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Articoli filtrati per data: Aprile 2014

San Giuseppe a Casacalenda

Tavole

19 MARZO

San Giuseppe

Il cristianesimo delle origini non assegna particolare rilievo a Giuseppe, brevemente menzionato da Matteo e Luca all'inizio dei loro vangeli, come personaggio di sfondo dell'infanzia di Gesù. La sua figura comincia a delinearsi soltanto nei vangeli apocrifi, in particolare nel Protovangelo di Giacomo, databile alla metà del II secolo. Le virtù del padre putativo di Cristo vengono citate, tra il il IV e V secolo, dai dottori delle chiese d'oriente e d'occidente. Il culto di San Giuseppe è documentato in un manoscritto del secolo VIII, proveniente dall'abbazia benedettina dell'isola di Reichenau, nel lago di Costanza, che ne fissa la commemorazione al 20 marzo.

In oriente la festa di San Giuseppe viene menzionata nei calendari verso il X secolo. Ricordiamo in proposito il Menologio di Basilio II, dal nome dell'imperatore committente, e composto da Simeone Metafraste verso la fine dell'anno 1000. Giuseppe compare più ampiamente nelle descrizioni del Codice Arundel 404, detto anche Liber de Infantia Salvatoris o Natività di Maria e di Gesù, vangelo apocrifo del XIV secolo, considerato una variante del Protovangelo di Giacomo. Questo testo attribuisce la funzione di "nutritore" al padre putativo di Gesù, e ne sottolinea le virtù di uomo caritatevole verso i più bisognosi.

Il suo culto si rafforza tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV, per opera di predicatori come Bernardino da Siena, che riconferma la funzione di Giuseppe, definendolo "fedele nutrizio e custode". L'assegnazione della data del 19 marzo per la commemorazione del santo è stabilita da Gregorio XV nel 1621. Nel Settenario di meditazioni in onore di S. Giuseppe Alfonso Maria de' Liguori riporta un racconto relativo alla consuetudine, di un mercante di Valenza, di invitare a pranzo, a Natale, un vecchio e una puerpera con un neonato, in onore della Sacra Famiglia: «Narra il P. Patrignani... che un certo mercante della città di Valenza soleva ogni anno nel giorno di Natale invitare a mensa un vecchio ed una donna che allattasse un bambino in onore di Gesù, Maria e Giuseppe. Questo divoto apparve dopo sua morte a chi pregava per lui, e gli disse che nell'ora del suo passaggio furono a visitarlo Gesù, Maria e Giuseppe, con dirgli: "Tu in vita ci riceveresti in persona di quei tre poveri in casa tua, ora siam venuti per riceverti in casa nostra". E che ciò detto, l'aveano condotto in paradiso».

Il rapporto tra la figura di Giuseppe e il cibo, considerato come nutrimento e aiuto per i più bisognosi, bambini o poveri, si esprime ancora nell'allestimento di tavole imbandite e la condivisione di particolari alimenti, in occasione della sua ricorrenza. Questa tradizione propone, in chiave di devozione popolare, alcuni elementi propri dell'agape che, nel cristianesimo primitivo, è la cena condivisa dai cristiani, con la guida di un celebrante, in determinati giorni, per ricordare l'ultima cena di Gesù. In origine l'agape ha un doppio contenuto, eucaristico e caritativo, in seguito si differenzia in due fasi: un banchetto serale per i poveri e la celebrazione eucaristica della mattina. Il termine greco agape corrisponde al latino charitas, che indica l'amore fraterno e disinteressato, virtù primaria di Giuseppe.

La tradizione delle tavole di San Giuseppe, diffusa in area meridionale (Sicilia, Puglia, etc.), è ampiamente presente in numerose località del Molise. Situandosi nel periodo iniziale della primavera, questa usanza sembra indicare il risveglio della natura, attraverso la celebrazione di una figura, solitamente in ombra come quella di San Giuseppe, portatore di abbondanza e nutrimento dopo la lunga sospensione invernale. Il santo, discreto ma forte, esce dal suo silenzio e dalla sua connotazione di forzata castità per rientrare in un festoso elargimento di cibo vitale, che lo ricolloca in una dimensione di ritrovata fecondità. Sembra in tal modo che si sciolga ogni dubbio sulla capacità generativa di Giuseppe, imposta dal racconto evangelico: è la natura stessa a restituirgli pienamente la funzione di padre primaverile, nella triade originaria della Sacra Famiglia, base della società umana. È a lui che si chiede sicurezza, solidità, abbondanza e protezione, nella certezza della paternità, intesa come professione di responsabilità verso i propri e gli altrui figli.

Paradossalmente Giuseppe, uomo casto per eccellenza, viene vissuto come colui che nutre e dà vita, una sorta di padre primordiale, che nella rinuncia rafforza il valore del suo seme. Pertanto la celebrazione di Giuseppe richiede il dispiegamento dei beni alimentari, in un agape solidale e aperto alla comunità, espressione di generosità disinteressata e rievocazione eucaristica nel tempio domestico, dove la Sacra Famiglia si affranca dalla povertà della grotta e acquisisce la dimensione regale che le è dovuta. Dunque la tradizione prevede un dovizioso e complesso allestimento di cibi e vivande, che varia di località in località, ma che generalmente comprende un certo numero di portate, da 13 a 19.

La festa di San Giuseppe a Casacalenda

A Casacalenda (Campobasso), il 18 marzo, ci si riunisce accanto all'altare innalzato in onore di San Giuseppe, cantando le litanie alla Beata Vergine (tènìie). La preparazione del cibo, effettuata secondo precise regole tramandate oralmente, ha inizio già la vigilia della festa. Le tredici portate sono costituite prevalentemente da legumi e da altri ingredienti. Nelle pignatte poste nel camino si cuociono i legumi, e si prega dinnanzi agli altari multicolori dedicati al santo. Gli altari, riccamente addobbati, hanno al centro quadri o piccole statue rappresentanti la Sacra Famiglia. Il giorno della ricorrenza le donne offrono il pane benedetto, l'alimento base della vita, che porta impressa nel centro l'impronta della mano del santo, e allestiscono le tavole: la prima è per la Sacra Famiglia, che sarà circondata da bambini, chiamati "angeli"; la seconda è dedicata agli altri commensali.

Secondo la tradizione il pranzo prevede: fette di arance condite con olio di oliva e zucchero e sottaceti in agrodolce; fagioli; ceci; piselli; cicerchie; fave; granchi; lumache; riso; baccalà gratinato; verdure; maccheroni con la mollica; infine frutta e dolci. Il pranzo è preceduto dalla recita di preghiere, che viene ripetuta ad ogni portata e alla conclusione. Oggi le persone che rappresentano la Sacra Famiglia, un vecchio, una donna e un bambino, non sono necessariamente poveri, l'usanza infatti ha perso nel tempo la primaria funzione caritatevole ed ha accentuato i suoi caratteri di fraternità e solidarietà, espressi essenzialmente nella condivisione dell'agape. La consumazione del cibo prevede determinati comportamenti: mangiare con le mani i maccheroni conditi con la mollica, accettare tutte le portate senza lasciare resti nel piatto, spezzare il pane con le mani.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (19 marzo 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Giuseppe a Termoli

Altari Vetäre

18 MARZO

Gli altari di San Giuseppe a Termoli

A Termoli (Campobasso), in occasione della ricorrenza di San Giuseppe, vengono allestiti i tradizionali altari, detti "vetäre". L'introduzione dell'usanza in questo borgo di pescatori viene comunemente attribuita a Concetta Barone, originaria di San Martino in Pensilis, assai devota al santo, tanto da rinnovare la consuetudine della famiglia d'origine nella sua nuova residenza. Nel tempo l'uso si diffonde ampiamente, soprattutto presso famiglie artigiane e contadine. Verso la fine del 1980 appare mantenuto vivo soltanto dalle discendenti della famiglia Barone, dunque, per non interrompere la tradizione, si tenta di sollecitarne la riproposizione anche da parte di altre famiglie e associazioni termolesi, con buoni risultati.

