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Articoli filtrati per data: Aprile 2014

Maggio a Fossalto

Pagliara

1 MAGGIO

Il Maggio e la Pagliara

La Pagliara maje maje viene attualmente organizzata, il primo giorno di maggio, dalla Pro-Loco intitolata a Eugenio Cirese, poeta e studioso nativo di Fossalto (Campobasso). Nel 1955 Alberto Cirese, figlio del poeta, così descrive gli aspetti distintivi di questa tradizione: «La pagliara maie maie di Fossalto, dal punto di vista della morfologia estrinseca della simbolizzazione, si inserisce nella serie delle personificazioni del "maggio". È diversa cioè da quegli alberi o rami di maggio, tanto diffusi anche in Italia, ed ai quali appunto in Italia, come anche altrove, viene dato il nome di "maio". Ed è contemporaneamente diversa da altre personificazioni, anch'esse note in Italia, che sono dette "reginette" o "contesse" o "contessine" di maggio. È una personificazione coi suoi caratteri specifici, in parte analoghi a quelli che Arnold Van Gennep riconosceva al feuillu di certe zone della Francia».

Alberto M. Cirese sottolinea l'impressione di autenticità avuta durante l'osservazione dell'evento, in quegli anni, ed è interessante riportare le sue parole, che ci riconducono ad alcune questioni del presente, relative ai perduti caratteri di autenticità di alcune feste: «C'è una diffusa giocondità, e risa e gridi e strilli, ma tutto vien fatto con immediata spontaneità: non desiderio forzato di divertirsi, o spettacolo a beneficio del turista, o riesumazione artificiosa di tipo dopolavoristico; sì invece una cerimonia che si fa perché si è sempre fatta, e mancherebbe qualcosa se non si facesse; si fa perché è costume, perché piace, perché appare necessaria, o per qualunque altra ragione, ma non certo per ragioni estranee alla cerimonia stessa».

Oggi ci si interroga ampiamente sulle "ragioni estranee alla cerimonia" o, in generale, sulle ragioni delle cerimonie tuttora osservabili, e il "perché è costume" sembra apparire una spiegazione valida, almeno se si tiene conto che è il motivo più frequentemente addotto dai protagonisti stessi. Naturalmente queste considerazioni non sono applicabili a tutti i contesti, poiché in alcuni casi è prevalente la funzione di attrarre il turismo, riesumando o addirittura inventando le tradizioni, con la sollecitazione rischiosa di spinte dall'alto, cioè provenienti da ambiti estranei al vissuto locale. Attualmente la festa di Fossalto è un'occasione per rivivere collettivamente la propria tradizione, con un ampio coinvolgimento di bambini in costume, che accompagnano i personaggi principali: la Pagliara, lo zampognaro e il cantore.

Preparazione e corteo

Il 30 aprile si raccolgono i fiori e gli altri elementi vegetali necessari per l'addobbo, che viene completato nella tarda serata, per favorire il mantenimento della freschezza. La raccolta avviene nei campi, e nei giardini con il consenso dei proprietari, quando sono presenti. Si prepara inoltre la zuppa da distribuire il giorno successivo, composta da legumi che devono essere ammorbiditi e cotti separatamente. Il telaio è costituito prevalentemente da una leggera rete metallica adattata in forma conica. Sulla sommità è collocata una croce.

La mattina del primo maggio, la Pagliara, ormai pronta e in attesa di prendere vita, viene benedetta dal parroco, alla presenza dei bambini che sfileranno nel corteo. Una volta avvenuta la personificazione, attraverso un giovane che la indossa e la anima, si comincia ad annunciare l'arrivo del Maggio per le vie del paese. La Pagliara è accolta da consistenti getti d'acqua, versati dalle case in segno d'augurio, e le tracce di queste piogge improvvise segnano tutto il suo percorso. "Grascia, maie!" è il grido propiziatore d'abbondanza, che dovrebbe accompagnare questi getti. Dalla fessura, lasciata per consentire la visibilità, emerge a tratti il volto del portatore, sorridente ma un po' affaticato. Come accade in situazioni analoghe, c'è sempre qualcuno che lo affianca, per facilitargli il cammino.

