Menu

Articoli filtrati per data: Aprile 2014

San Paolino a Nola

Gigli

PRIMA DOMENICA SUCCESSIVA AL 22 GIUGNO

Una festa lunga un anno

Nola (Napoli) festeggia il suo copatrono, San Paolino vescovo, con una processione religiosa il 22 giugno e con la Festa dei Gigli nella domenica successiva. Per l'occasione ogni anno vengono costruite una Barca guidata da un Turco e otto Gigli, costruzioni a forma di obelisco, in legno d'abete e di castagno, rivestite in cartapesta, alte circa 25 metri, ognuna delle quali rappresenta una corporazione di un mestiere tradizionale. Il 22 giugno i cittadini di Nola affollano il Duomo fin dalle prime ore della mattina per assistere alle messe officiate presso la cappella del santo. Poi le porte della Basilica si aprono per dare inizio alla processione, che vedrà sfilare per le vie della città i Gigli fino alla loro entrata in piazza, al termine della quale il Vescovo benedirà gli obelischi e la barca e pronuncerà il suo discorso dalle scale del Duomo. In questa giornata anche le nove bandiere delle corporazioni rendono omaggio al patrono, portate dai maestri di festa e poste sulle pareti della cappella di Paolino.

La preparazione della festa occupa tutto l'anno e già dalla sua conclusione, a mezzanotte, i maestri di festa, cioè gli uomini designati a prendere il giglio per l'anno successivo, firmano in Municipio l'impegno, dando le più ampie garanzie, a preparare il giglio per la categoria o corporazione corrispondente al giglio prescelto, assumendosi anche l'onere della spesa. L'impegno, a caparra, viene sancito con la somma di denaro che si usa dare ai vari rappresentanti dai cantanti, delle fanfare, dei costruttori dei gigli, etc. dal maestro di festa per assicurarsi la loro prestazione. I maestri di festa devono avere determinati requisiti che possono essere modificati di anno in anno. Così dopo pochi giorni dalla conclusione della festa, i vari comitati, cioè le associazioni di persone che divideranno con i maestri di festa l'impegno dell'organizzazione per il loro giglio, sfilano per la città con la banda musicale per presentarsi ufficialmente ai cittadini, è la prima uscita.

Nel mese di settembre avviene il passaggio, lo scambio della bandiera, che esce dalla casa del vecchio maestro di festa per entrare nella casa del nuovo, che la custodirà con l'orgoglio di essere stato designato dal comitato a sovrintendere alla buona riuscita delle fasi della festa che culminerà nella sfilata, cerimonia molto sentita e seguita dalla cittadinanza accompagnata dalla fanfara, e dalla ideale benedizione di San Paolino sotto il cui monumento avviene lo scambio, accompagnato da musiche e spari. Il maestro di festa assieme alla sua famiglia deve, quindi, scegliere il mastro costruttore dell'obelisco, che presenterà i suoi bozzetti e avrà un acconto sulla somma pattuita. Queste macchine hanno una durata effimera perché alla fine della stessa festa i gigli saranno abbattuti per poter essere ricostruiti nuovamente l'anno seguente, secondo un rituale simbolico di morte e rinascita che richiama la ciclicità degli eventi quotidiani attraverso la rinnovata esperienza creativa della costruzione annuale degli obelischi.

La questua

La lunga, laboriosa e costosa preparazione della festa presuppone l'esistenza di un buon comitato organizzativo ma soprattutto la designazione a maestro di festa, che si presuppone abbia una buona capacità di organizzazione economica per affrontare l'impegno di spesa spesso ingente che la costruzione del giglio comporta. La collaborazione spesso può essere assolta anche gratuitamente in funzione di uno sforzo comune finalizzato verso un unico obiettivo condiviso, la buona riuscita di una festa che di anno in anno segnerà la propria fine per riproporre subito dopo il proprio ritorno, nel suo continuo disfarsi e rifarsi stagionale.

A primavera iniziano le questue, anche queste annunciate dalla banda musicale che con il comitato e i cittadini sfila per le vie della città. Dopo aver reso omaggio al santo, il corteo si inoltra nel cuore della città passando per i negozi e le case dei conoscenti che offrono il loro contributo ricevendo in cambio vari doni che caratterizzano quel Giglio o quella famiglia di maestri di festa. La raccolta continua dopo il pranzo, detto a tavuliata, consumato in un ristorante dove, oltre al comitato e alla banda musicale, i maestri di festa invitano altri commensali che faranno la loro offerta nominativa, puntualmente registrata dai maestri di festa. Alla fine verrà pubblicamente dichiarata la somma ricavata, dato importante per stabilire la forza economica del comitato preposto al giglio di quella corporazione. Così fino ai primi di giugno ogni maestro di festa, per un solo giorno, procederà alla questua con queste modalità, mentre al giglio dell'ortolano è consentito di prolungarla per otto giorni, per raccogliere denaro anche nelle campagne e in periferia.

La costruzione delle macchine

I Gigli devono essere solidi e flessibili nel contempo, per poter anche ballare, obbedendo agli ordini del capo della paranza, cioè della squadra dei circa 120-8 uomini, chiamati cullatori, vestiti con la maglia caratteristica del proprio giglio. Sono loro che dovranno trasportarli a spalla per tutta la durata della sfilata, facendoli danzare al ritmo della banda musicale posta sulla base di ogni giglio.

Elemento centrale dello scheletro di legno di ogni giglio è la borda, l'asse centrale, un palo lungo circa 25 metri, composto da quattro parti bullonate con perni e chiodi, intorno al quale si costruiranno i vari elementi della macchina. La costruzione dell'obelisco è un'operazione molto delicata cui presiede il maestro di festa, spesso il capoparanza e parenti e amici membri del comitato. La lunga borda, innestata sulla base quadrangolare del giglio, che misura circa 3 metri di altezza, dovrà essere perfettamente perpendicolare a questa. Alla base si pongono le varre, otto barre di circa sei metri e del diametro di 12 cm. in legno di castagno, che serviranno ai portatori per sollevare il giglio, e i varrielli, o varritielli, pali più piccoli e sfilabili all'occorrenza per il passaggio nei vicoli più stretti. Ultimata la costruzione, dopo aver montato i sei pezzi che formano il prospetto della facciata, il giglio risulta di un peso complessivo di circa 20 quintali e di 25 metri di altezza.

All'altezza di circa due metri, verrà costruita la piattaforma destinata ad ospitare la divisione musicale composto in genere da due cantanti, strumenti a fiato tra cui il sassofono è il principale, una tastiera elettronica, chitarra elettrica e percussioni. La musica, con vecchie e nuove canzoni composte e incise ogni anno per l'occasione, è un elemento fondamentale della manifestazione: già dalla domenica precedente il 22 giugno le bande musicali accompagnano le paranze che trasportano i gigli spogliati, ovvero le nude strutture di legno, fino alle abitazioni dei maestri di festa, dove si faranno ulteriori collaudi, è il giorno in cui si provano le spalle e il giglio.

La vestizione dei gigli

Nei giorni precedenti la festa religiosa, inizia la vestizione dei gigli, la cosiddetta addobbatura, con la struttura in cartapesta che serve per rivestire questi alti obelischi di legno: sono i pezzi che sapienti maestri artigiani hanno preparato nelle loro botteghe d'arte. Oltre agli immancabili San Paolino e San Felice che dovranno essere montati su ogni giglio, ci sono angeli, santi, cuspidi gotiche, decorazioni barocche in gesso e cartapesta, ma anche soggetti presi dal mondo dello sport e dall'attualità. Non esistono precise regole che limitano la creatività dei maestri di festa e dei loro progettisti. Gli scheletri di legno vengono così rivestiti con i pezzi trasportati per mezzo di una carrucola posta in cima al giglio e azionata dagli operai che fissano i pezzi facendoli scorrere con le funi.

Terminato il lavoro, finalmente tutti possono ammirare i soggetti scelti, per valutarne anche il lavoro eseguito. La figura di San Paolino è generalmente ospitata in una nicchia nel secondo elemento di ogni giglio, mentre in cima è posizionata una statua sacra, o quella dello stesso Paolino, o una croce. Ogni macchina rivestita pesa ora circa 40 quintali, il doppio di un giglio spogliato, anche se i bassorilievi in cartapesta ricoprono generalmente solo una delle tre facciate del giglio, mentre in passato le ricoprivano tutte e quattro. Il maestro costruttore è pronto a consegnare il giglio vestito al maestro di festa che chiude il contratto versando il resto della somma pattuita. In ogni rione comincia, allora, la festa intorno ad ogni giglio, i comitati sfilano per le vie della città tra canti, musiche, brindisi e scambi di omaggi tra i vari rioni ospitanti i gigli. All'alba della domenica tutto è pronto per la sfilata.

La domenica della festa

La domenica mattina alcuni gruppi che possono essere formati dagli uomini della paranza insieme al capoparanza e alle squadre dei caporali, iniziano all'alba a sistemare le varre legandole alla base, secondo un delicato rituale che è chiamato "allazzatura della varre". Il capoparanza provvede alla distribuzione dei cullatori sotto al giglio, scegliendo coloro che andranno a varriello, a varra o a punta 'e varra, cioè all'inizio della varra. Le varre vengono legate alla base e sono fisse, mentre i varrielli si possono sfilare in qualsiasi momento, a seconda del percorso più o meno stretto che i gigli devono intraprendere. Dopo la benedizione di ciascun giglio, tutto è pronto perché gli obelischi si muovano e il capoparanza si disponga davanti al giglio per far seguire alla paranza il ritmo della musica, imponendo gli ordini rituali. Una volta sollevati i gigli, tra ali di folla assiepata lungo le strade e sui balconi delle case, il corteo si dirige verso la piazza dove gli otto gigli e la barca entrano ad uno ad uno e si dispongono nel posto stabilito davanti al Duomo. Qui si assiste a una suggestiva esibizione dei gigli consistente in una ballata in cui ciascun giglio mette in scena una performance danzante davanti al Duomo, spesso conclusa sulle note dell'Ave Maria o dell'inno a San Paolino.