L'allestimento degli altari e delle tavole di San Giuseppe è effettuato dalle famiglie che li ospitano, con il contributo del vicinato. Dopo la benedizione del sacerdote, il pomeriggio del 18 marzo, gli altari sono pronti per la devozione dei fedeli, fino a mezzogiorno del giorno successivo. L'altare eretto in onore del santo è preparato con drappi, coperte e nastri, preferibilmente di seta e dai colori delicati, con i quali viene formato un tabernacolo, che porta al centro una raffigurazione della Sacra Famiglia o di Giuseppe con il Bambino. La base dell'altare generalmente è costituita da due o tre gradini, per poter disporre addobbi e una serie di oggetti significativi: fiori, piante, ceri, riferimenti al mestiere di falegname di Giuseppe, piccole statue e immagini della Sacra Famiglia e di altri santi, vasi con germogli di grano cresciuti al buio, simili a quelli che ornano le chiese il Giovedi Santo. I lunghi steli pallidi del grano contrastano con i colori dei fiori e dei drappi, quasi a rappresentare l'opposizione tra la morte e la vita, tra l'oscurità e la luce, nella delicata fase di passaggio tra inverno e primavera. La tavola, posta di solito a fianco dell'altare, viene imbandita con una grande quantità di cibi a base di magro, nel rispetto del periodo quaresimale.

Le famiglie gareggiano nella realizzazione delle composizioni più belle e più ricche. Il risultato è un dispiegamento di elementi vegetali (verdure, frutta e legumi) e una grande varietà di alimenti (pesce, uova, olio, vino, etc.), che offrono un variopinto scenario di abbondanza. Numerosi sono anche i dolci, in particolare si notano 'a puppattelle e 'u cavallucce, dolci a forma di bambola, per le bambine, e di cavallo, per i maschi, realizzati con pastafrolla ricoperta con glassa d'albume e confetti. Tra queste dovizie il pane ha un ruolo significativo, sulle tavole sono infatti collocate tre grandi pagnotte circolari, al centro delle quali sono impressi i simboli della Sacra Famiglia: la corona (Maria), la croce (Gesù) e il bastone (Giuseppe); è presente anche un lungo pane modellato a forma di bastone.

Dinnanzi all'altare si compie l'adorazione verso la Sacra Famiglia, scandita dall'esecuzione di canti, preghiere e poesie. Queste recite devozionali sono effettuate a turno da bambine vestite di bianco, in segno di purezza, e con il capo sormontato da ghirlande di fiori, le "verginelle". I devoti che si recano a visitare gli altari ricevono in dono un santino ('a 'mmaggenette), un panino benedetto ('u päne beneditte) e, come augurio di abbondanza, un po' di "grano di San Giuseppe", un misto di grano, fave, fagioli, cicerchia, granoturco, lenticchie e ceci. Il 19 marzo, secondo la tradizione, si dovrebbe offrire un pranzo di 13 portate a una famiglia, scelta tra le più povere, composta da due adulti e un bambino, che rappresentano Maria, Giuseppe e Gesù.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: D. D'Alessandro (18 marzo 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Nicola a Guardiaregia

5-6 DICEMBRE

Il 5 e 6 dicembre a Guardiaregia (CB), si celebra la Sagra dei Fagioli in onore del patrono San Nicola. Viene cucinata una zuppa di fagioli, un tempo pane dei poveri, che sarà offerta come cena ai presenti. Pentoloni di fagioli vengono messi a cuocere nelle prime ore del pomeriggio in case rustiche dove ancora si trovano antichi e grandi caminetti. Dopo la cottura, i fagioli vengono portati in un locale chiamato il cenacolo, un locale adibito a mensa, dove chiunque può sedersi ed assaporare i fagioli. Dopo la santa messa serale, partendo dalla chiesa di San Nicola, ci si porta in processione verso il cenacolo. Dopo la recita di alcune preghiere, il parroco impartisce la benedizione alle panelle, pagnottele di pane che verranno distribuite al popolo durante la festa del giorno dopo il 6 dicembre.

Foto: E. De Simoni (5 e 6 dicembre 2005)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Maggio ad Acquaviva Collecroce

Maja

1 MAGGIO

Il Mája di Acquaviva Collecroce

Acquaviva Collecroce (Campobasso) è un comune molisano popolato da un'ondata migratoria slava dalla prima metà del XVI secolo, come afferma Milan Rešetar: «Tutte le informazioni affidabili che possediamo sopra quegli slavi del Molise, di cui gli ultimi residui sono rimasti nelle tre note località, concordano infatti nell'affermazione che essi furono insediati nelle località in questione nel corso della prima metà del XVI secolo e parlano di loro proprio come di gente che era venuta dalla Dalmazia in Italia non molto tempo prima [...]».

In questo paese, di circa 740 abitanti, ha avuto luogo una importante attività di ricerca sulla lingua slavisana, secondo il neologismo proposto dagli autori del locale dizionario croato molisano. La valorizzazione della lingua, che prevede anche scambi culturali, specialmente in ambito scolastico, con la Croazia, si accompagna alla riattualizzazione delle tradizioni più caratteristiche del luogo.

Oltre la Smercka natalizia, la festa del primo maggio, ripresa dalla metà del 1980 , rappresenta un'occasione di condivisione collettiva di una tradizione particolarmente sentita. Il corteo del Mája rientra nelle feste primaverili propiziatorie , ma ha anche un intento di rafforzamento della fraternità tra la popolazione, che tuttora mantiene vivo il ricordo delle proprie origini. Come avviene nelle analoghe manifestazioni che hanno alla base la figura del pagliaio o pagliaro (l'ammasso di paglia innalzato in forma conica a protezione dalla pioggia), si riveste un telaio conico con elementi vegetali.

Rispetto alle altre composizioni, il Mája di Acquaviva Collecroce ha un aspetto antropomorfo, presenta infatti anche la testa e le braccia. Il risultato è davvero sorprendente e rievoca la fantasiosa complessità di certe immagini arcimboldesche, non tanto in senso grottesco quanto gioioso. La preparazione inizia il giorno precedente la festa, con la raccolta di fiori e primizie, che si protrae fin quando è possibile, per evitarne l'appassimento.

La struttura, alta più di tre metri, è composta da rami flessibili, canne e paglia e, diversamente da quelle di Fossalto e di Colle d'Anchise, non è ricoperta da una rete metallica. L'addobbo viene eseguito da un gruppo di giovani e da alcuni adulti: via via che il Mája prende forma, ognuno contribuisce al miglioramento della composizione con proposte e suggerimenti. Dinnazi al locale adibito per l'allestimento, sostano brevemente alcuni visitatori per seguire e commentare la preparazione.