Rispetto ad altre rappresentazioni del Maggio, la personificazione ha un fascino maggiore, esprimendo una sorta di immedesimazione tra uomo e natura che rievoca immagini arcaiche. Il risveglio primaverile risulta efficacemente interpretato in questo mascheramento rigoglioso, che tanto contrasta con gli aspetti cupi di certe figure carnevalesche, come l'Uomo Cervo di Castelnuovo al Volturno o il Diavolo di Tufara: è il ritorno della vita contrapposto alle tenebre dell'inverno, il passaggio, dal fuoco che brucia e purifica, all'acqua fecondatrice. La Pagliara è lo spirito risorto dal rogo del carnevale, la testimonianza dell'efficacia del sacrificio, anche se non è disgiunta da aspetti sacrificali, in quanto costituita da elementi sottratti alla natura.

Il canto di questua

Nel Maggio di Fossalto un aspetto importante è costituito dal canto di questua, affine ad altri canti eseguiti in occasioni simili: «[...] il testo non solo è pressoché identico in tutte le località molisane, anche là dove in luogo della pagliara è in uso l'albero o il ramo, ma non differisce di molto da canti di questua per il maggio in uso in località non molisane. In altre parole l'area di diffusione del testo letterario è assai più vasta dell'area di diffusione della pagliara. Il che significa che il canto preesisteva alla introduzione della simbolizzazione pagliara, così come preesistevano le cerimonie di celebrazione del primo giorno di maggio. Il nuovo apporto, se tale fu, degli immigrati slavi si incontrò dunque con tradizioni in gran parte analoghe, e diverse solo in certe modalità: donde maggior facilità di accoglimento e di permanenza nel tempo».

Questa è una parte del testo del canto di maggio della Pagliara, "Ecchite maje", registrato a Fossalto nel 1954 da Diego Carpitella e Alberto M. Cirese: «Ecchite maje e chi ò ri vò vedene / tutte li massaje i purtassene l'aine ammène / Signora padrona facciame na cosa lèsta / ca li cumpagne ce vuonne passà / e passa e repasseraje bene venga maje / Signora padrona e fai na cosa lèsta / si nin tì curtille / ji mo ti l'imprèste / Signora padrona vattin'a lu nide / si 'n c'è l'uóve piglia la gallina / Signora padrona vatten'a lu lardare / taja 'nchin'e guardati le mane / Chèssa figliola chi c'ai dà maritare / bbóna sorta Di ci li pozza dane / Signora padrona facéte na cosa lesta / ca li cumpagne ce vuónne passà / e passa e repasseraje bene venga maje / Jè arrivate maje e core pé la viarella / dèmme lavedat'alla famiglie di ri Canèlle / [...]».

Il testo prosegue con strofe caratterizzate da riferimenti personali. Il canto fossaltese, secondo Diego Carpitella, si differenzia dai canti pastorali di altre regioni italiane: «L'elemento tipico che invece distingue lo stile della "pagliara" di Fossalto è quello della voce che si muove secondo gradi congiunti, con un disegno ritmico simmetrico e preciso, mentre nel fondo la zampogna sostiene con un pedale continuo appena accennato nel disegno dell'accompagnamento: in maniera cioè di dare l'impressione, apparente ma non reale, di una poliritmia» . Al termine del percorso il portatore finalmente si sveste e, nella piazza principale, dinnanzi alla Pagliara vuota, si compie la fase conclusiva della festa: la croce, staccata dalla sommità del cono, viene consegnata dal parroco al sindaco. Entrambi intervengono, sottolineando l'importanza della tradizione, e i loro discorsi sono scanditi dalle esibizioni di gruppi musicali, in particolare da suonatori di bufù, presenti in numerose manifestazioni molisane.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)
Bibliografia: Alberto M. Cirese, La "pagliara maie maie"


Foto di Alberto Mario Cirese, gentilmente concesse dall'autore (1 maggio 1954)


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (1 maggio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Maggio ad Acquaviva Collecroce

Maja

1 MAGGIO

Il Mája di Acquaviva Collecroce

Acquaviva Collecroce (Campobasso) è un comune molisano popolato da un'ondata migratoria slava dalla prima metà del XVI secolo, come afferma Milan Rešetar: «Tutte le informazioni affidabili che possediamo sopra quegli slavi del Molise, di cui gli ultimi residui sono rimasti nelle tre note località, concordano infatti nell'affermazione che essi furono insediati nelle località in questione nel corso della prima metà del XVI secolo e parlano di loro proprio come di gente che era venuta dalla Dalmazia in Italia non molto tempo prima [...]».

