludere alla gloria paradisiaca, illuminata da una miriade di lumi e sprigionante melodie. A ciò si aggiungeva un secondo meccanismo che permetteva a coloro che erano vestiti da angeli di scendere e salire, simulando il volo per funes».

Il Volo dell'Angelo a Vastogirardi

L'inizio di luglio è periodo festivo importante per Vastogirardi (Isernia). I primi due giorni del mese sono riservati alla celebrazione della ricorrenza della Madonna delle Grazie, con la rappresentazione del volo dell'angelo, che tenta di coniugare religiosità popolare e spettacolarità. Il 3 luglio, inoltre, il paese festeggia il patrono, san Nicola di Bari, in una data diversa da quelli che, in altri luoghi, sono i giorni solitamente riservati a questo santo: il 6 dicembre e il 9 maggio.

A Vastogirardi, la tradizione del Volo non è antichissima. Infatti, per quanto documentato dalle fonti, la prima edizione risalirebbe al 1911, per volere di Vincenzo Nicola Liberatore. Costui, secondo quanto tramandato dalla tradizione locale, all'esordio del Novecento fece ampliare la piccola cappella dedicata alla Vergine delle Grazie che divenne una bella chiesa. Terminate le opere, in occasione dell'inaugurazione dell'ampliato edificio sacro, Liberatore volle che l'evento fosse celebrato in modo caratteristico e memorabile. Pertanto, pensò a qualcosa in grado di meravigliare i suoi compaesani. Fece, così, realizzare un sistema di carrucole che, collegando la chiesa ad una casa che la fronteggia, consentì di rappresentare la scena del volo dell'angelo. Sembra che egli abbia incontrato qualche scetticismo tra i suoi compaesani, i quali ritenevano pericoloso far scorrere in aria, appesa a delle corde, una bambina. Allora, per la prima edizione del Volo, che si tenne il 2 luglio 1911, Vincenzo decise che ad interpretare l'Angelo fosse sua figlia Maria Carmela. La rappresentazione ebbe favorevoli riscontri, ma negli anni immediatamente successivi non fu ripetuta. Nel 1921, però, il Volo fu nuovamente rappresentato e, dopo nuove interruzioni, la sacra rappresentazione ha trovato regolare e documentato svolgimento.

L'Angelo viene interpretato sempre da una bimba, preferibilmente d'età compresa tra i quattro e i sei anni. La bambina viene vestita con un costume di scena (tunica monocolore e posticce ali decorate), quindi è assicurata ad un solido cavo d'acciaio per mezzo d'una imbracatura di cuoio, imbottita e foderata di velluto. L'imbracatura è dotata d'un congegno di carrucole, al quale si legano pure le caviglie della bimba, in modo da non farle tenere le gambe penzoloni. Il percorso del Volo è lungo circa quaranta metri e viene compiuto più volte, ad un'altezza non eccessiva dal suolo. L'Angelo vola dal balcone d'una casa fino alla statua della Madonna che, in tale occasione, viene esposta davanti la facciata della chiesa. Una robusta corda, manovrata da uomini esperti, fa scorrere l'Angelo lungo il cavo d'acciaio. I voli sono accompagnati dalla musica che una banda suona a mo' di colonna sonora ad ogni percorso d'andata e ritorno. Il sistema di carrucole non consente all'Angelo di voltarsi, per cui la bimba compie i viaggi senza mai girare le spalle alla Madonna.

La sera del 1° luglio, alle 21 circa, l'Angelo, con ali bianche e vestito del medesimo colore, compie tre voli. Al primo, giunto dinanzi al simulacro, recita una preghiera di ringraziamento alla Vergine. Al secondo, sparge incenso verso la statua. Al terzo, lancia petali di fiori verso la Madonna e poi, lungo il tragitto di ritorno, anche sul pubblico.

La mattina del 2 luglio, dopo mezzogiorno, la rappresentazione si ripete con alcune varianti. L'Angelo stavolta indossa ali e abito celesti. Inoltre, ai tre voli compiuti secondo lo schema della sera precedente, se ne aggiunge un altro (effettuato come secondo passaggio) che vede l'Angelo donare, in nome di tutta la comunità, un "pegno d'amore" alla Vergine, consistente di solito in un monile d'oro offerto dalla famiglia della bimba che impersona l'Angelo.

Le due rappresentazioni del Volo seguono una messa e precedono una processione. La processione serale del 1° luglio compie un percorso cittadino al termine del quale la statua della Madonna torna nella propria chiesa. Quella mattutina del 2 luglio vede portare la statua nella chiesa di San Nicola, dove resta fino al giorno seguente - data in cui Vastogirardi, come detto, festeggia il suo patrono - per poi essere ricondotta nella chiesa d'origine. Il trasporto è curato dalle donne, cui è riservato tale ruolo in entrambe le processioni. La statua, in occasione della festa, è coperta di numerosi oggetti d'oro (anelli, bracciali, catenine, orecchini, collane) donati dai fedeli e applicati su una elegante stola.

Il Volo dell'Angelo in Molise

Nel 1852, il Volo dell'Angelo fu vietato a causa della "sua pericolosità". Il divieto, però, non ebbe granché effetto se, sul finire del XIX secolo, Angelo De Gubernatis - ospitando nella Rivista delle tradizioni popolari italiane un articolo di Gaetano Amalfi e prendendo spunto dalle informazioni che gli aveva inviato da Campobasso Francesco Montuori - scrisse che si trattava di un'usanza ancora diffusa "nel Mezzogiorno, e specialmente nel Molise".