La mattina del giorno successivo si compiono gli ultimi ritocchi, quando la figura è completata, nel rivestimento e nelle fattezze quasi umane, accentuate nei grandi occhi del volto, il Mája è pronto per essere animato. Questa personificazione presenta un aspetto piuttosto femminile: ha una corona sulla testa, una lunga capigliatura e la parte sottostante appare come un'ampia gonna. Nella rappresentazione osservata nel 2007, il Mája non porta sul capo una croce ma un ciuffo vistoso, a differenza delle analoghe figure di Fossalto (2005, 2006) e Colle d'Anchise (2007), dove addirittura il Pagliaro entra in chiesa.

Alberto M. Cirese, in base alle informazioni raccolte nel corso delle sue ricerche, che attestano la vitalità della festa fino al 1940 e la sua interruzione causata dalla guerra, cita la presenza di una croce di spighe di grano, posta sulla sommità del cono, la benedizione religiosa e la distruzione finale del Mája, presso i ruderi di una chiesa, eseguita da ragazzi.

Su un sito internet dedicato ad Acquaviva Collecroce, è documentata fotograficamente la festa, dal 2001 al 2007, e nel testo introduttivo si legge: "Come da un po' di anni a questa parte viene svolta il primo maggio una festa pagana tramandata dai nostri avi (per fortuna ripresa): si tratta della festa del Mája". Scorrendo le immagini si nota come il ciuffo sia diverso, di anno in anno, cosa che indica come le feste possano risultare diverse, di anno in anno, pur presentando tratti distintivi di base, tracce inevitabili sulle quali i protagonisti procedono con andamenti variabili.

Infine, così composta, la rigogliosa veste vegetale viene indossata da un giovane e ha inizio il corteo, dapprima verso la piazza Nicola Neri, poi lungo le vie del paese. Tra le danze di gruppi in costume provenienti anche da altre località del Molise, e al suono di strumenti tradizionali, lo spirito della vegetazione continua la sua processione, accompagnato dagli occhi discreti di donne che si affacciano dalla soglia delle case o dai balconi. È un giorno particolare, di festa e di memoria, e in tutti vi è un sentimento di seria partecipazione, specialmente nei bambini, impegnati a cantare con l'aiuto di testi scritti.

Questo testimonia l'importanza dell'apprendimento della tradizione nelle feste, non soltanto attraverso il coinvolgimento e l'osservazione, ma anche secondo modalità guidate da associazioni locali, culturali o scolastiche. Via via che il corteo si inoltra nel paese, le danze dei partecipanti e la distribuzione del cibo sciolgono la compostezza iniziale e portano a esprimersi più gioiosamente: giovani e anziani cantano e ballano in circolo attorno al Mája, che si muove con il suo gravoso carico floreale.

La venerazione della natura e le feste arboree

Nel lungo elenco di condanne lanciate dalla chiesa contro le pratiche popolari derivate da preesistenti forme religiose, la venerazione della natura sembra avere un posto privilegiato, in quanto resiste fortemente e si oppone al concetto stesso della creazione come opera divina: «Alii adorabant solem, alii lunam vel stellas, alii ignem, alii aquam profundam vel fontes aquarum, credentes haec omnia non a deo esse facta ad usum hominum, sed ipsa ex se orta deos esse». Alberi, pietre, acque sono oggetto di particolari rituali e, nonostante il cristianesimo, continua un'ideologia di contrapposizione alla religione ufficiale, determinata da situazioni economiche e sociali strettamente ancorate al mondo naturale come fonte primaria di sopravvivenza, soprattutto presso comunità agricole e pastorali: «Nam ad petras et ad arbores et ad fontes et per trivia cereolos incendere, quid est aliud nisi cultura diaboli? Divinationes et auguria et dies idolorum observare, quid est aliud nisi cultura diaboli? Vulcanalia et Kalendas observare, mensas ornare, et lauros ponere, et pedem observare, et fundere in foco super truncum frugem et vinum, et panem in fontem mittere, quid est aliud nisi cultura diaboli?» .

Tali comportamenti rientrano in una sorta di ecolatria non tanto pagana, quanto arcaica e profondamente radicata presso tutte le culture, contro la quale la chiesa lotterà aspramente utilizzando strategie di sostituzione delle entità venerate, sovrapponendo e adattando nei secoli i propri simboli. Tuttavia l'appartenenza al cristianesimo non esclude la persistenza di alcune pratiche: «Sotto i Re Longobardi, che pure professavano la legge Cristiana colla lor nazione, apparisce che molti del rozzo popolo con pazza credulità veneravano certi alberi, da lor chiamati Sanctivi, come se fossero cose sacre. Gran sacrilegio avrebbero creduto il tagliarli; sembra ancora che prestassero ad essi qualche segno di adorazione» .

Esempi di feste arboree connesse con la celebrazione del Maggio sono tuttora presenti in Italia, in particolare in Lucania, dove si può ricordare il complesso Matrimonio degli alberi di Accettura, nel materano, collegato alla processione del patrono San Giuliano. Sono dunque i rituali primaverili i percorsi privilegiati per l'espressione delle valenze propiziatorie degli elementi vegetali che, oltre a caratterizzare la festa o il canto, divengono talvolta strumenti di immedesimazione tra uomo e natura, attraverso la loro personificazione.

James George Frazer ha ampiamente trattato questi temi nella sua opera, sulla scia di Wilhelm Mannhardt, ricordato in questa citazione sulla personificazione dello spirito della vegetazione: «Without citing more examples to the same effect, we may sum up the results of the preceding pages in the words of Mannhardt: "The customs quoted suffice to establish with certainty the conclusion that in these spring processions the spirit of vegetation is often represented both by the May-tree and in addition by a man dressed in green leaves or flowers or by a girl similarly adorned. It is the same spirit which animates the tree and is active in the inferior plants and which we have recognised in the May-tree and the Harvest-May"».

Usanze del Maggio in Molise

Ovidio cita la dea Flora e Plinio le feste denominate Floralia, tenute tra la fine di aprile e gli inizi di maggio: «itaque iidem Floralia IIII kal. easdem instituerunt urbis anno DXVI ex oraculis Sibyllae, ut omnia bene deflorescerent». La via delle antiche reminiscenze è densa di suggestioni, che sopravvivono non tanto nelle sopravvivenze, più o meno consapevoli, delle tradizioni, ma soprattutto nella considerazione su di esse. Eppure tale via, nella sua impossibilità di spiegazione del presente, ha una grande carica evocativa: «La festosa costumanza molisana di cantar maggio è assai antica e trova precedenti celebri nell'era pagana. Presso gli italici si venerava flora, dea dei fiori e della primavera. Sotto la sua egida era l'agricoltura e il primo maggio le era sacro, riconoscendosi in una rigogliosa fioritura un promettente raccolto».

Tra le feste primaverili, attualmente proposte in Molise, caratterizzate dalla personificazione del Maggio, si possono citare: la Pagliara di Fossalto, la Defensa di Lucito, il Pagliaro (R Puogliar d Maj) di Colle d'Anchise e il Mája di Acquaviva Collecroce (Krûc). Nel 1955 Alberto M. Cirese scrive che alcuni documenti attestano questo tipo di personificazioni nei tre paesi d'origine slava , con caratteri nettamente antropomorfi, e in altre località, con diverse modalità: «... oltre che a Fossalto, dove vive ancora [...] una personificazione di tipo pagliara ci è testimoniata anche per Castelmauro, Bagnoli del Trigno, Lucito, Casacalenda, Bonefro e Riccia» . Cirese sottolinea inoltre che questi paesi non sono distanti dalla zona d'immigrazione slava, ad eccezione di Riccia, dove tuttavia è presente un borgo, detto Schiavone, che indica un contatto con gli slavi.