In questo paese, di circa 740 abitanti, ha avuto luogo una importante attività di ricerca sulla lingua slavisana, secondo il neologismo proposto dagli autori del locale dizionario croato molisano. La valorizzazione della lingua, che prevede anche scambi culturali, specialmente in ambito scolastico, con la Croazia, si accompagna alla riattualizzazione delle tradizioni più caratteristiche del luogo.

Oltre la Smercka natalizia, la festa del primo maggio, ripresa dalla metà del 1980 , rappresenta un'occasione di condivisione collettiva di una tradizione particolarmente sentita. Il corteo del Mája rientra nelle feste primaverili propiziatorie , ma ha anche un intento di rafforzamento della fraternità tra la popolazione, che tuttora mantiene vivo il ricordo delle proprie origini. Come avviene nelle analoghe manifestazioni che hanno alla base la figura del pagliaio o pagliaro (l'ammasso di paglia innalzato in forma conica a protezione dalla pioggia), si riveste un telaio conico con elementi vegetali.

Rispetto alle altre composizioni, il Mája di Acquaviva Collecroce ha un aspetto antropomorfo, presenta infatti anche la testa e le braccia. Il risultato è davvero sorprendente e rievoca la fantasiosa complessità di certe immagini arcimboldesche, non tanto in senso grottesco quanto gioioso. La preparazione inizia il giorno precedente la festa, con la raccolta di fiori e primizie, che si protrae fin quando è possibile, per evitarne l'appassimento.

La struttura, alta più di tre metri, è composta da rami flessibili, canne e paglia e, diversamente da quelle di Fossalto e di Colle d'Anchise, non è ricoperta da una rete metallica. L'addobbo viene eseguito da un gruppo di giovani e da alcuni adulti: via via che il Mája prende forma, ognuno contribuisce al miglioramento della composizione con proposte e suggerimenti. Dinnazi al locale adibito per l'allestimento, sostano brevemente alcuni visitatori per seguire e commentare la preparazione.

La mattina del giorno successivo si compiono gli ultimi ritocchi, quando la figura è completata, nel rivestimento e nelle fattezze quasi umane, accentuate nei grandi occhi del volto, il Mája è pronto per essere animato. Questa personificazione presenta un aspetto piuttosto femminile: ha una corona sulla testa, una lunga capigliatura e la parte sottostante appare come un'ampia gonna. Nella rappresentazione osservata nel 2007, il Mája non porta sul capo una croce ma un ciuffo vistoso, a differenza delle analoghe figure di Fossalto (2005, 2006) e Colle d'Anchise (2007), dove addirittura il Pagliaro entra in chiesa.

Alberto M. Cirese, in base alle informazioni raccolte nel corso delle sue ricerche, che attestano la vitalità della festa fino al 1940 e la sua interruzione causata dalla guerra, cita la presenza di una croce di spighe di grano, posta sulla sommità del cono, la benedizione religiosa e la distruzione finale del Mája, presso i ruderi di una chiesa, eseguita da ragazzi.

Su un sito internet dedicato ad Acquaviva Collecroce, è documentata fotograficamente la festa, dal 2001 al 2007, e nel testo introduttivo si legge: "Come da un po' di anni a questa parte viene svolta il primo maggio una festa pagana tramandata dai nostri avi (per fortuna ripresa): si tratta della festa del Mája". Scorrendo le immagini si nota come il ciuffo sia diverso, di anno in anno, cosa che indica come le feste possano risultare diverse, di anno in anno, pur presentando tratti distintivi di base, tracce inevitabili sulle quali i protagonisti procedono con andamenti variabili.