La piazza è gremita da una folla esultante e verso le tredici al suono delle campane si apre la porta della Cattedrale dalla quale esce il Vescovo seguito dal settecentesco busto argenteo di San Paolino portato a spalla da un gruppo di uomini. La parte religiosa si chiude con la benedizione dei gigli e della barca, che avviene tra uno scroscio di applausi e la commozione dei presenti. Nelle prime ore del pomeriggio si dà inizio alla ballata, i gigli nel loro tradizionale percorso attraverso le strade e gli stretti e insidiosi vicoli della città, sfilando nel seguente ordine: Ortolano, Salumiere, Bettoliere, Panettiere, Barca, Beccaio, Calzolaio, Fabbro e Sarto. Terminano la loro esibizione quando l'ultimo giglio, il Sarto, esce dallo stretto vico di Piciocchi, a tarda notte o, come ormai succede sempre più spesso, nelle prime ore della mattina successiva. La bravura e l'abilità delle paranze consistono nello sforzo di mantenere la stabilità del giglio durante tutto il percorso e di farlo ballare seguendo l'andamento della musica, il cui ritmo aumenta in un crescendo vorticoso sulle spalle dei cullatori. Il comando principale è il "cuoncie cuoncie e ghièttalo!" (piano, piano e posalo), oggi si arriva a pronunciare a stento "cuoncie cuoncie e ghiètt". Un ordine che prelude ad un virtuosismo della paranza è il nummero ddòje (numero due), che consiste nel rialzare di nuovo il giglio appena lo si è posato, anche se oggi è sempre più in disuso.

Testo: C. Peluso (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

San Paolino

L'episodio che la sfilata dei Gigli per le vie della città rievoca vede protagonista il vescovo di Nola Paolino che, tra il IV e il V secolo, durante le invasioni barbariche, si reca in Africa offrendosi al posto del figlio di una vedova che lo supplicava di aiutarla a riscattare il figlio prigioniero. Incaricato di coltivare gli orti del genero del re, arte che lui stesso dichiara essere l'unica a lui congeniale, ottiene dei risultati straordinari guadagnandosi stima e rispetto del sovrano che, scoperta la sua identità, gli concede di tornare in patria con altri concittadini di Nola liberati dalla schiavitù. È san Gregorio Magno a divulgare la leggenda del ritorno di Paolino dall'Africa nel terzo libro dei Dialoghi, un racconto che sembrerebbe anacronistico per il riferimento all'invasione dei Vandali, posteriore di circa venti anni alla morte di Paolino avvenuta il 22 giugno 432, ma il valore documentario della narrazione, peraltro non suffragata da altre fonti storiche, risulta interessante per il legame che permette di istituire con l'ordine di sfilata dei gigli, il primo dei quali dall'Ottocento ad oggi è quello dell'ortolano, durante la festa in onore di San Paolino. È probabile comunque che Paolino sia stato realmente ostaggio dei Visigoti che invasero l'Italia ai primi del V secolo, al tempo della sua elezione a vescovo di Nola, e questo episodio divenne fonte di leggenda con la storia della volontaria prigionia e liberazione. La descrizione di quel festoso entusiasmo con cui i Nolani offrirono corone di fiori a Paolino che tornava per mare dall'Africa portando i prigionieri liberati, fornisce i fondamenti, storici e mitici insieme, di questa celebrazione che appare particolarmente complessa e le cui origini più antiche sono probabilmente da rintracciare in un antico rito agrario, che avveniva in concomitanza con il solstizio d'estate, trasformatosi poi in festa cristiana.

Una città e il suo santo

Nola, città di origine ausona, nel VI secolo con Capua roccaforte etrusca passa ai Sanniti, che la chiamano Novia, città nuova. Durante la seconda guerra sannitica è alleata di Neapolis, dalla quale aveva assorbito la cultura ellenica, contro Roma e nel 311 a.C. viene espugnata da Q. Fabio diventando poi confederata di Roma. Dopo la battaglia di Canne è la principale base di operazioni dei Romani contro i Cartaginesi e viene inutilmente assediata da Annibale. Conquistata a tradimento dai Sanniti, è di nuovo occupata dalle truppe romane al comando di Silla e prende il nome di colonia felix Augusta Nolana. Nel 14 nella casa dei suoi avi muore l'imperatore Ottaviano Augusto. Divenuta una delle più importanti città della Campania negli ultimi tempi dell'impero, dopo la distruzione nel 455 subita dai Vandali di Genserico, non riesce più a riacquistare l'antica importanza. Nola è legata a S. Paolino per essere stata la sua sede episcopale dal 409, a lui si attribuisce l'invenzione delle campane per chiamare a raccolta i fedeli, dette nel medioevo nolae o campanae (della Campania), che figurano nello stemma della città.

Pontius Meropius Paolinus, nato a Bordeaux tra il 354 e il 355 da nobile famiglia con possedimenti non solo in Francia, ma anche in Spagna e in Italia, presso Fondi e a Nola, diviene governatore della Campania, scegliendo Nola come sua residenza. Si sposa con Terasia, dalla quale ha un figlio che però muore dopo otto giorni. Grazie alla moglie decide di ricevere il battesimo a Bordeaux a 35 anni, viene consacrato sacerdote a Barcellona, ritirandosi poi definitivamente a vivere a Nola, dove viene proclamato vescovo, seguendo la vita leggendaria di Felice, un prete molto venerato che era vissuto in quei luoghi e la cui tomba nella vicina Cimitile era meta di un continuo pellegrinaggio.

Nel 432 Paolino muore: l'esempio della sua vita consacrata ai poveri e la sua autorità religiosa in un'epoca difficile per la chiesa ne decretarono l'eterna memoria e la sua santità legata alla città di Nola. Nonostante le spoglie di Paolino siano state oggetto di traslazioni successive, da Cimitile, presso la tomba di San Felice, a Benevento e poi a Roma, nella chiesa di San Bartolomeo all'isola Tiberina, per essere poi riportate a Nola nell'anno dell'inaugurazione della nuova cattedrale, il 15 maggio 1909, per volontà di Pio X, i festeggiamenti in onore di Paolino si celebrarono ininterrottamente, almeno dal 1500, secondo i cronisti del tempo.

Le cronache

È la cronaca cinquecentesca di Ambrogio Leone, insieme a quelle di altri autori del sei e settecento, Andrea Ferraro e Gianstefano Remondini, ad offrirci i più antichi documenti sullo svolgimento della festa in onore di San Paolino. È il Remondini che introduce per primo il termine "gigli, come volgarmente son detti" definendoli "certe macchine a forma di globi, di piramidi, di navi o simil altre cose, tutte adorne d'innumerevoli garofani, tra i quali pende l'insegna di lor' arte in memoria di quando sparsasi per la città la grata novella", i cittadini uscirono dalla città come si trovavano e gli artigiani non fecero in tempo a deporre gli attrezzi da lavoro per correre a salutare il loro vescovo Paolino che ritornava dall'Africa.

Gregorovius nella prima metà dell'Ottocento, assistendo personalmente alla festa, rimane colpito da «un'altissima torre, rivestita di oro scintillante d'argento e di rosso, alta cinque piani, elevata su colonne, adorne di fregi, nicchie, archi e figure...la torre oscillava qua e là sulle spalle di circa trenta portatori, nel piano più basso sedevano ragazze incoronate di fior, al centro un coro di musicanti con trombe, timpani, triangoli e cornette eseguivano una musica assordante... Anche da un altro lato giungeva una musica rimbombante e vidi, sorgere sopra le case,un'altra torre, poi un'altra ancora... ne vennero nove in direzioni diverse, tutte con la stessa altezza tranne una che era alta 25 metri e che apparteneva alla corporazione dei contadini... Un attributo che pende dal fregio della nicchia centrale indica a quale arte appartengano i vari obelischi; sul giglio dei mietitori si vedeva una falce, su quello dei fornai due grandi ciambelle, su quello dei macellai un pezzo di carne, una scarpa su quello dei calzolai, un formaggio per i pizzicagnoli ed una bottiglia per i vinai. Gli obelischi si dirigevano verso la Cattedrale, seguivano poi una nave sulla quale era un giovane vestito da turco con in mano un fiore di melograno, dietro, un gran bastimento da guerra con un giovane in vesti moresche e sul tribordo, inginocchiata davanti all'altare, la figura di san Paolino».

Lo spettacolo del ballo di queste torri davanti al Duomo al suono di una musica assordante e al comando di un uomo che camminando davanti ai gigli dava il tempo, fa pensare ad uno spettacolo pagano, annota Gregorovius, che ironizza sul contrasto tra quello che avviene fuori, sulla piazza mentre "all'interno della cattedrale il vescovo di Nola, impassibile e con la più grande calma, celebrava la messa cristiana che i fedeli, senza lasciarsi turbare, ascoltavano in ginocchio". Nella descrizione del viaggiatore ottocentesco De Boucard lo scrittore annota che "ciascun giglio è sostenuto da 16 facchini, ma il più grandioso è quello dell' ortolano, trasportato da trentasei".

Si deve arrivare al 1891 per leggere in un documento di cronaca che "la ballata dei gigli" si svolge nella prima domenica successiva al 22 giugno e con queste modalità la festa è stata mantenuta fino ad oggi, salvo piccole variazioni di percorso lungo le vie cittadine. Anche l'ordine di sfilata dei Gigli è rimasto sostanzialmente lo stesso: il primo giglio è quello dell'ortolano; seguono quelli del salumiere, del bettoliere e del panettiere, quindi, dopo il passaggio della barca di San Paolino, sfilano i gigli del beccaio, del calzolaio, del fabbro e del sarto.


Foto: V. Contino, 1969
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: E. De Simoni, 2005
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia



"I Gigli di Nola". Video realizzato nell'ambito del progetto "Alternanza scuola/lavoro" al Museo delle Civiltà - Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, con il Liceo ginnasio statale Giulio Cesare, Roma. Realizzazione a cura di: Chiara Bruschi, Francesca Calvano, Lucia Cristofari, Cristina Fraschetti, Giulia Tuninetti, Caterina Valentini, Flavia Vicentini. Coordinamento di: Francesco Aquilanti con la collaborazione di Emilia De Simoni e Gianfranco Calandra. Riprese di Emilia De Simoni - Nola 25 e 26 giugno 2005

Leggi tutto...

San Michele Arcangelo a Padula

ULTIMA DOMENICA DI MAGGIO - SECONDA DOMENICA DI GIUGNO

La festa

Ultima domenica di maggio: San Michele e Tutti i Santi

A Padula (Salerno) è detta anche la festa di Tutti i Santi. In quest'occasione tutte le statue delle altre chiese parrocchiali e delle cappelle del paese, fino agli anni '70, «si recavano in visita» al protettore San Michele, per la funzione delle ore undici in Chiesa Madre. Oggi solo San Francesco giunge dal Convento alla periferia del paese verso la pianura.

Le statue, tra le quali sono soprattutto quelle della Chiesa ospite, e attualmente solo quelle piú leggere, vengono accomodate lungo le navate laterali già prima della liturgia, al termine della quale sono disposte in teoria sul piazzale antistante in attesa del Santo, che esce dalla chiesa adorno degli ori e di primizie, in particolare ciuffi di ciliegie messi in bell'ordine.