È interessante notare la dismissione dell'usanza, all'epoca dello scritto, proprio da parte di chi, in origine, si suppone l'abbia introdotta: «Il fatto singolare è che gli eredi dei portatori originari, e cioè gli abitanti dei paesi slavo-molisani di Acquaviva, San Felice e Montemitro, abbiano dismesso il costume, e lo abbiano invece conservato i paesi molisani di origine non slava. È evidente che in questo caso, nel processo di livellamento degli immigrati alla cultura nuova (diversa cioè da quella della loro patria), è avvenuto uno scambio: gli immigrati hanno "ricevuto" nuove costumanze e abitudini (e anche una nuova lingua: molti paesi già slavi sono oggi completamente italianizzati anche nella lingua) ma hanno anche "dato" ai vicini alcune loro costumanze. Ed i vicini che le hanno ricevute hanno rappresentato quasi la zona periferica della espansione del costume, una zona marginale "più conservativa"». Nell'operazione di superamento della discontinuità con il passato, oggi ampiamente effettuata per motivazioni che, sommariamente, si definiscono identitarie, le riproposizioni della tradizione e della lingua hanno un ruolo centrale.

Al di là della categoria discriminatoria di invenzione, che stabilisce una classifica di legittimità o purezza, in base a variabili storiche e demologiche, è utile considerare queste espressioni delle comunità, sia pure talvolta sollecitate da singoli o gruppi ristretti, elaborazioni collettive di elementi culturali, pensati come propri e distintivi. Attraverso queste riattualizzazioni si tenta di ridefinire una localizzazione sociale, che può espandersi oltre i confini territoriali, quando è condivisa con le comunità all'estero, e anche oltre i confini di una memoria documentabile, poiché è il vissuto nel presente a dare un senso all'azione collettiva, senza interrogativi sulla defunzionalizzazione.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Feste e Riti d'Italia)
Bibliografia: Alberto M. Cirese, La "pagliara" del primo maggio nei paesi slavo-molisani


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (30 aprile e 1 maggio 2007)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Maggio a Fossalto

Pagliara

1 MAGGIO

Il Maggio e la Pagliara

La Pagliara maje maje viene attualmente organizzata, il primo giorno di maggio, dalla Pro-Loco intitolata a Eugenio Cirese, poeta e studioso nativo di Fossalto (Campobasso). Nel 1955 Alberto Cirese, figlio del poeta, così descrive gli aspetti distintivi di questa tradizione: «La pagliara maie maie di Fossalto, dal punto di vista della morfologia estrinseca della simbolizzazione, si inserisce nella serie delle personificazioni del "maggio". È diversa cioè da quegli alberi o rami di maggio, tanto diffusi anche in Italia, ed ai quali appunto in Italia, come anche altrove, viene dato il nome di "maio". Ed è contemporaneamente diversa da altre personificazioni, anch'esse note in Italia, che sono dette "reginette" o "contesse" o "contessine" di maggio. È una personificazione coi suoi caratteri specifici, in parte analoghi a quelli che Arnold Van Gennep riconosceva al feuillu di certe zone della Francia».

Alberto M. Cirese sottolinea l'impressione di autenticità avuta durante l'osservazione dell'evento, in quegli anni, ed è interessante riportare le sue parole, che ci riconducono ad alcune questioni del presente, relative ai perduti caratteri di autenticità di alcune feste: «C'è una diffusa giocondità, e risa e gridi e strilli, ma tutto vien fatto con immediata spontaneità: non desiderio forzato di divertirsi, o spettacolo a beneficio del turista, o riesumazione artificiosa di tipo dopolavoristico; sì invece una cerimonia che si fa perché si è sempre fatta, e mancherebbe qualcosa se non si facesse; si fa perché è costume, perché piace, perché appare necessaria, o per qualunque altra ragione, ma non certo per ragioni estranee alla cerimonia stessa».

Oggi ci si interroga ampiamente sulle "ragioni estranee alla cerimonia" o, in generale, sulle ragioni delle cerimonie tuttora osservabili, e il "perché è costume" sembra apparire una spiegazione valida, almeno se si tiene conto che è il motivo più frequentemente addotto dai protagonisti stessi. Naturalmente queste considerazioni non sono applicabili a tutti i contesti, poiché in alcuni casi è prevalente la funzione di attrarre il turismo, riesumando o addirittura inventando le tradizioni, con la sollecitazione rischiosa di spinte dall'alto, cioè provenienti da ambiti estranei al vissuto locale. Attualmente la festa di Fossalto è un'occasione per rivivere collettivamente la propria tradizione, con un ampio coinvolgimento di bambini in costume, che accompagnano i personaggi principali: la Pagliara, lo zampognaro e il cantore.

Preparazione e corteo

Il 30 aprile si raccolgono i fiori e gli altri elementi vegetali necessari per l'addobbo, che viene completato nella tarda serata, per favorire il mantenimento della freschezza. La raccolta avviene nei campi, e nei giardini con il consenso dei proprietari, quando sono presenti. Si prepara inoltre la zuppa da distribuire il giorno successivo, composta da legumi che devono essere ammorbiditi e cotti separatamente. Il telaio è costituito prevalentemente da una leggera rete metallica adattata in forma conica. Sulla sommità è collocata una croce.

La mattina del primo maggio, la Pagliara, ormai pronta e in attesa di prendere vita, viene benedetta dal parroco, alla presenza dei bambini che sfileranno nel corteo. Una volta avvenuta la personificazione, attraverso un giovane che la indossa e la anima, si comincia ad annunciare l'arrivo del Maggio per le vie del paese. La Pagliara è accolta da consistenti getti d'acqua, versati dalle case in segno d'augurio, e le tracce di queste piogge improvvise segnano tutto il suo percorso. "Grascia, maie!" è il grido propiziatore d'abbondanza, che dovrebbe accompagnare questi getti. Dalla fessura, lasciata per consentire la visibilità, emerge a tratti il volto del portatore, sorridente ma un po' affaticato. Come accade in situazioni analoghe, c'è sempre qualcuno che lo affianca, per facilitargli il cammino.

Rispetto ad altre rappresentazioni del Maggio, la personificazione ha un fascino maggiore, esprimendo una sorta di immedesimazione tra uomo e natura che rievoca immagini arcaiche. Il risveglio primaverile risulta efficacemente interpretato in questo mascheramento rigoglioso, che tanto contrasta con gli aspetti cupi di certe figure carnevalesche, come l'Uomo Cervo di Castelnuovo al Volturno o il Diavolo di Tufara: è il ritorno della vita contrapposto alle tenebre dell'inverno, il passaggio, dal fuoco che brucia e purifica, all'acqua fecondatrice. La Pagliara è lo spirito risorto dal rogo del carnevale, la testimonianza dell'efficacia del sacrificio, anche se non è disgiunta da aspetti sacrificali, in quanto costituita da elementi sottratti alla natura.

Il canto di questua

Nel Maggio di Fossalto un aspetto importante è costituito dal canto di questua, affine ad altri canti eseguiti in occasioni simili: «[...] il testo non solo è pressoché identico in tutte le località molisane, anche là dove in luogo della pagliara è in uso l'albero o il ramo, ma non differisce di molto da canti di questua per il maggio in uso in località non molisane. In altre parole l'area di diffusione del testo letterario è assai più vasta dell'area di diffusione della pagliara. Il che significa che il canto preesisteva alla introduzione della simbolizzazione pagliara, così come preesistevano le cerimonie di celebrazione del primo giorno di maggio. Il nuovo apporto, se tale fu, degli immigrati slavi si incontrò dunque con tradizioni in gran parte analoghe, e diverse solo in certe modalità: donde maggior facilità di accoglimento e di permanenza nel tempo».