Infine, così composta, la rigogliosa veste vegetale viene indossata da un giovane e ha inizio il corteo, dapprima verso la piazza Nicola Neri, poi lungo le vie del paese. Tra le danze di gruppi in costume provenienti anche da altre località del Molise, e al suono di strumenti tradizionali, lo spirito della vegetazione continua la sua processione, accompagnato dagli occhi discreti di donne che si affacciano dalla soglia delle case o dai balconi. È un giorno particolare, di festa e di memoria, e in tutti vi è un sentimento di seria partecipazione, specialmente nei bambini, impegnati a cantare con l'aiuto di testi scritti.

Questo testimonia l'importanza dell'apprendimento della tradizione nelle feste, non soltanto attraverso il coinvolgimento e l'osservazione, ma anche secondo modalità guidate da associazioni locali, culturali o scolastiche. Via via che il corteo si inoltra nel paese, le danze dei partecipanti e la distribuzione del cibo sciolgono la compostezza iniziale e portano a esprimersi più gioiosamente: giovani e anziani cantano e ballano in circolo attorno al Mája, che si muove con il suo gravoso carico floreale.

La venerazione della natura e le feste arboree

Nel lungo elenco di condanne lanciate dalla chiesa contro le pratiche popolari derivate da preesistenti forme religiose, la venerazione della natura sembra avere un posto privilegiato, in quanto resiste fortemente e si oppone al concetto stesso della creazione come opera divina: «Alii adorabant solem, alii lunam vel stellas, alii ignem, alii aquam profundam vel fontes aquarum, credentes haec omnia non a deo esse facta ad usum hominum, sed ipsa ex se orta deos esse». Alberi, pietre, acque sono oggetto di particolari rituali e, nonostante il cristianesimo, continua un'ideologia di contrapposizione alla religione ufficiale, determinata da situazioni economiche e sociali strettamente ancorate al mondo naturale come fonte primaria di sopravvivenza, soprattutto presso comunità agricole e pastorali: «Nam ad petras et ad arbores et ad fontes et per trivia cereolos incendere, quid est aliud nisi cultura diaboli? Divinationes et auguria et dies idolorum observare, quid est aliud nisi cultura diaboli? Vulcanalia et Kalendas observare, mensas ornare, et lauros ponere, et pedem observare, et fundere in foco super truncum frugem et vinum, et panem in fontem mittere, quid est aliud nisi cultura diaboli?» .

Tali comportamenti rientrano in una sorta di ecolatria non tanto pagana, quanto arcaica e profondamente radicata presso tutte le culture, contro la quale la chiesa lotterà aspramente utilizzando strategie di sostituzione delle entità venerate, sovrapponendo e adattando nei secoli i propri simboli. Tuttavia l'appartenenza al cristianesimo non esclude la persistenza di alcune pratiche: «Sotto i Re Longobardi, che pure professavano la legge Cristiana colla lor nazione, apparisce che molti del rozzo popolo con pazza credulità veneravano certi alberi, da lor chiamati Sanctivi, come se fossero cose sacre. Gran sacrilegio avrebbero creduto il tagliarli; sembra ancora che prestassero ad essi qualche segno di adorazione» .

Esempi di feste arboree connesse con la celebrazione del Maggio sono tuttora presenti in Italia, in particolare in Lucania, dove si può ricordare il complesso Matrimonio degli alberi di Accettura, nel materano, collegato alla processione del patrono San Giuliano. Sono dunque i rituali primaverili i percorsi privilegiati per l'espressione delle valenze propiziatorie degli elementi vegetali che, oltre a caratterizzare la festa o il canto, divengono talvolta strumenti di immedesimazione tra uomo e natura, attraverso la loro personificazione.

James George Frazer ha ampiamente trattato questi temi nella sua opera, sulla scia di Wilhelm Mannhardt, ricordato in questa citazione sulla personificazione dello spirito della vegetazione: «Without citing more examples to the same effect, we may sum up the results of the preceding pages in the words of Mannhardt: "The customs quoted suffice to establish with certainty the conclusion that in these spring processions the spirit of vegetation is often represented both by the May-tree and in addition by a man dressed in green leaves or flowers or by a girl similarly adorned. It is the same spirit which animates the tree and is active in the inferior plants and which we have recognised in the May-tree and the Harvest-May"».