La festività anche qui ha carattere agrario, e lo pone meglio in evidenza la prerogativa spiccatamente pastorale di quella riservata a San Francesco all'inizio dell'autunno. Un tempo precedevano le portatrici dei cindi, la Congrega del Rosario, le Figlie di Maria e il Terz'Ordine Francescano, coi rispettivi stendardi. La processione compie il giro dell'intero paese, seguendo un percorso piú completo delle altre.

Il racconto delle antiche modalità di svolgimento delle feste padulesi è tramandato da don Arcangelo Rotunno, sacerdote e benemerito archeologo e letterato, vissuto tra la metà dell'Ottocento e la fine degli anni Trenta. «Oltre il suono giulivo delle campane della Chiesa Madre, anche quelle delle altre chiese squillano a festa ne' predetti giorni e in altri simili». «La sera della vigilia della solennità del Patrono, di quella popolarissima di Monte Romito e di qualche altra si accendono per le vie i falò, le Sacre cerimonie montane - vere villeggiature pel popolo, - sono allietate dal suono delle cennamelle e della cornamusa». «A volte dei vaghi cinti o castelli di candele ornati di fiori e di nastri, seguono i questuanti o la processione prima di essere consegnati ai procuratori della festa: i quali procuratori si fanno, nelle collette per l'abitato, precedere da uno stendardo a mo' di panno da testa o di scialle adorno di una immagine del festeggiato per la sottoscrizione. E quel drappo preceduto dalla musica, si porta al favorito dalla sorte la sera; e, allora, cerimonie e cortesie. Ragazze (verginelle) ornate di fiori naturali o artificiali, abbigliate per la circostanza, ordinariamente o in maggioranza in candida veste, partecipano, serie e modestissime, ai convegni, alla processione che sosta ove brucia, scoppia la batteria». «La sera delle maggiori solennità, nella Piazza Umberto I o in altro piazzale, si bruciano fuochi artificiali piú o meno numerosi, svariati e attraenti».

Seconda domenica di giugno: San Michele alle Grottélle

Ai margini della Cívita, verso sud est, in una grotta naturale è conservata la statua di pietra, il simulacro in realtà è di tufo grigio, ma la credenza popolare gli attribuisce un materiale piú pregiato, di un piccolo San Michele che si dice proveniente dalla Certosa. La processione si svolge sul posto, al suono delle zampogne, nel luogo dove sorgeva Consilínum, lungo le vestigia di quelle che furono le sue mura esterne, sino alla Cappella di San Sepolcro.

La tradizione voleva che si cantasse il Rosario di San Michele che inizia col Padre nostro:

"Patre nnuóstu riccitiéllu,/ jangu, russ' e tturchiniéllu,/ ccu ssa vèsta turchinèlla,/ GGesú mmiu, quando sí bbèllu./ GGesú mio, non mi lasciare,/ chi iu nu àggiu addov'andare;/ e, ssi pur mi lascería,/ fammi luci a st'arma mia./ Fuggi, fuggi, traritóri,/ non mi dar piú ppèna a mia,/ ca àggiu pirmísu a lu Signóri/ ca i su ssèrvu ri María. Dieci volte si ripete al posto dell'Ave Maria: PPi mmar' e ppi ttèrra/ sí nnuminàtu tu,/ Sandu Michèl'Arcàngilu,/ sí cchjinu ri virtú./ Lauràmu a stu ghran Príngipi/ e la sua potestà:/ Sandu Michèl'Arcàngilu/ pper noi stai a pprighà./ San Michèli stai ngiélu,/ stai ngiélu e ssèmbi prègha,/ prègha il Cuore di Gesú:/ Sandu Michèli aiutànni tu. Invece del Gloria si canta: Chi è cchiru ca stai ngòppa a st'autàra?/ Si chjama lu ghran Príngipi Michèli./ Chi ngi cérca lu ggràzziu ngi lu ddóna,/ chi tèni lu còri affllíttu ngi lu sana./ Sandu Michèli, iu ti ni cércu una:/ a lu pundu ri la mòrti m'hai aiutàni./ Quann'è lu pundu ri la mòrti mia,/ Sandu Michèli mi sia ppi ccumbagnía".
E si conclude, in sostituzione della Salve, Regina, con la Coronèlla:

"E una è la stella:/ San Michele s'ingròna,/ si mette la sua cròna/ e al cielo se ne va. Poi: E due só le stelle... E tre só le stelle... E ddúrici só le stelle:/ San Michele s'è ngrunàtu,/ al cielo se n'è andato/ ppi una ternità".
Questo rituale oggi solitamente non è piú praticato.

8 maggio: San Michele

Ancora negli anni '50 dello scorso secolo, il Santo veniva festeggiato con una semplice processione per le vie del paese, ma poi fu commemorato con la sola celebrazione nella Chiesa Madre.

16 dicembre: San Michele del Terremoto

Di sera, mentre suonavano le campane di tutte le chiese del paese, si svolgeva la processione in ricordo del terremoto del 1857. Don Arcangelo Rotunno riferisce circa l'origine della celebrazione, ancor viva nella sua memoria: «Narrano i vecchi che quella terribile notte, quando reiteratamente la terra si scosse, l'Arciprete corse alla Chiesa Madre e, fatta estrarre dalla nicchia la bellissima statua di S. Michele, opera eccellente del Colombo, la fece portare in giro per l'abitato; ma, giunto l'atterrito corteo alla contrada S. Paolo, flagellato piú delle altre, dovette retrocedere. Da allora in poi, ogni anno dell'anniversario di quella notte malaugurata, l'immagine del Patrono è portata in processione».

Testo: A.Tortorella (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

Storia del culto

Padula fu fondata, sul finire del IX secolo, dai profughi della lucana Consilínum o, nella forma italica, Cosilínum. Collocata su un'altura a sud dell'attuale abitato e distrutta - la leggenda locale merita ogni credito - dagli Arabi che, dopo aver operato altre distruzioni in Calabria e Lucania, tra cui la confinante Grumentum in Val d'Agri, si apprestavano ad assediare Salerno al comando dell'emiro 'Abd ΄Allāh ΄ibn Ya'qūb.

Il culto di San Michele poté giungere a Padula, ed in particolare in località Grottélle, ai margini meridionali dell'antico abitato lucano, all'epoca di Costantino il Grande, quando i Cosilinàti calcavano ancora il suolo dell'avíta Cívitas, che ancora oggi ne conserva la denominazione sul colle a sud di Padula, e Marcelliano per interesse del Papa Marcello I fu elevato alla dignità episcopale del suburbanum quoddam, da cui probabilmente il borgo di San Giovanni in Fonte derivò il nome.

Tuttora i Padulesi fanno ritorno all'antiqua Mater per onorare l'Archistratego dell'Esercito celeste nella seconda domenica di giugno, un tempo fors'anche nella prima, allorquando a un di presso Costantino dedicava al Santo il Sosthènion sul Bòsforo poco lontano da Costantinopoli e stabiliva al 9 di giugno la festività commemorativa, che certamente influì sulla sinassi dell'Arcangelo in molti calendari orientali e nei vari santuari che sorsero sul Corno d'Oro tutt'intorno a Bisanzio e nella stessa Città: l'11 giugno, il 12, il 16, il 19 del medesimo mese.

La consuetudine locale ripete in tale circostanza la recita del Rosario cantato di San Michele, raccolta ordinata degl'inni offerti al Santo Guerriero. Fra questi, si distingue per l'arcaicità della composizione l'originale Pater noster, in cui ritornano l'eterno contrasto tra il Male e il Bene, del quale Michele fu propugnatore, e i riferimenti al gusto cromatico bizantino per i toni decisi, al bianco e al rosso, legato alla sacralità della porpora imperiale e simbolo della Divinità, ammantata d'umanità col turchino, tinte evocanti l'abbigliamento del Cristo e le lumeggiature delle icone.

Non è casuale il perdersi nel tempo del ricordo dei primi onori assegnati al Santo. Prima di Lui nell'agro di Cosilínum era stato venerato un nume proveniente ugualmente dalla Frigia e signore, al medesimo modo, delle forze sotterranee, dell'acqua, dei terremoti, degli antri e dei dragoni e come in Frigia ne prese il posto.

"Sanctum/ mundum/ Attinis p(ro) r(editu)/ a fundament(is)/ Helviae Abascante/ et Capitolina f(ilia), d(ecreto) d(ecurionum), p(ecunia) s(ua) f(ecerunt)" è l'epigrafe, riutilizzata dai Certosini di San Lorenzo nelle loro cantine per il torchio delle uve.

Il progredire dei secoli non cancella le tracce dei sacri riti, tanto che nelle forme esteriori il Santo cristiano e la divinità pagana confondono i propri tratti, come avvenne nella regione d'origine. La grotta e l'acqua sono la cornice naturale di San Michele anche a Padula.

Ma è notevole la documentazione medievale che testimonia una processione michaelica, nella quale era portata arbor florida et accensa iuxta morem aliarum ecclesiarum, descritto anche come albero florida quam... cum candelis deferre in festo et ecclesia sancti Angeli requirebatur, come privilegio della Chiesa Madre, intitolata all'Arcangelo, sulle altre nove parrocchie ad essa collegiate, indizio pure del risalto che veniva assegnato alla ricorrenza e ciò avveniva l'8 maggio del 1213 e del 1223.

Ancora alla fine del XV secolo, in vigilia festi apparitionis S. Michaelis, pulsatis campanis dictae Ecclesiae S. Angeli in nona, et vesperis ejusdem, aliae Parochiales Ecclesiae pulsando correspondere debent, et singuli presbyteri aliaruma Ecclesiarum in utrisque vesperi et missa cum superpelliceis induti solemniter convenire ad officium celebrandum, et quaelibet ex octo Ecclesiis praedictis unam arborem viridem abietis ad illam deferre.

Infine si rinnova, con continuità documentata almeno fino alle soglie dell'età moderna, il corteo degli antichi dendròfori di Attis.

Al fine di evidenziare la forte diffusione del culto michaelico è interessante segnalare l'alto numero di chiese, chiesette e cappelle nel territorio di Padula che erano nell'ordine le chiese parrocchiali di San Michele Arcangelo, comunemente Sant'Angelo, San Pietro Codilongo, San Croce, San Clemente, San Martino, San Giovanni, Santa Maria della Cívita (che sembra fosse la piú antica), San Nicola delle Donne, Santa Caterina, San Pietro Petrosello o in Vínculis. A cui si aggiungevano due chiese con ospedale, la Santissima Annunziata e Sant'Antonio Abate ed un altro ospedale unito alla parrocchiale di San Clemente. A cui si venivano ad aggiungere le due chiesette, intra moenia, dedicate alla Madonna del Carmine, quindi San Basilio, San Cataldo, San Domenico alla Tarpèa, San Marco, San Matteo, in séguito monastero agostiniano con mutamento di titolo, San Nicola dei Greci, San Paolo, San Rocco, San Prisco, San Sebastiano, divenuto poi San Carlo Borromeo, Santa Domenica, Santa Lucia, Santa Maria della Nova, Santa Maria delle Grazie, Santa Maria di Costantinopoli, Santa Sofia, Santa Trinità, Sant'Eligio, Santi Quaranta, San Vincenzo, San Vito, San Zaccaria, extra moenia, San Biagio, San Canione, il convento di San Francesco, San Giacomo, San Giuliano, San Leonardo, il monastero certosino di San Lorenzo, , il monastero benedettino di San Nicola al Torone, San Nicola della Starza, San Sepolcro, Santa Domenica, Santa Margherita, Santa Maria de Candelora, Santa Maria della Mattina, Santa Maria di Monte Romito, Santa Maria Maddalena, Santa Maria Peccerélla, Sant'Andrea, Santa Venere, Sant'Elía, Sant'Ermo, San Tommaso, Santo Spirito.