Questa è una parte del testo del canto di maggio della Pagliara, "Ecchite maje", registrato a Fossalto nel 1954 da Diego Carpitella e Alberto M. Cirese: «Ecchite maje e chi ò ri vò vedene / tutte li massaje i purtassene l'aine ammène / Signora padrona facciame na cosa lèsta / ca li cumpagne ce vuonne passà / e passa e repasseraje bene venga maje / Signora padrona e fai na cosa lèsta / si nin tì curtille / ji mo ti l'imprèste / Signora padrona vattin'a lu nide / si 'n c'è l'uóve piglia la gallina / Signora padrona vatten'a lu lardare / taja 'nchin'e guardati le mane / Chèssa figliola chi c'ai dà maritare / bbóna sorta Di ci li pozza dane / Signora padrona facéte na cosa lesta / ca li cumpagne ce vuónne passà / e passa e repasseraje bene venga maje / Jè arrivate maje e core pé la viarella / dèmme lavedat'alla famiglie di ri Canèlle / [...]».

Il testo prosegue con strofe caratterizzate da riferimenti personali. Il canto fossaltese, secondo Diego Carpitella, si differenzia dai canti pastorali di altre regioni italiane: «L'elemento tipico che invece distingue lo stile della "pagliara" di Fossalto è quello della voce che si muove secondo gradi congiunti, con un disegno ritmico simmetrico e preciso, mentre nel fondo la zampogna sostiene con un pedale continuo appena accennato nel disegno dell'accompagnamento: in maniera cioè di dare l'impressione, apparente ma non reale, di una poliritmia» . Al termine del percorso il portatore finalmente si sveste e, nella piazza principale, dinnanzi alla Pagliara vuota, si compie la fase conclusiva della festa: la croce, staccata dalla sommità del cono, viene consegnata dal parroco al sindaco. Entrambi intervengono, sottolineando l'importanza della tradizione, e i loro discorsi sono scanditi dalle esibizioni di gruppi musicali, in particolare da suonatori di bufù, presenti in numerose manifestazioni molisane.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)
Bibliografia: Alberto M. Cirese, La "pagliara maie maie"


Foto di Alberto Mario Cirese, gentilmente concesse dall'autore (1 maggio 1954)


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (1 maggio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Natale ad Agnone

'Ndocciata

8 DICEMBRE - 24 DICEMBRE

Ogni anno, all'imbrunire del 24 dicembre, accompagnati dal suono delle cento campane della città, i gruppi delle contrade (Capammonde e Capabballe, Colle Sente, Guasta, Sant'Onofrio, San Quirico) costituiti da centinaia di portatori di tutte le età, accendono le 'Ndocce (torce di abete bianco e ginestre, alte fino a 4 metri) e si incamminano verso il corso principale.


 

Foto: D. D'Alessandro (8 dicembre 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Sant'Antonio Abate a Colli a Volturno

16 GENNAIO

Sant'Antonio Abate

Antonio, eremita egiziano, vissuto tra il III e il IV secolo, viene considerato tra i principali fondatori del monachesimo orientale. Dopo aver rinunciato ai propri beni, conduce una vita di povertà e preghiera, alla ricerca della completa purificazione. Affronta i tormenti e le innumerevoli tentazioni del diavolo, pertanto gli viene riconosciuto il potere di guarire gli indemoniati.

Il tema delle sfide di Satana al santo caratterizza tutti i racconti agiografici ed è ampiamente trattato nella Legenda Aurea: «Antonius cum XX esset annorum et audiret legi in ecclesia: "Si vis perfectus esse, vade et vende omnia, quae habes, et da pauperibus", omnia sua vendens, pauperibus erogavit et eremiticam vitam duxit. Vir innumerabilia daemonum tentamenta sustinuit. [...] Qui cum ibi ex dolore vulnerum prostratus iaceret, ex virtute animi ad conflictum daemones excitabat. Tunc illi in formis variis ferarum apparuerunt et eum iterum dentibus, cornibus et unguibus crudelissime laceraverunt. Tunc subito splendor mirabilis ibi apparuit et daemones cunctos fugavit. Antonius autem continuo sanatus est».

Antonio è inoltre ritenuto protettore degli animali domestici ed è invocato contro l'herpes zoster, comunemente detto "fuoco di Sant'Antonio" o "fuoco sacro", termine che nel medioevo indica in particolare l'ergotismo. L'associazione del santo con il fuoco, ascrivibile agiograficamente al suo rapporto con il diavolo e le fiamme infernali, è espressa nell'uso di accendere falò in occasione della sua ricorrenza, uso diffuso in Molise e in molte località italiane, che rievoca antichi rituali di purificazione e di passaggio dall'inverno alla primavera.

La festa di Sant'Antonio Abate a Colli a Volturno

La vigilia della festa di Sant'Antonio Abate gruppi di giovani, vestiti da monaci, percorrono le strade di Colli a Volturno (Isernia) e delle frazioni, visitando case e negozi per ricevere offerte. Si rievoca in tal modo la questua o "cerca", praticata dagli Ordini Mendicanti e dagli Antoniani. In tempi di miseria la questua, nel periodo di macellazione del maiale, costituiva, per i più poveri, un modo per ottenere cibo. Ogni gruppo comprende, in genere, tredici persone, una delle quali rappresenta il santo, con una tunica bianca e il bastone da eremita. Il santo cavalca un asino. I giovani, accompagnati da tamburi, fisarmoniche e organetti, intonano il canto, che prevede il saluto ai padroni di casa, alcuni riferimenti agiografici (povertà, sofferenze, tentazioni etc.), la richiesta di offerte e il congedo.

 Sant'Antonio Abate (foto fornita da Domenico Marzullo)

Immagine tratta dall'articolo di Antonietta Caccia e Mauro Gioielli: Tradizioni musicali per il Sant'Antonio Abate nella valle dell'alto Volturno, "Utriculus", VI, n. 1 (21), gennaio-marzo 1997, pp. 4-10.

La festa di Sant'Antonio Abate segna l'inizio del carnevale e la rappresentazione dedicata al santo, oltre ad essere rievocativa degli aspetti esemplari della sua vita, contiene tratti carnevaleschi, espressi nel mascheramento, nell'allegria dei recitanti e nelle parole del canto. Il testo costituisce una traccia, dalla quale si riprendono le parti principali relative al saluto, ai ritornelli e al congedo, mentre le strofe vengono adattate dal cantore alla varie situazioni degli ospitanti, con riferimento agli eventuali doni che si potranno ricevere. Le questue, con canti, tamburi e tamburelli, vengono effettuate anche da squadre di bambini, vestiti con un saio e muniti di un bastone a forma di croce, recante l'immaginetta del santo.