Usanze del Maggio in Molise

Ovidio cita la dea Flora e Plinio le feste denominate Floralia, tenute tra la fine di aprile e gli inizi di maggio: «itaque iidem Floralia IIII kal. easdem instituerunt urbis anno DXVI ex oraculis Sibyllae, ut omnia bene deflorescerent». La via delle antiche reminiscenze è densa di suggestioni, che sopravvivono non tanto nelle sopravvivenze, più o meno consapevoli, delle tradizioni, ma soprattutto nella considerazione su di esse. Eppure tale via, nella sua impossibilità di spiegazione del presente, ha una grande carica evocativa: «La festosa costumanza molisana di cantar maggio è assai antica e trova precedenti celebri nell'era pagana. Presso gli italici si venerava flora, dea dei fiori e della primavera. Sotto la sua egida era l'agricoltura e il primo maggio le era sacro, riconoscendosi in una rigogliosa fioritura un promettente raccolto».

Tra le feste primaverili, attualmente proposte in Molise, caratterizzate dalla personificazione del Maggio, si possono citare: la Pagliara di Fossalto, la Defensa di Lucito, il Pagliaro (R Puogliar d Maj) di Colle d'Anchise e il Mája di Acquaviva Collecroce (Krûc). Nel 1955 Alberto M. Cirese scrive che alcuni documenti attestano questo tipo di personificazioni nei tre paesi d'origine slava , con caratteri nettamente antropomorfi, e in altre località, con diverse modalità: «... oltre che a Fossalto, dove vive ancora [...] una personificazione di tipo pagliara ci è testimoniata anche per Castelmauro, Bagnoli del Trigno, Lucito, Casacalenda, Bonefro e Riccia» . Cirese sottolinea inoltre che questi paesi non sono distanti dalla zona d'immigrazione slava, ad eccezione di Riccia, dove tuttavia è presente un borgo, detto Schiavone, che indica un contatto con gli slavi.

È interessante notare la dismissione dell'usanza, all'epoca dello scritto, proprio da parte di chi, in origine, si suppone l'abbia introdotta: «Il fatto singolare è che gli eredi dei portatori originari, e cioè gli abitanti dei paesi slavo-molisani di Acquaviva, San Felice e Montemitro, abbiano dismesso il costume, e lo abbiano invece conservato i paesi molisani di origine non slava. È evidente che in questo caso, nel processo di livellamento degli immigrati alla cultura nuova (diversa cioè da quella della loro patria), è avvenuto uno scambio: gli immigrati hanno "ricevuto" nuove costumanze e abitudini (e anche una nuova lingua: molti paesi già slavi sono oggi completamente italianizzati anche nella lingua) ma hanno anche "dato" ai vicini alcune loro costumanze. Ed i vicini che le hanno ricevute hanno rappresentato quasi la zona periferica della espansione del costume, una zona marginale "più conservativa"». Nell'operazione di superamento della discontinuità con il passato, oggi ampiamente effettuata per motivazioni che, sommariamente, si definiscono identitarie, le riproposizioni della tradizione e della lingua hanno un ruolo centrale.

Al di là della categoria discriminatoria di invenzione, che stabilisce una classifica di legittimità o purezza, in base a variabili storiche e demologiche, è utile considerare queste espressioni delle comunità, sia pure talvolta sollecitate da singoli o gruppi ristretti, elaborazioni collettive di elementi culturali, pensati come propri e distintivi. Attraverso queste riattualizzazioni si tenta di ridefinire una localizzazione sociale, che può espandersi oltre i confini territoriali, quando è condivisa con le comunità all'estero, e anche oltre i confini di una memoria documentabile, poiché è il vissuto nel presente a dare un senso all'azione collettiva, senza interrogativi sulla defunzionalizzazione.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Feste e Riti d'Italia)
Bibliografia: Alberto M. Cirese, La "pagliara" del primo maggio nei paesi slavo-molisani


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (30 aprile e 1 maggio 2007)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Nicola a Guardiaregia

5-6 DICEMBRE

Il 5 e 6 dicembre a Guardiaregia (CB), si celebra la Sagra dei Fagioli in onore del patrono San Nicola. Viene cucinata una zuppa di fagioli, un tempo pane dei poveri, che sarà offerta come cena ai presenti. Pentoloni di fagioli vengono messi a cuocere nelle prime ore del pomeriggio in case rustiche dove ancora si trovano antichi e grandi caminetti. Dopo la cottura, i fagioli vengono portati in un locale chiamato il cenacolo, un locale adibito a mensa, dove chiunque può sedersi ed assaporare i fagioli. Dopo la santa messa serale, partendo dalla chiesa di San Nicola, ci si porta in processione verso il cenacolo. Dopo la recita di alcune preghiere, il parroco impartisce la benedizione alle panelle, pagnottele di pane che verranno distribuite al popolo durante la festa del giorno dopo il 6 dicembre.