Il sorprendente scenario però nel tempo si veniva modificando infatti tante di esse tra '800 e '900 sono scomparse o distrutte, mentre di molte altre, che non citiamo, rimane solo una traccia toponomastica.

San Michele si lega anche a un'altra festività, che ancora agli inizi del '900 aveva cadenza distinta da quella garganica, anch'essa di chiara matrice grecobizantina. È tratta della solennità di Tutti i Santi, celebrata l'ultima domenica di maggio a differenza del calendario ecclesiastico romano, che la prevede al 1° novembre.


Foto: M. Cartusciello, (1885, 1914, 1925, 1960, 1980)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

Leggi tutto...

San Michele Arcangelo a Sala Consilina

8 MAGGIO - 17 MAGGIO - 28 29 30 SETTEMBRE

La festa

3 maggio: la Cruci

A Sala Consilina (Salerno), fino a quando non è stata asfaltata la via che conduce al Santuario era necessario, nei giorni precedenti la processione dell'8 maggio, recarsi a ripulire le curve dal terriccio, per prepararne il percorso. Operazione che era annunciata, all'imbrunire del giorno precedente, da un uomo che andava per le vie di Sala ad annunziare, sonando una campana, la fatica del giorno dopo. La mattina successiva gli uomini si riunivano in processione, preceduti dalla Croce coi simboli della Passione e si avviavano al Santuario al suono delle zampogne. Al Calvario, ai piedi della montagna, cominciavano la pulizia, mentre gli zampognari li rallegravano e li esortavano con inni a San Michele e tarantelle, e un uomo, a turno, reggeva la Croce. A metà del monte si fermavano a coltivare un lembo di terra rotondo: primo riferimento al carattere agrario che le festività michaeliche rivestono nel territorio. Sempre lavorando si giungeva alla cappella montana, dove il sacerdote celebrava la messa; quindi si faceva colazione, e verso le tre del pomeriggio si cominciava a scendere. Lungo la strada venivano raccolti rami di pino o di abete: la processione degli abeti, la dendroforía, fu forse il prestito d'una tradizione documentata invece a Padula da tempi remotissimi.

A metà della discesa andavano loro incontro devoti col biroccio che distribuivano abbondantemente da bere ai lavoratori. In processione, con la Croce e le zampogne, gridando Ebbíva la Cruci, arrivavano all'Annunziata, mentre la campana della chiesa sonava a lluóngu e la gente si faceva intorno per accoglierli. In chiesa il sacerdote benediceva gli uomini e gli alberi col Sacramento; in quale momento gli uomini battevano li mmazzi sul pavimento di pietra, poi esclamavano a gran voce Ebbíva Sandu Michèli, Sandu Michèli ebbíva e andavano via, dopo aver cantato inni al santo. Questo avvenne fin quando fu rifatta la pavimentazione dell'Annunziata. Ma sulla soppressione della cerimonia agì anche un certo «integralismo» conseguente all'applicazione eccessivamente zelante d'un frainteso spirito del Concilio; cosicché nei nostri paesi furono bollate come conseguenza di «paganesimo» e «superstizione» molte delle manifestazioni più autentiche della religiosità popolare.

8 maggio: San Michele ri maggiu

Si porta il simulacro al Santuario montano, dove rimarrà per i cinque mesi estivi. Questa, come tante feste religiose dell'area calabrolucana, è soggetta alla doppia cadenza celebrativa, all'inizio della buona stagione e all'inizio dell'inverno, comune ai culti misterici che commemoravano la morte e la risurrezione del dio o dea, ritualizzazione del ciclo produttivo dell'anno.

La processione parte dalla chiesa della Santissima Annunziata dopo la celebrazione della messa e giunta a una «cappellina» dov'è conservata una piccola statua del Santo, alla periferia meridionale del paese, sosta per consentire di adornare la statua grande degli ex voto, un ricco corredo di gioielli d'oro sette e ottocenteschi, e della bilancia d'oro, attributo, insieme con la spada, dell'Arcangelo. Poi il corteo inizia la salita al Monte, preceduto da una o più donne che reca in capo lu cindu, costruzione votiva di candele a forma di torre o di barca e da una macchina processionale che rappresenta un'imbarcazione, un «gózzo» tipico delle coste cilentane, portata a spalla per mezzo di due stanghe, ma che da questo momento sarà caricata su un autocarro, al cui albero è appoggiato un ragazzo sui dieci anni che indossa un costume «come San Michele», l'Àngilu.

Lungo il percorso si ferma alla cappella della Madonna di Costantinopoli e poi, piú solennemente, a quella della Madonna di Loreto dove l'Angelo recita tre invocazioni rituali al Santo insieme con l'offerta dell'incenso, sostituito nei momenti meno rilevanti dallo spadino dell'Angelo «il ferro», dei fiori e di un cero. Dopo l'ultima sosta, la banda che ha accompagnato la processione esegue l'ultimo inno e, mentre la statua preceduta solo dal «cinto» continua il cammino, gran parte della gente si ritira. Al Calvario si tiene la predica. Infine, giunti al Santuario, si consuma lo spuntino dei giorni di festa, che ognuno ha portato da casa e in cui non manca il dolce rituale salese di pasta lievitata, li cavàti fritti, al quale seguivano un tempo, oggi molto meno, le tarantelle al suono d'organetti o di zampogne. Il pomeriggio e la sera la gente che non ha potuto seguire tutto il percorso processionale si reca a «visitare» San Michele.

17 maggio: lu cindu

Il 29 aprile era cominciata la novena in onore di San Michele nella chiesa dell'Annunziata, come preparazione alla festa dell'8 maggio. Un tempo si recitavano, in ognuno dei nove giorni, preghiere diverse mentre attualmente la novena è ridotta alla semplice recita della preghiera finale con l'Oremus, dopo la celebrazione liturgica. La mattina del 9, di buon'ora, comincia invece la novena al Santuario, che ha termine il giorno 17. Il medesimo giorno alle nove, un tempo alle sette, parte dall'Annunziata la processione col «cinto» a torre, portato in capo da una donna e preceduto dalla Croce coi segni della Passione, tra i canti dei fedeli al suono della zampogna. Giunti al Calvario un tempo si recitava la Litania dei Santi, oggi invece sul Monte, dopo che il «cinto» è entrato in chiesa, si celebra un'altra messa dopo la quale anticamente si pronunciava l'«offerta» a San Michele. Al termine della messa, il «cinto» esce dalla chiesa e compie tre giri intorno a lu cappillínu, il nucleo piú antico del Santuario, aprendo una porta che solitamente rimane chiusa, la porta ri Màrsicu.

Al terzo giro si toglie dal «cinto» lu cirínu, un lungo spago intriso con la cera donata l'anno precedente, avvolto a matassa e poggiato davanti alla base della costruzione votiva, e lo si dispone intorno al «cappellino», sotto la grondaia in ganci di ferro battuto predisposti a tal fine, in triplice voluta. Originariamente veniva rimosso per chiedere la pioggia, riavvolto per «legare» le inclemenze meteoriche. Il vecchio «cerino» è tagliato in pezzi e distribuito tra i fedeli che se ne serviranno per tener lontane li mmali timbèsti. Sempre con l'accompagnamento del canto, la processione rientra in chiesa e si ripone il «cinto».

4 luglio: l'Apparizione

È la commemorazione dell'apparizione di San Michele sulla montagna della Balzata, la Vauzàta, nel 1213, secondo la leggenda popolare, ad un pastorello che comunicò la cosa ai compaesani increduli; secondo la versione piú diffusa, invece, fu lo stesso pastore a non credere al Santo. Per punizione verso la mancata obbedienza alla richiesta di San Michele di una chiesa sul luogo della sua manifestazione, i Salesi furono costretti a costruirla recando sulla montagna le pietre legate al collo, sul punto in cui fu rinvenuta l'immagine del Santo che ancora si conserva. All'interno della chiesa sono ancora conservate alcune pietre tagliate a blocco parallelepipedo con gancio metallico alla sommità, ex voto della pratica di ascendere al Santuario con quel fardello in collo.

Un tempo vigeva l'obbligo per ogni salese, o almeno un rappresentate di ogni famiglia, di recarsi in questa ricorrenza a far visita al Protettore sul Monte.

28, 29 e 30 settembre: San Michele ri sittiémbri

Nove giorni prima è iniziata la novena al Santuario alle sei del mattino. Tradizionalmente si svolgeva con questo orario per consentire poi di dedicarsi ai lavori della terra e al governo degli animali della stalla. Chi può vi si reca a piedi, qualcuno canta.

La sera del 28 si porta in processione la Barca con «l'Angelo», preceduta da una fiaccolata formata dai ragazzi del quartiere di Sant'Eustachio che inneggiano a San Michele, da un sonatore di organetto o di zampogna e da un trofeo di uva, pampini, foglie d'edera e altre primizie della terra " lu jardínu ri Sandu Michèli", altro chiaro riferimento al carattere ctònio del culto. Il percorso del corteo attraversa il paese partendo da qui e segue il giro inverso rispetto a quello che farà la processione del giorno successivo. Sosta davanti a ogni immagine di San Michele che incontra lungo il tragitto e l'Angelo recita le tre invocazioni rituali e offre simbolicamente i fiori, l'incenso o il «ferro» e il cero.