Fondamentale è il contributo dei giovani nella riattualizzazione della festa, già riproposta dalla Confraternita di Sant'Antonio e in seguito da associazioni giovanili. La rappresentazione itinerante dei gruppi diviene occasione di apprendimento della tradizione non soltanto attraverso l'ampia partecipazione di ragazzi e bambini, ma anche con le visite nelle scuole dei più piccoli. Mentre i gruppi eseguono le questue, si prepara il fuoco per la sera. Dopo l'accensione e la benedizione del parroco, si festeggia intorno al grande falò, dinnanzi alla struttura allestita per la cena collettiva. Durante la serata, su un piccolo palcoscenico, alcuni giovani rievocano la vita del santo con esibizioni teatrali e canore.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: D. D'Alessandro (16 gennaio 2008)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Settimana Santa a Isernia

Venerdi Santo

La Settimana Santa

La Settimana Santa inizia dopo il periodo quaresimale, la Domenica delle Palme e si conclude con la Pasqua. I rituali della Settimana Santa appartengono alla tradizione del dramma sacro, espressione della partecipazione popolare alla liturgia e al sentimento del lutto per la morte di Cristo. La celebrazione del lutto si manifesta in modo particolare attraverso le processioni del Cristo Morto, organizzate in molte località italiane il Venerdi Santo e ampiamente diffuse in Molise e in tutta l'area meridionale.

Il Venerdi Santo di Isernia

La processione del Cristo Morto di Isernia è resa particolarmente suggestiva dalla partecipazione di penitenti, uomini e donne, che indossano una tunica bianca, cinta da un cordone rosso, e un cappuccio che ne cela l'identità. I penitenti portano croci e simulacri raffiguranti la passione e la morte di Gesù: le statue del Cristo Morto e della Mater Dolorosa, i busti degli Ecce Homo e le croci. Alcuni incappucciati sono scalzi, in segno di penitenza. Alla processione, organizzata dalla confraternita del Santissimo Sacramento, partecipano anche le confraternite di Santa Maria del Suffragio, di San Domenico, di Sant'Antonio e l'arciconfraternita di San Nicandro e San Pietro Celestino. Nella confraternita di Sant'Antonio è ampia la partecipazione dei Rom di Isernia, molto devoti a questo santo. Le confraternite si distinguono per il colore delle mantelline o mozzette indossate dai fedeli non incappucciati, tra i quali vi sono numerosi bambini.

Nel Venerdì Santo di Isernia i simulacri religiosi hanno un'importanza fondamentale, e ad essi viene dedicata una particolare attenzione. La preparazione delle statue della Mater Dolorosa e del Cristo Morto è infatti eseguita da alcune donne anziane, con accuratezza e, come spesso accade in questi casi, in un'atmosfera di riservatezza e di religioso raccoglimento. Il corpo del Cristo sul letto di morte, segnato dalle rosse ferite del martirio, è ornato con una composizione di fiori freschi che lo circonda interamente. La statua dell'Addolorata viene vestita con un abito nero e un mantello, arricchiti da ricami dorati, sulla testa ha una corona e sul petto un grande cuore argenteo, trafitto da sette spade, i sette peccati capitali. Il sentimento di dolore è reiterato nei busti dell'Ecce Homo, che presentano Gesù dopo la flagellazione, con le mani legate e un fusto di canna, posto di traverso, simbolo dello scettro derisorio. L'immagine dell'Ecce Homo, con la corona di spine e il mantello rosso che lascia intravedere i segni della tortura, accentuando l'umiliazione di Cristo, rafforza il senso di pietosa condivisione del lutto. In queste intense espressioni iconografiche, frutto dell'adattamento tra arte religiosa e devozione popolare, emerge il contrasto tra la vita e la morte, rappresentato nei colori: il rosso del sangue, la varietà dei fiori, il nero delle vesti, l'oro dei ricami, infine il bianco, dirompente dai corpi gessosi e dagli abiti degli incappucciati.

Allestiti i simulacri processionali, inizia la preparazione dei vivi. I penitenti delle varie confraternite indossano le vesti e prelevano le loro croci, chiamate "Croci Calvario", con riferimento alla croce portata da Gesù sul Golgota. Nel corso della lunga cerimonia, oltre la croce della crocifissione, sfilano anche le "Croci Sudario", sulle quali è collocato un panno bianco, che ricorda le bende lasciate da Cristo nel sepolcro ma richiama alla memoria anche il velo offerto a Gesù dalla Veronica. Sulle croci che riportano gli oggetti del martirio, è riassunta tutta la vicenda della passione: il gallo, riferito all'episodio evangelico della negazione di Pietro, la corona, i chiodi, la spada, la lancia, i flagelli, la brocca e il bacile, il calice dell'Eucaristia, il martello, il bastone con la spugna intrisa d'aceto, la tenaglia e la scala, per schiodare e deporre il corpo, la borsa con i denari di Giuda, la mano, a ricordo dello schiaffo dato a Cristo, i dadi, usati dai soldati per tirare a sorte la veste.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)
Bibliografia: M. Gioielli, Significati e simbologie del Venerdì Santo a Isernia


Foto: E. De Simoni (14 aprile 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Silvestro a Sessa Aurunca

31 dicembre

Il Buco Buco di Sessa Aurunca (Caserta) è un canto di strina eseguito il 31 dicembre che, iniziando al calar della sera, e portando le squadre di corte in corte alla ricerca delle offerte spontanee degli abitanti, sfocia in una manifestazione collettiva nel punto di maggiore slargo del comune di Sessa Aurunca, dove ad attendere le squadre di bucobuchisti vi è la stragrande maggioranza della comunità sessana.

Le squadre in qualche modo competono tra loro, sfoggiano divise diverse per essere riconoscibili, costumi che variano di anno in anno per ogni squadra (e che fruttano spesso simpatici nomignoli alle stesse), si impegnano per offrire le voci migliori, il maggior numero o la migliore qualità possibile degli esecutori di questa sorta di bande musicali, due sole cose le accomunano, ossia il canto (nel testo come nella melodia) e lo strumento che dà il nome al rito ed a tutti gli elementi presenti in esso, e cioè il buco buco. Così ce lo descrive Alberto Virgulto partecipe dei riti della comunità di cui è parte nota e riconosciuta come custode del rito ed artefice della riproposizione dello stesso: "Lo strumento musicale classico della tradizione aurunca è senza dubbio ru Zuchete - zu (Puti - pu). voce onomatopeica che si riferisce al particolare suono emesso da questo strumento musicale popolare, diffuso nell'Italia Meridionale. Viene anche detto Struglio o Buco - buco. Si tratta di un tipico tamburo a frizione di antichissima origine. Costituito da una canna preventivamente legata e fissata al centro di una struttura cilindrica, ossia su di una botte di piccole dimensioni che ricoperta di pelle funge da cassa armonica. facendo scorrere la mano bagnata lungo la canna la pelle sottostante produce un suono cupo, ingigantito dalla cassa armonica. Questo tipico strumento musicale serve a cadenzare il ritmo nelle varie melodie".

Il Buco Buco

Ma leggiamo come la nostra guida prosegue il racconto della tradizione del Buco Buco: "Questo singolare ed arcaico attrezzo è costituito da un recipiente di legno, rivestito nella parte superiore da una tela dalla quale fuoriesce un'asticella che è manovrata da un suonatore che delicatamente la stringe e muove con movenze ritmiche che si basano su di un cadenzato movimento di sfregamento e scivolamento della mano lungo tutta l'asta, inumidita dall'acqua. Tale movimento genera il suono tipico dello zuchete - zu. Prettamente maschile è la partecipazione collettiva che costituisce il gruppo. Il suono, che si protrae per trentadue strofe con un ritmo sempre uguale, trova il suo acme nel finale, caratterizzato dal cambiamento spasmodico di esso, da binario a ternario; la mano del suonatore intensifica lo scivolamento sull'asta e culmina con la "contata", vero atto liberatorio .Oltre alla contata e al movimento dello zuchete zù in alcune realtà locali maggiormente si evidenziano precise movenze sceniche. A Corigliano, piccola frazione del Comune di Sessa Aurunca, ad esempio i componenti del gruppo e i zuchezuchisti accompagnano l'intercedere del suono e delle parole con un movimento sussultorio del bacino. Nella composizione della formazione, schierata per la partenza, i componenti si dispongono gradualmente in fila con a capo il mazziere che tiene tra le mani la "mazza" che secondo la credenza popolare ha la funzione di inseminare e fertilizzare il territorio percorso. L'atto finale si manifesta con il cambiamento di tempo e con l'assunzione da parte dei componenti del gruppo, di una disposizione circolare, lasciando all'interno del cerchio solo il Mazziere e il suonatore di Zuchete - zu (o Buco Buco) nel loro sensuale movimento, fino all'apogeo della "contata", prima cadenzato dalla sola voce solista, poi dall'intera banda: "1,2,3,4,5,6,7,8,9,10" vero e proprio atto liberatorio di gruppo."