Foto: E. De Simoni (5 e 6 dicembre 2005)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Giuseppe a Termoli

Altari Vetäre

18 MARZO

Gli altari di San Giuseppe a Termoli

A Termoli (Campobasso), in occasione della ricorrenza di San Giuseppe, vengono allestiti i tradizionali altari, detti "vetäre". L'introduzione dell'usanza in questo borgo di pescatori viene comunemente attribuita a Concetta Barone, originaria di San Martino in Pensilis, assai devota al santo, tanto da rinnovare la consuetudine della famiglia d'origine nella sua nuova residenza. Nel tempo l'uso si diffonde ampiamente, soprattutto presso famiglie artigiane e contadine. Verso la fine del 1980 appare mantenuto vivo soltanto dalle discendenti della famiglia Barone, dunque, per non interrompere la tradizione, si tenta di sollecitarne la riproposizione anche da parte di altre famiglie e associazioni termolesi, con buoni risultati.

L'allestimento degli altari e delle tavole di San Giuseppe è effettuato dalle famiglie che li ospitano, con il contributo del vicinato. Dopo la benedizione del sacerdote, il pomeriggio del 18 marzo, gli altari sono pronti per la devozione dei fedeli, fino a mezzogiorno del giorno successivo. L'altare eretto in onore del santo è preparato con drappi, coperte e nastri, preferibilmente di seta e dai colori delicati, con i quali viene formato un tabernacolo, che porta al centro una raffigurazione della Sacra Famiglia o di Giuseppe con il Bambino. La base dell'altare generalmente è costituita da due o tre gradini, per poter disporre addobbi e una serie di oggetti significativi: fiori, piante, ceri, riferimenti al mestiere di falegname di Giuseppe, piccole statue e immagini della Sacra Famiglia e di altri santi, vasi con germogli di grano cresciuti al buio, simili a quelli che ornano le chiese il Giovedi Santo. I lunghi steli pallidi del grano contrastano con i colori dei fiori e dei drappi, quasi a rappresentare l'opposizione tra la morte e la vita, tra l'oscurità e la luce, nella delicata fase di passaggio tra inverno e primavera. La tavola, posta di solito a fianco dell'altare, viene imbandita con una grande quantità di cibi a base di magro, nel rispetto del periodo quaresimale.

Le famiglie gareggiano nella realizzazione delle composizioni più belle e più ricche. Il risultato è un dispiegamento di elementi vegetali (verdure, frutta e legumi) e una grande varietà di alimenti (pesce, uova, olio, vino, etc.), che offrono un variopinto scenario di abbondanza. Numerosi sono anche i dolci, in particolare si notano 'a puppattelle e 'u cavallucce, dolci a forma di bambola, per le bambine, e di cavallo, per i maschi, realizzati con pastafrolla ricoperta con glassa d'albume e confetti. Tra queste dovizie il pane ha un ruolo significativo, sulle tavole sono infatti collocate tre grandi pagnotte circolari, al centro delle quali sono impressi i simboli della Sacra Famiglia: la corona (Maria), la croce (Gesù) e il bastone (Giuseppe); è presente anche un lungo pane modellato a forma di bastone.