Sul sagrato della chiesa dell'Annunziata, dopo le invocazioni e l'offerta, la «Barca», che gli uomini recano a spalla, è presa a braccia e, tra gli incitamenti della folla le vengono fatte fare tre veloci oscillazioni avanti e indietro, forse a imitazione del movimento del mare, come spiegano i partecipanti al rito. In questo rituale è tuttavia da vedere un tentativo simbolico di sfondamento delle porte della chiesa che rimangono fermamente chiuse, in quanto alla processione non partecipa il clero locale, forse per antichi contrasti avendo la cerimonia vari riferimenti «pagani». E' pertanto solo 'laica', cioè voluta e condotta secondo il più autentico spirito popolare, legato alla tradizione. Presso la chiesa di Sant'Eustachio un tempo si «saliva» il palo della cuccagna, lu pàlïu, e si bruciavano il «Vecchio» e la «Vecchia», che rimandano al «sacrificio dello spirito del grano», due fantocci di carta colorata a cui erano uniti petardi, ulteriore connotato agricolo della festa. Per terminare la serata ci si reca, con un numero di partecipanti che s'assottiglia nel tempo, al Santuario, dove i devoti rimarranno per tutta la notte, tra preghiere e canti in onore del Santo, evocanti le sue prerogative e impetranti la sua «assistenza». Il mattino successivo la statua del Santo viene portata in paese, preceduta dai cindi e da ceri votivi, dai membri della Confraternita, col vessillo e lo stendardo, vestiti di cotta bianca lunga, mozzetta gialla, cappuccio bianco sulle spalle, fascia traversa verde, foderata di rosso e con lo stemma e il motto di San Michele ricamati pure in rosso, e medaglione in lamina sbalzata. Il priore reca il bastone sormontato dalle lettere SMA in ottone. Giunti davanti all'edicola di «San Michelicchio» all'ingresso del paese, l'immagine sacra viene rivestita di tutti gli ex voto d'oro. Seguono le invocazioni dell'Angelo, e la processione, a cui s'è aggregata la banda, si riavvia, con l'Angelo in testa al corteo, percorrendo la parte alta del paese. Ci si ferma davanti alla casa di chiunque debba fare un'offerta o sciogliere un voto: la statua è posata per la sosta su un tavolo addobbato con le tovaglie migliori, l'offerta un tempo era fissata con gli spilli a un nastro sospeso alla statua, ora riposta in un cassettino trasparente ai suoi piedi.

Nel cuore della Cívita verso Sant'Eustachio è stato preparato un primo jardínu o uórtu ri Sandu Michèli: un'impalcatura a due piani appoggiata al muro d'una casa e coperta di rami d'edera e di vite, fiori di campo e di montagna, uva e ortaggi. Quando la statua vi giunge, viene offerto al Santo, calandolo con una corda passante per una carrucola sospesa in alto sulla via, un grande grappolo, mentre altra uva è distribuita fra tutti i presenti. Altri «giardini» sono allestiti alle due estremità dello spiazzo adiacente alla chiesa di Sant'Eustachio, dove si svolgerà il «volo dell'Angelo», sacra rappresentazione legata non soltanto alle feste michaeliche, molto diffusa nel Cilento e presente in Basilicata, Campania e Molise. Lungo una robusta fune, tesa tra il balcone d'un'abitazione posta a un capo della piazza e un palo fissato all'altro di fianco alla chiesa, un fanciullo è fatto muovere, «volare» per tre volte, a circa otto metri dal suolo, sino al simulacro di San Michele. Ed ogni volta egli rivolge al Santo le solite invocazioni e presenta le rituali offerte, dopo essere stato calato dinanzi a Lui per mezzo d'una fune secondaria che scorre nella carrucola, in dialetto locale detta taròcciula, che muove l'Angelo. Alla fine sono offerti ancora una volta i frutti della terra al Protettore.

La processione continua sino alla Piazza principale, dove verso mezzogiorno e mezzo è celebrata all'aperto la solenne liturgia eucaristica con la presenza del Vescovo della Diocesi. Si assiste quindi ai fuochi d'artificio, li spari, che annunziano l'entrata di San Michele nella chiesa dell'Annunziata. Il giorno 30 il simulacro è talvolta portato processionalmente, in forma meno rituale e solenne con l'ausilio di autoveicoli, anche nelle campagne per la benedizione delle attività agricole, chiara innovazione sopravvenuta dopo il secondo Conflitto mondiale.

16 dicembre: San Michele ri lu Tirramòtu

Questa commemorazione riporta con singolare evidenza l'originaria connessione dell'Arcangelo con le forze irruenti del sottosuolo. Un tempo in questo giorno a sera si portava la statua del Santo attraverso le vie del paese in ricordo della sua protezione in occasione del terremoto del 16 dicembre 1857, che scosse l'intera Lucania, causando morti e distruzioni nei paesi circonvicini. Dopo il sisma del 23 novembre del 1980 è stata ripristinata l'antica devozione di celebrare una messa al Santuario la prima domenica d'ogni mese.

Testo: A.Tortorella (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

Storia del culto di San Michele

La figura di San Michele sin dall'inizio della diffusione del suo culto appare indissolubilmente connessa con spelonche e vertici montani. I tratti peculiari di San Michele provengono dall'Oriente in particolare dalla Frigia, dove San Michele era stato assimilato al giovane Attis, l'antico nume delle acque e dei misteri naturali, figlio di Cibele, la Grande Madre Terra. Anche Bisanzio è coinvolta a causa dei numerosissimi santuari sul Bòsforo votati al Santo e attribuiti all'età costantiniana.

L'aspetto piú schiettamente naturale ne fece il Protettore delle forze incontrollabili del suolo, come i terremoti, e dell'aria, come le pesti e i fulmini, e lo pose in un rapporto di contrasto e assimilazione col serpente, antico attributo di Attis e simbolo cristiano del Male da Lui sconfitto, facendo sí che le cavità sotterranee, naturale rifugio dei rettili, gli venissero dedicate in gran numero in tutto il mondo mediterraneo medievale di cultura greca, e fosse accostato pure agli eremiti, abitatori degli antri, che si affidavano al suo patrocinio e ne divulgavano la venerazione.

La seconda caratteristica michaelica, che lo vede Guerriero nell'iconografia e nei suoi interventi sulla terra, venne al Santo dall'essere stato posto a capo delle Milizie celesti e dall'essere ripetutamente apparso nelle narrazioni bibliche in vesti marziali - si ricordino alcune delle sue tradizionali manifestazioni come quella sul mausoleo d'Adriano a Roma in occasione dell'epidemia del 590.

Nel Gargano, che per lungo tempo era stato il centro religioso piú importante della parte occidentale dell'Impero bizantino, di cui aveva assorbito ogni spinta culturale e ogni manifestazione di pietà, San Michele fu agevolmente accolto anche in tale veste, e i Longobardi, che occuparono la regione àpula, che da esse venne chiamata Longobardía, compresero subioto che le virtù dell'Arcangelo si confacevano al carattere bellicoso della propria gente e ne avrebbero potuto rappresentare l'emblema nazionale, come se San michele fosse l'ipòstasi cristiana del dio Wotan.

Pertanto si configurarono in relazione con le diverse etníe le due modalità del culto: gli Orientali preferirono le prerogative ctònie, venerandolo negli antri, in contrapposizione alle cappelle erette dai Longobardi sulle alture e all'aspetto guerresco che questo popolo credeva di cogliere nello Spirito celeste.

Così avvenne probabilmente pure a Sala, dove la cavità di Sant'Angelo doveva aver subíto l'influsso dell'antichissimo luogo sacro della vicina Padula, le Grottélle, il quale era sorto forse già sotto il grande Costantino.

A Sala, prima che sulla montagna, San Michele fu onorato nella grotta ai confini con Padula, presso i villaggi medievali di Sant'Angelo e San Damiano. La spelonca col sovrapposto romitorio fu dipendenza del monastero cistercense di San Bernardo di Padula. La leggenda salese vuole la grotta di Sant'Angelo tuttora abitata da un enorme serpente, che si nasconderebbe nelle viscere più riposte del monte e, di quando in quando, si mostrerebbe per spaventare e tener lontani i visitatori, assalendo altresì le bestie che vi cerchino ricovero.

Alla temporanea presenza germanica nel territorio salese si può invece assegnare, intorno al VII secolo, la fondazione sul colle della Balzata ai piedi del monte Schiavo, di un singolare tempietto, impiantato sopra una finta caverna in rozza muratura a guisa di corridoio che chiudeva un lungo riparo sotto roccia, con volta a botte ribassata, la quale s'è conservata sino al presente nelle forme originarie, eretta in ricordo della dell'apparizione dell'Arcangelo al Monte di Puglia, simbolo di tutta la «rivelazione» michaelica nell'Occidente.

Gli ampliamenti settecenteschi conferirono al complesso monumentale l'aspetto che si può osservare al presente, col caratteristico colore rosso pompeiano, datogli affinché si possa scorgere con immediatezza dal paese. In essa è custodita l'immagine del Santo, probabilmente della fine del '500: essa è attraversata da una fenditura verticale per tutta la lunghezza, che la leggenda popolare dice causata dall'assunzione sopra sé stesso, da parte di San Michele, dei castighi divini destinati ai Salesi.

In concomitanza con l'allontanamento da Sala del presidio longobardo, il culto di San Michele perse importanza e soltanto uno sparuto corteo rimaneva a ricordare gli antichi pellegrinaggi dell'otto di maggio alla cappella montana e le solenni cerimonie un tempo offerte a San Michele.

Per veder risorgere la pia attenzione dei Salesi verso il Santo bisogna attendere il XVIII secolo, quando attraverso un falso, sedicente copia d'una memoria seicentesca della leggenda dell'apparizione e delle essudazioni della sacra immagine del Santo avvenute il 4 luglio del 1213, il culto tornò in auge.

Così a partire dal '700 la rinata devozione fu di giorno in giorno crescente, al punto che San Michele sostituì San Biagio, designato Protettore meno d'un secolo addietro. Si moltiplicarono le ricorrenze commemorative, a quella del 4 luglio nella cadenza dell'«apparizione», fu aggiunta quella del 29 settembre, desunta dal calendario romano, quelle del 3 maggio, giorno della Croce, e del 17 successivo, a compimento della novena celebrata al Monte.

L'intervento dell'Arcangelo in occasione del teremoto del 16 dicembre del 1857, infine, spinse i Salesi a ripristinare accanto alle doti di divino Guerriero, anche i remoti attributi di accompagnatore e giudice delle anime, di alfiere del Bene contro il Male e di protettore dei campi.

La devozione popolare salese dedicò al santo le simbologie ed i rituali piú disparati, come l'ormai perduta dendroforía (processione con gli alberi, particolare dei riti di Attis), la barca, e il «volo» dell'Angelo.


Foto: Archivi Fotografici, A. Arpea (1888, 1930, 1970, 2007, 2008, 2009) - A.Tortorella (1914)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

Leggi tutto...

San Michele Arcangelo a Rutino

SECONDA DOMENICA DI MAGGIO

La diffusione del culto dell'Arcangelo Michele si deve principalmente ai Longobardi originari delle valli inferiori dell'Elba, scesi in Italia nel 568, che, convertitisi al Cattolicesimo, lo adottarono in sostituzione del loro dio nordico Wotan.