Il Buco Buco

Si noti come Virgulto specifichi che le squadre sono formate esclusivamente da uomini, induco a questa osservazione il lettore, o semplicemente gli comunico questo dato, per rendergli noto come nell'anno 2008, per la prima volta nella memoria fino a noi giunta di questa tradizione, una donna abbia preso parte ad una delle squadre nel ruolo, centralissimo, di cantante, generando stupore e curiosità all'interno della comunità sessana. Tuttavia le evoluzioni, espressione che trovo più corretta rispetto a "le novità", non intimoriscono eccessivamente gli attori di questa tradizione, come ci spiega lo stesso Virgulto il Buco Buco ha conosciuto "aggiunte ed riadattamenti dettati dalle esigenze dei tempi. modificandosi nel corso dei tempi sia nella struttura musicale che nel testo originale, arricchendosi di nuove sfumature armoniche e di particolari immaginari, fondendosi con ele­menti di narrazione fantastica ed allegorica, Possiamo affermare quindi che il "Buco -buco", almeno nel capoluogo, si è arricchito e si è evoluto nel corso degli anni in tre parti musicali nei tempi di: 4/4, di 2/4 e di 6/8."

Chi scrive si rende conto che una variazione nella struttura ritmica o melodica del canto non equivale ad una modifica in quella rituale, ma una tale riflessione esula dalle possibilità di questo scritto, si lascia al lettore tuttavia una ulteriore informazione e, probabilmente, un ulteriore spunto di riflessione. Altro particolare interessante, raccontatomi da Alberto Virgulto, come da altri bucobuchisti, tra cui Giovanni Loffredo, anche cantore del miserere, è quello relativo ad una sorta di gerarchia, o di apprendistato, presente all'interno delle squadre dei bucobuchisti, difatti coloro che per la prima volta prendono parte alla squadra, generalmente bambini figli degli stessi componenti, non hanno il "diritto" di poter suonare lo zuchete'zu, si inizia trasportando l'acqua necessaria per inumidire l'asticella dello strumento, per poi accedere a strumenti intermedi come tamburelli, scetavaiasse e quant'altro, soltanto dopo un lungo apprendistato protratto di anno in anno si può giungere, avendone le capacità, ad assolvere ruoli importanti all'interno della squadra come quello di suonatore, di cantante, di suonatore di zuchete'zù o addirittura di mazziere. Per completezza va ribadito, come già emerso dalla narrazione fattaci dalla nostra fonte, che quella di Sessa Aurunca non è l'unica forma di Buco Buco eseguita tutt'oggi, Sessa consta di un numero elevatissimo di frazioni in alcune delle quali vengono eseguite differenti forme di questo canto di fine anno, a tal proposito precedentemente si è accennato al caratteristico Buco Buco di Corigliano.

Testo: A. L. De Simone (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

 

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Madonna della Neve a Ponticelli

5 AGOSTO O DOMENICA SUCCESSIVA

Storia di processioni e di feste

Nel lontano 352 d. C., Papa Liberio e i nobili romani Augusto e Livia avrebbero fatto lo stesso sogno: un manto di neve avrebbe ricoperto il colle Esquilino il 5 agosto. Tutti si sarebbero dovuti adoperare per costruire un tempio alla Vergine Maria. Da quella prima chiesa mariana si sarebbe diramato, per vie quasi sempre sconosciute, il novello culto alla Madonna della Neve. Solo un secolo dopo, papa Sisto III rifondò l'antico tempio, al quale fu dato il titolo di Santa Maria Maggiore, e s'iniziò una devozione ad una delle più antiche immagini mariane, venerata pure come Madonna di S. Luca. Il culto e la festa di Ponticelli (Napoli) s'incastonano in quest'antica tradizione. Quando nel 1988 si volle celebrare con solennità il II Centenario della proclamazione a Patrona di Santa Maria della Neve, si ricrearono le condizioni atmosferiche della nevicata storica. Il 5 agosto, in quella stessa strada che aveva accolto nel lontano 2 agosto 1914 una folla straripante per incoronare la Regina di Ponticelli, si volle esperire l'aurora della devozione sorta sull'Esquilino. La statua della Madonna della Neve fu portata giù dal palco e s'accompagnò con i fedeli oranti.

La Bandiera

La prima convocazione popolare avviene nel mese di giugno, nella domenica che la Chiesa dedica all'esaltazione dell'Eucarestia con la processione del Corpus Domini. I fuochi d'artificio e la banda annunciano ai ponticellesi e ai paesi vicini che fervono i preparativi per la nuova festa. Una piccola folla si raduna e si moltiplica nell'attesa dell'inizio della processione. Dalla Chiesa escono i ministranti con il Parroco, poi si fanno strada gli uomini del Comitato, che sorreggono un drappo dipinto con l'Immagine di S. Maria della Neve. È un tessuto di m. 2,20 x 1,40 ruvido, trattato per resistere all'ingiuria atmosferica. Lungo tutto il XX secolo si sono susseguiti molti pittori per decorarlo, ma nessuno più ricorda il nome del primo. Fino a poco tempo fa, la Bandiera della Madonna della Neve veniva portata a braccia, non issata, ma sorretta. Oggi, si segue un nuovo rito. La Bandiera viene fissata su un baldacchino ornato di fiori e trasportato a spalla. Fino alla domenica della festa, resterà issata in bella vista non per sventolare, ma per indicare alla folla quotidiana che percorre la strada una certezza ed un programma.

La Festa e il Carro

Le statue della Madonna della Neve sono due: la prima è la scultura lignea policroma, alta m. 1,75: la Madonna, in posizione eretta, regge sul braccio destro il Bambino e con la mano sinistra un pugno di neve. L'ampio manto e il regale vestito luccicano di oro zecchino.

La seconda statua, invece, è un manichino. Risponde ai canoni di fattura delle statue di fine '700 ed è stata creata per essere trasportata. Il corpo è una struttura in legno e canapa, ricoperta di preziosa veste, saldamente ancorata su una base circolare. La testa e le mani sono armoniose sculture lignee. Il Bambino, anch'esso ligneo, fu rubato nella notte tra il 29 e il 30 novembre 1977. Questa è la statua che portata a braccia dai preti di Ponticelli viene issata alla sommità della macchina da festa tramite un ascensore manuale interno.

La liturgia celebra la Madonna della Neve il 5 agosto. Dall'alba al tramonto il popolo canta il suo culto alla Vergine, partecipando alla Celebrazione Eucaristica. La domenica successiva al 5 agosto, Ponticelli vive ilgiorno del trionfo. La domenica del Carro è il giorno della folla assiepata. Tutti seguono con gli occhi il movimento della lunga piramide. Fissano l'immagine della Madonna e ne individuano ogni sussulto, ogni sbandamento.