L'avverbio utilizzato da De Gubernatis induce a pensare che, a quel tempo, la tradizione molisana fosse significativa anche più di quella campana o di quella siciliana, generalmente reputate più importanti e da ritenere tali in base all'attuale diffusione geografica del rito. Le notizie 'molisane' fornite da Montuori furono riportate in una nota aggiunta al menzionato articolo di Amalfi. Eccole: «La calata dell'Angelo è un'altra consuetudine tradizionale ancora viva e che si vede in un giorno qualunque di festa, secondo la genialità di quelli che la dirigono. Dopo che la Madonna o il Santo è stato portato in giro per tutto il paese, si fa fermare sul luogo dove deve apparire l'angelo e comincia la cerimonia. Per una corda attaccata tra due balconi, e per mezzo di piccole carrucole ai piedi ed alle ascelle, scende un bel fanciullo vestito da angelo. Egli si ferma dinanzi l'immagine della Madonna ed in prosa ne fa le lodi, invocando insieme da essa protezione sul paese ed una buona stagione. Finita l'invocazione, getta alla Madonna un fazzoletto pieno di petali di fiori, tra i canti e le benedizioni dei devoti, e per mezzo della corda viene ritirato dal punto dove era sospeso». Montuori fu generico: non indicò date celebrative, né culti specifici e neppure località. È certo, però, che durante il XIX e il XX secolo la calata dell'angelo è stata messa ripetutamente in scena in diversi paesi del Molise.

A Jelsi, il volo dell'angelo - di cui si ha notizia per la festa in onore di Sant'Anna - «è scomparso durante il ventennio fascista. Esso consisteva nel far scorrere, sospeso ad un cavo fissato ai muri opposti di una strada, uno o più ragazzini vestiti da angioletti che in occasione del passaggio della Santa lanciavano, recitando alcuni versi, petali di fiori. Solitamente erano delle famiglie girovaghe che venivano invitate nei diversi paesi della provincia, e guadagnavano da vivere facendo questo lavoro».

Uno spettacolo simile si svolgeva a Isernia, in piazza Sanfelice, dove negli anni venti dello scorso secolo si organizzava il Volo degli Angeli, lungo un percorso che andava dal palazzo della famiglia Veneziale a quello della famiglia Magnante.

A Campolieto, il 29 settembre, quando transitava per il paese la processione di San Michele, si inscenava «la cosiddetta Calata dell'Angelo, che consisteva nel mettere una corda tesa in alto, che andava da una finestra del palazzo baronale fino ad un balcone di una casa di via Roma, e nel far scendere un bambino vestito da angelo giù per la corda e quando arrivava sulla statua lo si faceva fermare e dopo che aveva recitato una preghiera a San Michele, di cui però, nessuno ricorda la formula, veniva ritirato su; la calata dell'angelo è stata fatta fino a verso il 1940».

I fedeli di Montorio nei Frentani avevano modo d'assistere alla calata dell'angelo a giugno, durante uno dei giorni di festeggiamento "in onore del nuovo e antico protettore", San Costanzo e Sant'Antonio. Anche a Montagano c'è memoria del volo dell'angelo; così come a Civitanova del Sannio, dove veniva rappresentato a fine agosto, in concomitanza della festa di San Felice Martire.

Un tempo, a Petrella Tifernina, per rendere più solenne la ricorrenza di San Gaetano, veniva ingaggiata «una compagnia proveniente da Vietri (Campania), formata da cinque suonatori di strumenti diversi ed una fanciulla. Una fune veniva tesa ad altezza balcone, fra due abitazioni, all'inizio di Via Garibaldi e precisamente vicino all'Orchestra. La fanciulla, vestita da Angelo, veniva sospesa in aria alla corda e scarrucolando avanti e indietro su di essa, elogiava il popolo, esortava il Santo e benediceva: questo avveniva a mezzogiorno, al passare della processione. Quella giovane fanciulla, issata lassù in costante pericolo, toccava i cuori più duri sino alla commozione ed era un applaudire continuo accompagnato da ogni tipo di offerte».

Anticamente, a Bonefro la processione di Sant'Antonio era caratterizzata dalla cascata dell'angelo. «Gli 'angeli' erano [...] quattro o cinque, venivano fatti calare dal primo balcone fin sopra la statua del santo. Dicevano i loro padri che fungevano da manovratori: Angelo per angelo, vieni qui da me! Il piccolo 'angelo', arrivato nel punto stabilito, recitava una piccola poesia religiosa, quindi veniva fatto risalire sul secondo balcone. I bambini dovevano stare in attesa anche per un'ora, tanto da diventare 'neri' per l'arresto della circolazione del sangue. 'A chescate de ll'ang'le a un dato momento non fu più effettuata, finché l'usanza non fu ripresa per un breve periodo di tempo negli anni '30. Allora veniva in paese una famiglia di Riccia, composta dal padre, da tre figli maschi e da una bambina di 7 o 8 anni. [...] vestita da angelo veniva calata sulla statua del santo, con il compito di gettare i fiori e di invocare la protezione di S. Antonio con le parole: S. Antonio ejute 'u pop'le... S. Antonio sii benedetto!... Benedici questo popolo!... Alla fine la bambina veniva fatta scendere, mentre i suoi familiari giravano tra i fedeli a raccogliere le offerte con i piattini».

Testo: M. Gioielli (tratto da Feste e Riti d'Italia)


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (1 e 2 luglio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
Amministrazione
trasparente

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