 

Foto: L. Blasco, 1979
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

 

Leggi tutto...

San Michele Arcangelo a Sant'Angelo a Cancello

Leggi tutto...

Madonna dell'Arco a Sant'Anastasia

LUNEDI IN ALBIS

I devoti

Il Santuario della Madonna dell'Arco si trova a Santa Anastasia (Napoli). I devoti che vi giungono sono pellegrini vestiti di bianco, tutti si distinguono per una fascia azzurra che scende dalla spalla sinistra e si annoda sul fianco destro, ove s'incontra con il nodo della fascia rossa che avvolge la vita. La fascia azzurra presenta l'immagine della Madonna a mezzo busto, ma ricamata e sfavillante è quella dei dirigenti, come se volessero imitare le differenze gerarchiche vigenti nelle Corporazioni e negli Ordini. Si distinguono, questi devoti, per la Bandiera o Labaro o Stendardo, che definisce e comunica a tutti l'appartenenza. La faccia principale, ad un solo colore di fondo tra l'azzurro, il turchese e il bianco, ma anche il rosso, mostra un ricamo con l'immagine e l'epigrafe «Associazione Maria SS. Dell'Arco». Nella faccia posteriore si rinvengono i dati propri dell'Associazione, l'indirizzo e la data di fondazione o dell'esecuzione della bandiera esibita, per cui non è raro, oggi, doversi disbrigare in un affollato assieparsi di stendardi, moltiplicatisi irragionevolmente secondo un carattere personalistico imposto al gruppo e individuato nella segmentazione del quartiere d'origine. Fin'oggi, invece, l'aggregazione era esclusivamente associativa e il controllo religioso mirava ad una canonica partecipazione di principi e di manifestazioni. Le Associazioni riconosciute sono oltre 350, suddivise prevalentemente nelle cinque diocesi di Nola, Acerra, Pozzuoli, Aversa e Napoli. Poche associazioni conservano ancora il «Pennone», che ricorda un passato di fede e di speranza e indica la strada della religiosità comunitaria e solidale.

Come si chiamano questi devoti che hanno celebrato i quattrocento anni di vita? Li chiamano vattienti, coloro che battono ritmicamente i piedi in modo da essere sempre in movimento anche se non si spostano dalla loro posizione. Nel loro comportamento c'è una componente di cultura contadina. Tutti, però, li conoscono come i fuienti, coloro che non si abbandonano alla rassegnazione e corrono incontro alla speranza. Un voto fatto in stato di necessità li porta a percorrere a piedi i chilometri che separano la loro casa dal santuario. Possono essere pochi se si abita nella parte orientale di Napoli, ma tanti, anche più decine, se il pellegrinaggio s'inizia a Pozzuoli. Alternano tratti di strada correndo ed altri camminando, senza mai fermarsi.

Si va a Madonna dell'Arco come membro di un'associazione o solo per esaudire un voto fatto. Allora, si susseguono gruppi sparsi, per lo più famiglie intere, che non ripetono riti codificati. Il loro è il pellegrinaggio originario. Sono questi i casi più toccanti, sprizzano stanchezza da tutti i pori, con i piedi sanguinanti ed un bambino cavalcioni sulle spalle del padre o tra le braccia della madre se lattante. Situazioni di disagio indicibile. Sono quelli che arriveranno solo finchè le forze li reggeranno, renderanno omaggio alla Madonna per dire un grazie e lasceranno l'ex voto di un anonimo che ha goduto momenti di felicità. Più spesso, però, quel cruento pellegrinaggio si concluderà in una lacrimevole preghiera, ultima àncora che precede la disperazione. Se ti capita di assistere ad uno svenimento, non ti rifugi in disquisizioni dotte, ti chiedi come mai quegli esseri fragili siano riusciti a varcare la soglia del santuario senza subire molto prima uno shock nervoso.

Le associazioni

Indubbiamente, quello che s'impone anche alla vista e che viene ricercato come complesso rituale da una piccola folla di paesani lungo il cammino programmato, è il fenomeno associativo. Ogni gruppo è costituito essenzialmente da un numero imprecisato di persone: bambini-bambine, donne e uomini. Il numero complessivo determina la distinzione delle fasce di età. I dirigenti occupano gli ultimi posti del corteo, facendo bella mostra dei ricami. Il segno distintivo dell'Associazione è lo Stendardo, a cominciare dal primo, ostentato con orgoglio perchè più decorato e più antico. Qualche vecchia Associazione sfoggia pure il pennone, la lunga bandiera triangolare ricca di sei-otto cordoni colorati con fiocchi, retti da altrettante ragazze. Si va diffondendo la presenza di labari sorretti da bambini e ragazzi, con un carattere fortemente familiare. Molti gruppi realizzano in cartapesta una immagine della Madonna dell'Arco, qualcuno addirittura un carro votivo oppure un baldacchino, chiamato in gergo 'o tusell. Nei decenni scorsi, in verità, erano più numerosi e molto belli. Una calorosa approvazione del popolo si manifestava al loro passaggio. Presso l'edicola della propria sede, s'inizia il lungo pellegrinaggio con una sequenza teatrante e coreografica che nel tempo ha accentuato elementi protettivi riconducibili a rapporti sociali più che divini, come sembravano nei decenni precedenti.

L'intero rito viene detto 'A funzion, che si ripeterà più volte lungo il percorso, costituendo tappe concordate prima di giungere al Santuario. È una manifestazione danzante, benedicente che contempla la partecipazione attiva di tutte le bandiere del gruppo. Strettamente abbracciati per le diverse fasce di età, bambini e adulti che incedono incontro alla bandiera e poi si ritraggono per permettere ad altri di reiterare i movimenti ed i sentimenti. Una bandiera, che spesso è un trofeo storico, testimone di una devozione a lungo coltivata va a lambire benedicente i fujenti proni, in un movimento costante prodotto dallo sbandieratore che compie un vortice di braccia mentre la lunga asta è infoderata in un sospensorio di cuoio legato ai fianchi e sospeso sul basso ventre. Segue la corsa finale di un gruppetto di fuienti, 'a caduta, e l'abbandono nel nulla, che nella nostra società ha significato nell'ultimo cinquantennio anche la possibilità di sfracellarsi contro i marciapiedi di lava vesuviana o sui basoli o sul più moderno asfalto. Su tutti questi devoti, diversamente posizionati, passa il Carro o il Tosello con l'Immagine beneaugurante di Maria. Questa fase la chiamano 'o trase e iesce, caratterizzato da un particolare incedere avanti veloce e indietro lentamente ondulante, ripetuto per tre volte. È una sorta di danza rituale sostenuta, anzi ritmata, dalla banda musicale che alterna le note di Noi vogliam Dio e la Canzone del Piave di E. A. Mario, pseudonimo del Maestro Gaeta.

Questa ritualità, ripetuta più volte durante il percorso, assume una forma più solenne all'ingresso del Santuario, con un moltiplicarsi dei tempi per ciascun gruppo e per un conseguente maggior disagio per chi era in attesa. Da qualche anno si ripete il tentativo di contingentare un tempo indispensabile e velocizzare l'accesso perchè la marea di persone è veramente enorme. Non è detto che tutti reggano al ritmo forsennato ed allo scoppio di emozioni e di stati ansiosi. Ricordo che negli anni '50 noi bambini, a Cercola, eravamo muniti di bottigliette di aceto, una sorta di Protezione Civile ante litteram, organizzata al solo scopo di sostenere e di far rinvenire gli svenuti. Era una forma di partecipazione attiva per la prontezza e per l'efficacia dell'intervento. A Madonna dell'Arco, invece, il fenomeno s'ingigantisce oltremodo ed opera un vero centro di Pronto Soccorso, una organizzazione assistenziale, un vero ospedale da campo per assistere le migliaia di devoti o diversamente devoti che ogni lunedì di Pasqua invadono il Santuario.

Testo: G. Mancini (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

Storia

Nei secoli XV-XVI, ai numerosi viandanti che percorrevano la via sommese, l'antica strada acciottolata che da Napoli conduceva a Somma Vesuviana, si apriva un cammino agreste, paradisiaco se non ci s'imbatteva nella violenza della natura o nella ferocia dei briganti. Quotidianamente era percorsa da contadini e da mercanti, ma non mancava occasione che nobili presenze di aristocratici o di ecclesiastici altolocati ravvivassero la fantasia dei popolani. Da quando a Napoli regnavano gli Angioini, capitava di ammirare anche qualche testa regale diretta alla vicina Somma. Solo poche centinaia di metri distanziavano il villaggio di Gennazzo, dell'Universitas di Trocchia, dove si potevano rifocillare presso la taverna dell'Jnnazzo e, poi, raggiungere Arco, appena alle porte dell'Universitas di Santo Nastaso, oggi detta Sant'Anastasia. Forse, non c'era neppure una cappellina al villaggio, forse non era neppure un villaggio Arco, ma solo un rudere che testimoniava una più antica gloria, una sorta di acquedotto tra la montagna del Somma ed Arcora, l'odierna Pomigliano d'Arco, sopra una stradina che permetteva di raggiungere masserie incastonate nella campagna. Questa via architettonica giuocava intersecandosi o accompagnandosi con altre due vie d'acqua, famose, sotterranee, che hanno sostanziato per oltre un millennio la gloria di Napoli, il fiume Sebeto: la sorgente di Santa Maria del Pozzo a Somma e la Preziosa, ove più antiche vestigia attestavano il lavoro sudato dei coloni e la preghiera salmodiante dei figli di S. Benedetto.

All'incrocio, forse, della via sommese con le altre strade di comunicazione, su un muro di confine, tra il XIV ed il XV secolo, una mano devota aveva affrescato l'immagine di Maria e del Bambino, dando inizio ad un incessante dialogo di affetto alla Madonna e di sicurezza per i viandanti. Era un'edicola votiva, come tante altre nel vesuviano, che sostenta una certezza nel trascorrere del tempo. Chi l'aveva dipinta così bella e così popolare? Nessuno lo potrà mai dire, anche se si registra qualche attribuzione riferibile ad un successivo restauro commissionato a Bernardo Tesauro. Si potrà raccontare con fondatezza, invece, che all'inizio del XVI secolo, cioè pochi decenni dopo l'avvenimento che segnò la storia di questi luoghi, il culto alla Madonna dell'Arco era diffuso oltre ogni aspettativa. L'edicola sorta per devoti viandanti locali divenne un culto esportato non solo nell'hinterland napoletano, ma anche oltre. Sull'antica chiesa di S. Simplicio in Panicocoli, l'odierna Villaricca, ne fu costruita una nuova, dedicata alla Madonna dell'Arco, già nel 1513. Altrettanto antiche appaiono le chiese di Miano e Melito, anch'esse a nord di Napoli, nelle quali era vivo lo stesso culto. Lo attestano gli Atti della S. Visita del Cardinale Francesco Carafa, del 1542. Oltre i confini di Napoli, sebbene fosse all'interno del Regno, nel 1520 è attestata una chiesa consacrata alla Madonna dell'Arco nell'Universitas di Mangone, presso Cosenza.