Dinnanzi all'altare si compie l'adorazione verso la Sacra Famiglia, scandita dall'esecuzione di canti, preghiere e poesie. Queste recite devozionali sono effettuate a turno da bambine vestite di bianco, in segno di purezza, e con il capo sormontato da ghirlande di fiori, le "verginelle". I devoti che si recano a visitare gli altari ricevono in dono un santino ('a 'mmaggenette), un panino benedetto ('u päne beneditte) e, come augurio di abbondanza, un po' di "grano di San Giuseppe", un misto di grano, fave, fagioli, cicerchia, granoturco, lenticchie e ceci. Il 19 marzo, secondo la tradizione, si dovrebbe offrire un pranzo di 13 portate a una famiglia, scelta tra le più povere, composta da due adulti e un bambino, che rappresentano Maria, Giuseppe e Gesù.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: D. D'Alessandro (18 marzo 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Giuseppe a Casacalenda

Tavole

19 MARZO

San Giuseppe

Il cristianesimo delle origini non assegna particolare rilievo a Giuseppe, brevemente menzionato da Matteo e Luca all'inizio dei loro vangeli, come personaggio di sfondo dell'infanzia di Gesù. La sua figura comincia a delinearsi soltanto nei vangeli apocrifi, in particolare nel Protovangelo di Giacomo, databile alla metà del II secolo. Le virtù del padre putativo di Cristo vengono citate, tra il il IV e V secolo, dai dottori delle chiese d'oriente e d'occidente. Il culto di San Giuseppe è documentato in un manoscritto del secolo VIII, proveniente dall'abbazia benedettina dell'isola di Reichenau, nel lago di Costanza, che ne fissa la commemorazione al 20 marzo.

In oriente la festa di San Giuseppe viene menzionata nei calendari verso il X secolo. Ricordiamo in proposito il Menologio di Basilio II, dal nome dell'imperatore committente, e composto da Simeone Metafraste verso la fine dell'anno 1000. Giuseppe compare più ampiamente nelle descrizioni del Codice Arundel 404, detto anche Liber de Infantia Salvatoris o Natività di Maria e di Gesù, vangelo apocrifo del XIV secolo, considerato una variante del Protovangelo di Giacomo. Questo testo attribuisce la funzione di "nutritore" al padre putativo di Gesù, e ne sottolinea le virtù di uomo caritatevole verso i più bisognosi.

Il suo culto si rafforza tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV, per opera di predicatori come Bernardino da Siena, che riconferma la funzione di Giuseppe, definendolo "fedele nutrizio e custode". L'assegnazione della data del 19 marzo per la commemorazione del santo è stabilita da Gregorio XV nel 1621. Nel Settenario di meditazioni in onore di S. Giuseppe Alfonso Maria de' Liguori riporta un racconto relativo alla consuetudine, di un mercante di Valenza, di invitare a pranzo, a Natale, un vecchio e una puerpera con un neonato, in onore della Sacra Famiglia: «Narra il P. Patrignani... che un certo mercante della città di Valenza soleva ogni anno nel giorno di Natale invitare a mensa un vecchio ed una donna che allattasse un bambino in onore di Gesù, Maria e Giuseppe. Questo divoto apparve dopo sua morte a chi pregava per lui, e gli disse che nell'ora del suo passaggio furono a visitarlo Gesù, Maria e Giuseppe, con dirgli: "Tu in vita ci riceveresti in persona di quei tre poveri in casa tua, ora siam venuti per riceverti in casa nostra". E che ciò detto, l'aveano condotto in paradiso».

Il rapporto tra la figura di Giuseppe e il cibo, considerato come nutrimento e aiuto per i più bisognosi, bambini o poveri, si esprime ancora nell'allestimento di tavole imbandite e la condivisione di particolari alimenti, in occasione della sua ricorrenza. Questa tradizione propone, in chiave di devozione popolare, alcuni elementi propri dell'agape che, nel cristianesimo primitivo, è la cena condivisa dai cristiani, con la guida di un celebrante, in determinati giorni, per ricordare l'ultima cena di Gesù. In origine l'agape ha un doppio contenuto, eucaristico e caritativo, in seguito si differenzia in due fasi: un banchetto serale per i poveri e la celebrazione eucaristica della mattina. Il termine greco agape corrisponde al latino charitas, che indica l'amore fraterno e disinteressato, virtù primaria di Giuseppe.