Il Carro, un'alta torre rettangolare a forma piramidale diversamente istoriata, anno dopo anno, da un artista - scelto attraverso un Concorso Nazionale per il Progetto Decorativo del Carro della Madonna della Neve di Ponticelli - viene portata per le strade dell'antico comune. Alla sommità del Carro si fissa la statua della Madonna della Neve. Se per un anno intero i fedeli vanno in chiesa, ora è Maria che passa tra le case dei ponticellesi, che aspettano senza mangiare, che adornano i balconi, che applaudono e manifestano la loro gioia anche attraverso gli scoppiettanti fuochi d'artificio. È l'esternazione dell'entusiasmo che cerca di caricarsi di fede autentica e quotidiana.

Da sempre il Carro è trasportato in piena libertà dai devoti. Quando il loro numero è sufficiente si procede con speditezza. Ma quando appaiono i vuoti si vivono momenti di ondeggiamento pericoloso e lo sguardo del popolo altalena velocemente dai muscoli sudati dei portatori allo svolazzante manto della Vergine. Ci sono tantissimi giovani. A guardarli bene, prima che s'immergano nel sottofondo della materializzazione della devozione, non ti spieghi perché lo facciano. Hanno altre idee e comportamenti, talvolta agiscono in modo dissacrante, eppure sono lì, sotto il Carro. Nessuno può dire quante persone occupano quei sette metri quadri. È una bolgia irrespirabile di calore e di sudore. Movimenti all'inizio umani, ma poi solo meccanici. Volontà di spingere di muovere di trasportare nell'attesa di captare la voce rauca, stanca, ma determinata di chi per generazioni ha scandito la reazione del sistema muscolare dei portatori: aìze... posa. Soltanto all'ultima posata, radicale autoaffermazione sul dolore, si sperimenta l'immediata certezza che lo sforzo, apparentemente senza legge, ha avuto ragione dell'impossibile.

Così, tra le undici e le diciannove, si snoda una processione lenta e intensa, ricca di emozioni, di pathos, di sussulti e di speranze. A sera, una folla oceanica accoglie il Carro che incede affaticato, ma solerte, in una piazza avida di festa e attende paziente che la statua venga riportata giù per passare sotto una pioggia di petali, tra preghiere gridate. Tutti sciamano solo quando la Vergine del Carro ha riconquistato il suo trono. Un altro anno si aggiunge come tessera multicolore nel mosaico del vissuto del popolo ponticellese.

Testo: G. Mancini (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

Ponticelli

Ponticelli, appollaiato sulle sue prime pendici del Vesuvio per difendersi dalle Paludi di Napoli, si è lentamente sviluppato a partire dall'alto Medioevo intorno ai corsi d'acqua dell'antico Sebeto dove la vita quotidiana si districava in migliaia di orti, segnati da mulini e da fiumicelli, fonte di vita e di distruzione. La fantasia degli abitanti aveva inventato tanti ponticelli, dai quali deriva l'antico nome del paese, Ponticello, per affermare una continuità di comunicazione su vie interpoderali, sempre minacciata. Così, avrebbero potuto raggiungere la casa dei parenti o le poche cappelle disseminate nelle campagne per manifestare la loro fede e la loro devozione mariana. Almeno una volta all'anno, forse due, i contadini, caricati i loro carretti, raggiungevano a Napoli i monasteri padroni per soddisfare le clausole d'affitto.

Ponticello sviluppò una una organizzazione urbanistica essenzialmente rurale, localizzata lungo le direttrici naturali delle vie interpoderali. Queste restavano tracciate quando i contadini arginavano i loro orti con barriere di piante, divenendo il letto naturale dell'acqua, che veniva giù copiosa nei mesi invernali. La piana a nord, orograficamente più infossata, costituiva la ricchezza della regione, a sud, su un leggero declivio, s'impiantò lentamente questa nuova realtà abitativa. I gruppi familiari abbandonarono gli antichi insediamenti nelle paludi e si trasferirono compatti per parentela e per provenienza sui nuovi siti, ai margini della via prescelta. Piccole comunità crearono piccole isole che accolsero uomini ed animali domestici.

Due erano le direttrici che risalivano la china e al loro incontro s'inerpicava dolcemente il primo tratto della via che raggiungeva la più antica e nobile via sommese, parte del sistema viario romano. I due bracci convergenti nell'unico corso, disegnarono la pianta topografica di Ponticello.

Lì, fu costruita la prima Cappella, culla del culto, della devozione e della festosa celebrazione popolare della Madonna della Neve. Tutto ciò era una meravigliosa realtà già nel XV secolo. Nello stesso periodo in cui il piccolo villaggio si trasformava in Università e poi in Casale, si verificò un incremento demografico significativo e quella originaria Cappella non fu più ospitale ad accogliere tutti i devoti abitanti, forse un centinaio circa alla fine del XIII secolo ed alcune centinaia alla fine del XV.

All'alba del XVI secolo, l'Università di Ponticello fece costruire secondo le sacre disposizioni una chiesa sotto il titolo di S. Maria della Neve. Nel 1598 l'antica cappella era stata ampliata. Due erano le navate e non più una. Un corredo inaspettato arricchiva questa comunità: la fonte de battezzare di pietra bianca lavorata, una vasca arricchita di bassorilievi marmorei su colonna, e un organo a quattro registri.

La novità maggiore consisteva in un investimento cultuale, culturale ed economico che ha segnato la storia di Ponticelli in modo perenne: il fedele che frequentava la nuova chiesa per manifestare la sua fede era accolto da un trittico improprio, ma certamente accattivante per la bellezza singolare degli elementi composti sull'altare maggiore: la Statua lignea di Maria della Neve con il Bambino sul braccio destro e ai due lati le tavole lignee di S. Pietro e S. Paolo.

La devozione a S. Maria della Neve non ha conosciuto interruzione di sorta nei secoli successivi, assumendo un ruolo singolare sia nel secolo XVII, quando le fu riconosciuta pari dignità con la celebrazione di Natale e di Pasqua, sia nel XVIII, quando fu decretata come festa di precetto.

Nel 1914 si concluse un'ulteriore tappa nel cammino devozionale: il sommo privilegio, concesso dal Capitolo Vaticano, dell'Incoronazione dell'immagine della Madonna della Neve venerata a Ponticelli e famosa per i miracoli. La cerimonia si svolse il 2 agosto 1914 in una cornice di folla straordinaria, sulla pubblica ed ampia strada che oggi si chiama Viale Margherita, sotto un monumentale baldacchino imposto dalla Curia Napoletana.

L'ultima meta auspicabile, ed anche raggiunta, era l'elevazione del Tempio a Basilica Minore. Inoltrata la richiesta nel 1988, in occasione del II Centenario della proclamazione della Madonna della Neve a protettrice di Ponticelli, il 27 luglio di quell'anno S.S. Giovanni Paolo VI sottoscrisse il Breve Pontificio, decidendo di accogliere la richiesta comune del Clero e dei Fedeli di elevare al grado e alla dignità di Basilica Minore il tempio dedicato alla Beata Vergine della Neve nel quartiere Ponticelli dell'Archidiocesi di Napoli.


Foto: Comitato festeggiamenti Maria SS. della Neve di Ponticelli, 2006
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

 

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Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
Amministrazione
trasparente

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