L'evento

Che cosa avvenne, dunque, di tanto eclatante da trasformare una devozione locale in un culto diffuso? Intorno al 1450, nella località Arco, che doveva essere amena e spaziosa, si poteva organizzare facilmente un raduno di paesani per divertirsi e per sfidarsi in vario modo. Proprio nei pressi dell'edicola muraria i giovani presenti si suddivisero per giocare una partita di palla a maglio a stravare, in cui oltre all'abilità del giocatore si richiedevano due elementi, una palla o una pietra ed un bastone. Forse, era il secondo giorno di Pasqua di Resurrettione. Come sempre accade in ogni sfida, ne risultò un vincente ed un perdente, il quale scaricò la sua bile sull'immagine della Madonna dell'Arco lanciandoLe contro la palla o, più propriamente, una pietra. Una ferita si aprì sul suo zigomo sinistro dal quale fuoriuscì abbondante sangue. Tutti i presenti gridarono al Miracolo ed al giovane blasfemo di Nola toccò in sorte l'impiccagione ad uno sfortunato tiglio, immediatamente seccatosi perchè reo di aver sostenuto il cappio.

È un avvenimento storico? È una storicizzazione devozionale? La risposta verrà dettata dalle proprie convinzioni, storiche o religiose o scientifiche. La pietra, o la variante 'palla', è un segno ricorrente in molteplici manifestazioni religiose e fu, appunto, quel 'miracolo' a segnare la nascita del fenomeno storico della festa di Madonna dell'Arco, che oggi raccoglie centinaia di migliaia di devoti il lunedì in albis di ciascun anno. S'iniziò, allora, una devozione determinante dal punto di vista umano, sociologico e religioso. All'indomani dell'evento, oltre ad una stanzetta per abitazione di un eremita che curasse la nuova devozione, fu decisa la costruzione di una cappella per raccogliere gli accresciuti devoti. Poi, il romitaggio fu trasformato in beneficio curiale assegnato ad un cappellano dal Vescovo di Nola. Così la burocratizzazione del culto divenne occasione di litigi, reiterati fino alla fine del secolo XVI tra la Municipalità di Sant'Anastasia e la Diocesi di Nola. Maxima devotio habetur... maximo concursu personarum, la devozione raccoglieva oramai una moltitudine di persone, affermava il vescovo di Nola Mons. Antonio Spinola, già il 20 aprile 1580.

Miracolo dei piedi

Un nuovo miracolo scosse la comunità dei devoti. Durante le festività pasquali del 1589, Aurelia Del Prete (Auleria delo Preite) accompagnò il marito Marco Cennamo (Marco de Centamo), gravemente sofferente agli occhi, per offrire alla Madonna dell'Arco un ex voto di cera. La donna s'incamminò più svelta, accompagnandosi con un porcellino che si disperse nel trambusto della folla. La tensione divenne esplosiva quando, finalmente, il marito la raggiunse alla porta della cappella. All'hora la donna diabolica, o fusse perchè vidde il marito, che contro sua voglia l'havea mandata a portare il voto, o pure per conto dell'animale, che tanto l'havea fatta cercare, ripiena di sdegno e di furore infernale prende il voto di cera, lo sbatte in terra, lo calpestra con li piedi bestemmiando e maledicendo la Madonna santissima dell'Arco., chi l'haveva depinta, chi ci veniva e chi l'adorava... Il marito la rimproverò con determinazione, prospettandole una giusta punizione. L'anno successivo, la notte tra la domenica di Pasqua ed il lunedì in albis del 1590, Aurelia del Prete, già da lungo tempo sofferente e allettata li cascorno in tronco li piedi, senza dolore e senza sangue, anzi senza che lei se ne accorgesse, uno in tutto et per tutto, restando l'altro attaccato con un picciol nervicino et del resto tutto staccato

Questa descrizione del miracolo è del Domenici, raccolta dalle testimonianze dirette. Anzi l'autore descrive il tentativo di seppellire questi piedi caduti che ritrovarono la pace solo quando vennero esposti nella cappella acciò da tutti più facilmente potessero esser visti. La donna infelice, e colpita dalla punizione divina, morì pentita pochi mesi dopo. Il miracolo ora raccontato si presta ad una serie indefinita di ipotesi chiarificatrici. È opportuno, per la pochezza dello spazio disponibile, lasciare alla sensibilità individuale un giudizio sull'accaduto. È certo, comunque, che l'evento fu determinante per rivitalizzare la devozione, centuplicando l'afflusso dei fedeli e la consistenza delle offerte. S'iniziarono, allora, i dissensi tra il vescovo di Nola Fabrizio Gallo e la Municipalità di S. Anastasia. Ambedue le autorità usarono mezzi utili ad affermare la propria supremazia. Appena a maggio 1590, il vescovo decretò la chiusura della cappella, riaperta poco dopo, ed istruì un processo canonico sull'ipotizzato miracolo di Aurelia del Prete. Lo scrittore Pietro Rosella attesta la serie degli atti processuali, poi scomparsi.

Ex-voto

Quello degli ex-voto non è un fenomeno esclusivo di questa devozione e neppure del solo ambito cristiano cattolico. Tutte le civiltà manifestano un patrimonio segnico. Gli ex voto di Madonna dell'Arco compaiono fin dalla nascita del culto. Tra quelli giunti fino a noi il più antico è probabilmente datato 1499. Due considerazioni sono doverose: la prima rimanda alla costruzione della Cappella primitiva, avvenuta poco dopo l'evento, quant'anche esso fosse destituito di ogni fondamento storico; la seconda ritiene molto plausibile che tra gli ex-voto andati perduti certamente debbano annoverarsi i più antichi.

Il Santuario è ricco di una collezione di oltre 8000 esemplari, così suddivisi: 688 del XVI secolo, di cui 542 presentano un dipinto su tavoletta di pioppo o di noce e 146 su carta incollata su legno; nel secolo XVII fu adoperato legno di castagno o di ulivo e per i dipinti su carta il supporto spesso era di abete. Nello stesso tempo s'iniziò ad usare la tela, che si dimostrerà il supporto più diffuso nel secolo successivo. Nel XVIII secolo, infatti, dei 937 ex voto, ben 848 sono dipinti su tela; negli ultimi due secoli, infine, oltre alla tela sono stati usati materiali multiformi, prodotti dell'odierna tecnologia. Due elementi sono ricorrenti nell'iconografia della Madonna dell'Arco: le lettere puntate V. F. G. A. Votum feci Gratiam accepi e l'anno di grazia 1521 o 1593 o 1598 ecc. Solo su alcune tavolette è riportata la motivazione che ha determinato l'atto di devozione.

Gli ex voto, dunque, costituiscono una prova storica di notevole importanza, anche se il loro valore spazia in molteplici ambiti, come quello della pittura, dell'antropologia, della religiosità popolare, degli usi e costumi vesuviani. La loro organizzazione tematica permette di raggiungere un'analisi statistica di grande rilevanza.


Foto: A. Rossi, 1960
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: V. Contino, 1970
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: A. Rossi e L. Mazzacane, 1974
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: P. Ciambelli, 1980 - Funzioni per la Madonna dell'Arco
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

Leggi tutto...

Madonna Assunta a Guardia Sanframondi

Dal lunedì successivo la festività dell'Assunta, il 15 agosto

Ogni sette anni si svolgono a Guardia Sanframondi, in provincia di Benevento, i riti di penitenza: i cortei processionali si snodano per le strade del paese per un'intera settimana secondo un ordine stabilito.


 

Foto: L. Mazzacane, 1968
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: M. Russo, 1975
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

Leggi tutto...

Madonna del Carmine detta delle Galline a Pagani

Madonna delle Galline - venerdi sabato domenica e lunedi in albis

Pagani

Pagani (Salerno) è una cittadina dell'agro nocerino-sarnese, sviluppatasi lungo l'antica strada consolare che da Napoli conduceva a Salerno e alle Calabrie. La sua origine va ricercata nell'ambito territoriale e storico della più antica e famosa Nuceria, centro che raccoglie chiare vestigia a partire dagli Etruschi fino all'Unità d'Italia e che testimonia una notevole vivacità civile e religiosa, con i suoi palazzi maestosi, i suoi conventi e le sue chiese.

Nel XVIII secolo assunse la denominazione di 'Nuceria Paganorum' per la supremazia dei Cavalieri PAGANO che ottennero il territorio in feudo. La popolazione era costituita da contadini impegnati a coltivare le terre dei vari feudatari o dei molti signorotti. Nei secoli la popolazione che aumentava divenne più solidale. Le case furono costruite a modo di corte, ove divenne una consuetudine l'agire insieme. Pagani preserva ancora dei cortili dove la comunità residente verosimilmente ripete antichi comportamenti quotidiani. Forse nel Medioevo la comunità di Pagani si costruì una piccola chiesa, sufficiente a raccogliere i fedeli esistenti sul territorio. Quella prima chiesetta, forse anteriore al XIV secolo, fu intitolata Annunziatella. Nel XVII secolo, come testimonia un bassorilievo della Madonna del Carmelo sul quale è riportata la data "1621", fu eretta la chiesa di S. Maria del Carmine. La cappella fu chiamata comunemente Spogliaturo, uno spazio riservato ai confratelli che si cambiavano d'abito per il rito funebre e per tutte le processioni alle quali partecipavano come Opere Pie.

La Chiesa divenne nel tempo sempre più solenne ed accogliente e fu dotata di un soffitto a cassettoni, restaurato nel 1856 per l'iperbolica cifra di 2652 ducati. L'ultimo atto di solenne riconoscimento religioso si è prodotto nel 1954 quando la Chiesa è stata elevata a Santuario Mariano.

Il ritrovamento miracoloso

La leggenda narra di una frotta di galline raspanti che riportò alla luce una Tavola con il volto della Vergine. Il ritrovamento fu immediatamente interpretato come manifestazione divina e ne seguì la decisione di creare un appropriato luogo di culto, che si sarebbe evoluto successivamente nell'attuale chiesa santuario. La tavola, probabilmente portata da monaci sfuggiti dall'Oriente nell'VIII-IX secolo per sottrarre le sacre immagini alla distruzione iconoclasta, poi, si sarebbe rovinata ed avrebbe determinato l'incarico ad un artista di riprodurre la tela seicentesca, ufficialmente accolta con un segno miracoloso e venerata oramai da quattro secoli.

La festa delle galline

La festa si svolge intorno alla Domenica in Albis perchè la tradizione ha fissato in quei giorni l'evento miracoloso del rinvenimento. La processione si snoda lungo tutto il paese, fino alle masserie circostanti. Il riferimento assoluto è la statua della Vergine portata trionfalmente in processione: è una presenza che si fa itinerante, che accoglie tutte le lacrime e le afflizioni, ma principalmente è una presenza generosa nel dispensare intercessioni e favori.

Il gesto del popolo, il dono delle galline, è ricco di valori: simboleggia l'affidamento del proprio mondo al sovraterreno, è un tentativo di sublimazione dell'umano nel divino. Siano colombe o tacchini, pavoni o gallinelle, è un mondo non estraneo all'uomo, è la popolazione di un'aia o di una masseria dove la vitalità è multiforme. All'offerta delle galline si acompagna quella di dolci o di torte rustiche che costituivano un tempo il cibo ricco dei contadini, i "tortani", una pasta lavorata da mani esperte, infarcita di salame - prodotto con la carne dei maiali cresciuti nell'aia o nei cortili - in forma circolare, dominata dalle onnipresenti uova.

Ecco alcuni dei doni offerti alla Vergine delle galline, che passa a rassegna le strade, i vicoli, i cortili e le masserie di Pagani con il suo bel codazzo di gallinacei che godono dell'ammirazione di tutti standosene appollaiati sul capo, sulle braccia, ai piedi della Vergine, noncuranti del vocio, della musica e dei botti, che appesantiscono l'aria.

Lungo il percorso della processione i devoti impegnano la loro fantasia a creare i "Tosel", angoli votivi impreziositi da coperte di raso e da merletti che incastonano stampe dell'immagine della Madonna delle galline. Nei cortili, dove il maggior spazio permette la realizzazione di un "Tosel" più vistoso, trovano posto anche la statuetta della Vergine e stampi di gallinacei in terracotta, figure votive di sapore arcaico.

La caratteristica più importante che avvolge l'intera festa è la "tammurriata", una forsennata musica popolare che scoppia il Venerdì in albis, accompagna la popolazione per l'intera giornata della Domenica e si conclude all'alba del lunedì successivo, quando il popolo dei danzatori va a deporre ai piedi della Madonna le "Tammorre" impazzite durante la festa. La "tammorra" è un tamburello che sprigiona suoni determinati dall'impatto della palma della mano e dalle dita. Il ritmo della "tammurriata" è determinato anche da un secondo strumento, strettamente in sintonia con la tammorra. Si tratta delle "castagnette", nacchere nostrane, due coppie di legno fissate al medio delle due mani producono un suono netto, squillante che accompagna quello più cupo, assordante della tammorra.

La "tammurriata" determina l'inizio delle celebrazioni, accompagna il popolo in festa durante l'intera domenica e raccoglie i danzatori oltre la festa fino a suggellarla definitivamente. Passata la processione della Vergine delle galline, si creano i "cerchi" dove i "tammurriatori", una o più coppie e la gente presente danno vita liberamente alla "tammurriata". La "tammurriata" è una musica che sprigiona il bisogno di libertà, è libertà. È la celebrazione dell'entusiasmo liberato, della felicità agognata che, sebbene momentanea, è vissuta con intensità atemporale. È l'esplosione della vitalità, il raggiungimento di una condizione di libertà radicale che riscopre la propria natura compressa da regole e da limitazioni sociali.

Teologicamente, anche attraverso i segni materialmente prescelti degli animali e delle uova, si proclama l'evento della Resurrezione come conclusione di un ciclo che si chiude. La festa non poteva celebrarsi in un periodo più consono.

Testo: G. Mancini (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione


Foto: V. Contino, 1970
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: A. Rossi, 1970
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: E. Silvestrini
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

Leggi tutto...

Sant'Antonio Abate a Macerata Campania

Battuglia di Pastellessa

15-16-17 GENNAIO

La festa

Sant'Antonio Abate (Sant'Antuono) a Macerata Campania viene celebrato, secondo la liturgia, il 17 gennaio, il 16 gennaio ha luogo la benedizione del fuoco e degli animali. I festeggiamenti iniziano nei giorni precedenti e sono caratterizzati dalla sfilata delle "Battuglie di Pastellessa" (il 15, il 16 e il 17 gennaio), ovvero dei "Carri di Sant'Antuono", sui cui trovano alloggio i cosiddetti "Bottari", i quali ripropongono l'antica sonorità maceratese dall'omonimo nome la "Pastellessa" (o "Pastellesse"). 'A Past'e'llessa è la pasta con le castagne lesse che viene preparata in questa occasione.

La particolarità che accompagna i bottari è legata alla tipologia di strumenti utilizzati nella messa in opera dei brani musicali. Infatti, i classici strumenti sono sostituiti con botti, tini e falci, che sotto una nuova veste di natura musicale creano quel particolare suono chiamato pastellessa. Per la sfilata vengono allestiti oltre 15 carri (17 nel 2011), ovvero le "Battuglie di Pastellessa", di una lunghezza media di 16 metri e larghezza e altezza di 3.50 metri, su cui trovano alloggio dai 40 ai 50 bottari. Nel corso della sfilata gli oltre 800 bottari partecipanti ripropongono i particolari modelli ritmici della pastellessa, accompagnati dai canti tipici di Terra di Lavoro.

La preparazione dei carri, come quella dei canti da intonare nel corso della festa dura circa 2 mesi, partendo dal mese di novembre antecedente l'evento. Oltre agli 800 bottari presenti sui carri vi è il coinvolgimento di circa 200 persone dedite alla preparazione e al coordinamento delle attività, che prevedono anche la riffa, giochi tradizionali (corsa della botte, tiro della fune, palo di sapone) e fuochi pirotecnici "figurati".

I fuochi pirotecnici "figurati" comprendono la presenza di un'immagine femminile (la signora), di un animale domestico (il porco), di un animale da tiro (il ciuccio) e di un attrezzo da lavoro (la scala). I fuochi vengono fatti esplodere a mezzogiorno del 17 gennaio, nella piazza principale di Macerata Campania. I festeggiamenti si chiudono con la vendita all'asta di tutti i beni in natura raccolti durante la processione del Santo, oppure offerti in precedenza dai fedeli.

La festa è organizzata dalla locale Associazione "Sant'Antuono & le Battuglie di Pastellessa".

Origini della Pastellessa

Comunemente si fa risalire la festa di Sant'Antuono a Macerata Campania al XIII secolo. In quel tempo il paese si presentava come una comunità prevalentemente agricola e artigianale, dove il lavoro dei campi richiedeva l'uso di una ricca gamma di attrezzi e strumenti che venivano fabbricati dagli artigiani locali. Costoro, durante le tradizionali fiere agricole, per evidenziare la solidità degli attrezzi da un lato e per attirare l'attenzione dei passanti dall'altro, percuotevano con magli le botti, con mazze i tini e con ferri le falci, creando una commistione di suoni che scoordinati e asincroni apparivano persino assordanti, ma che con i voluti o forse fortuiti miglioramenti ritmici, portarono alla creazione di quelle peculiarità sonore che ancora oggi caratterizzano la Pastellessa.

Si ipotizza che la Pastellessa sia nata come rituale per "scacciare il male": si racconta di contadini che percuotevano freneticamente botti, tini e falci nel tentativo di scacciare gli spiriti maligni dagli angoli bui delle loro cantine, rituale che, ripetuto all'aperto, rappresentava un aiuto propiziatorio per il buon raccolto. La tradizione sarebbe confluita nella festa religiosa in onore di Sant'Antonio Abate, patrono degli animali e protettore dalle avversità del fuoco.

Ritroviamo delle tracce documentate nel catasto onciario di Macerata del 1754 dove accanto ai numerosi braccianti e «fatigatori della terra» vi era una larga schiera di galessieri, vaticali, ferrari, maniscalchi, bottari, manesi, tutti specializzati nella produzione di traini, botti, tini, falci e altri strumenti e arnesi che, combinati sui carri, segnano lo strumentario delle Battuglie di Pastellessa.

Nel 1766 il re del Regno delle Due Sicilie, Ferdinando IV, diede concessione al parroco locale don Gonsalvo Peccerillo di ossequiare una questua nella parrocchia al fine di celebrare la festa di Sant'Antonio Abate. Ancora i documenti offrono delle testimonianze su questa festa. In un bilancio predisposto dall'Università di Macerata per l'anno contabile 1791-1792 vi è stanziata la somma di 20 ducati necessari per le feste del Santo Protettore S. Martino e per la festività di «S. Antuono Abbate» segno delle lontani origini della festa.

Macerata Campania

Macerata Campania è un comune della provincia di Caserta, nella bassa valle del Volturno, a sud di quest'ultimo e a nord dei Regi Lagni, nella vasta pianura campana, chiusa a nord est dalla catena dei Monti Tifatini, nei pressi del Lagno Gorgone, del Lagno Vecchio e del Lagno di Sant'Andrea. Comprende le frazioni di Caturano e Casalba e confina con: Casagiove, Casapulla, Curti, Marcianise, Portico di Caserta, Recale e S. Maria Capua Vetere.

La sua storia è legata, per le origini, con quella della antica Capua, corrispondente all'attuale S. Maria Capua Vetere, essendo stato casale di quest'ultima per lunghissimi secoli, fino allo anno 841 d.C. (anno dell'invasione dei saraceni, che distrussero Capua antica). Di qui la storia di una popolazione che fu dominata da longobardi, normanni, svevi, angioini e aragonesi.

L'economia del comune si fonda essenzialmente sull'agricoltura (tabacco, ortofrutta, allevamenti bufalini), anche se nell'ultimo trentennio sono cresciute le attività secondarie a livello artigianale. Nel 2009 il numero dei residenti è arrivato a quota 10.843 abitanti.

Testo: V. Capuano. Adattamento a cura della Redazione

Leggi tutto...

Settimana Santa a Sessa Aurunca

MARTEDI SANTO

La mattina del martedì santo incominciano a muoversi in processione gli incappucciati dell'Arciconfraternita del SS. Crocifisso e Monte dei Morti, partendo dalla Chiesa Francescana di San Giovanni a Villa. Questi congregati sono caratterizzati dal saio e dal cappuccio entrambi neri e dalla mancanza della mozzetta, inutile in quanto il cappuccio è molto lungo. Sullo stesso cappuccio spicca uno stemma che rievoca la crocifissione.


 

Foto: M. Marcotulli (6 aprile 2004) - Martedi Santo: processione dell'Arciconfraternita del SS. Crocifisso e Monte dei morti al canto del Miserere
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

 

Leggi tutto...
Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
Amministrazione
trasparente

banner amm tra small

Geoportale della
Cultura Alimentare
geoportale
logomucivexportsmall

facebook    twitter

Seguici su
facebook   twitter
Insta   youtube