La tradizione delle tavole di San Giuseppe, diffusa in area meridionale (Sicilia, Puglia, etc.), è ampiamente presente in numerose località del Molise. Situandosi nel periodo iniziale della primavera, questa usanza sembra indicare il risveglio della natura, attraverso la celebrazione di una figura, solitamente in ombra come quella di San Giuseppe, portatore di abbondanza e nutrimento dopo la lunga sospensione invernale. Il santo, discreto ma forte, esce dal suo silenzio e dalla sua connotazione di forzata castità per rientrare in un festoso elargimento di cibo vitale, che lo ricolloca in una dimensione di ritrovata fecondità. Sembra in tal modo che si sciolga ogni dubbio sulla capacità generativa di Giuseppe, imposta dal racconto evangelico: è la natura stessa a restituirgli pienamente la funzione di padre primaverile, nella triade originaria della Sacra Famiglia, base della società umana. È a lui che si chiede sicurezza, solidità, abbondanza e protezione, nella certezza della paternità, intesa come professione di responsabilità verso i propri e gli altrui figli.

Paradossalmente Giuseppe, uomo casto per eccellenza, viene vissuto come colui che nutre e dà vita, una sorta di padre primordiale, che nella rinuncia rafforza il valore del suo seme. Pertanto la celebrazione di Giuseppe richiede il dispiegamento dei beni alimentari, in un agape solidale e aperto alla comunità, espressione di generosità disinteressata e rievocazione eucaristica nel tempio domestico, dove la Sacra Famiglia si affranca dalla povertà della grotta e acquisisce la dimensione regale che le è dovuta. Dunque la tradizione prevede un dovizioso e complesso allestimento di cibi e vivande, che varia di località in località, ma che generalmente comprende un certo numero di portate, da 13 a 19.

La festa di San Giuseppe a Casacalenda

A Casacalenda (Campobasso), il 18 marzo, ci si riunisce accanto all'altare innalzato in onore di San Giuseppe, cantando le litanie alla Beata Vergine (tènìie). La preparazione del cibo, effettuata secondo precise regole tramandate oralmente, ha inizio già la vigilia della festa. Le tredici portate sono costituite prevalentemente da legumi e da altri ingredienti. Nelle pignatte poste nel camino si cuociono i legumi, e si prega dinnanzi agli altari multicolori dedicati al santo. Gli altari, riccamente addobbati, hanno al centro quadri o piccole statue rappresentanti la Sacra Famiglia. Il giorno della ricorrenza le donne offrono il pane benedetto, l'alimento base della vita, che porta impressa nel centro l'impronta della mano del santo, e allestiscono le tavole: la prima è per la Sacra Famiglia, che sarà circondata da bambini, chiamati "angeli"; la seconda è dedicata agli altri commensali.

Secondo la tradizione il pranzo prevede: fette di arance condite con olio di oliva e zucchero e sottaceti in agrodolce; fagioli; ceci; piselli; cicerchie; fave; granchi; lumache; riso; baccalà gratinato; verdure; maccheroni con la mollica; infine frutta e dolci. Il pranzo è preceduto dalla recita di preghiere, che viene ripetuta ad ogni portata e alla conclusione. Oggi le persone che rappresentano la Sacra Famiglia, un vecchio, una donna e un bambino, non sono necessariamente poveri, l'usanza infatti ha perso nel tempo la primaria funzione caritatevole ed ha accentuato i suoi caratteri di fraternità e solidarietà, espressi essenzialmente nella condivisione dell'agape. La consumazione del cibo prevede determinati comportamenti: mangiare con le mani i maccheroni conditi con la mollica, accettare tutte le portate senza lasciare resti nel piatto, spezzare il pane con le mani.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (19 marzo 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Leo a San Martino in Pensilis

Carrese

29-30 APRILE - 2 MAGGIO

San Leo

La leggenda di Leo, risalente presumibilmente al secolo XII, è riportata nell'opera di Giovanni Andrea Tria Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della città e diocesi di Larino, un importante testo di riferimento per la storia e le tradizioni non soltanto di Larino ma anche di altri luoghi compresi tra la Capitanata e il Contado di Molise: «Come pure si prattica la detta corsa de' Buoi con carri in S. Martino, Terra della medesima Diocesi nella Vigilia della Festa del nostro Glorioso S. Leo Confessore, in memoria anche della solenne traslazione del di lui S. Corpo, fatta dalla Chiesa del suo Monastero di S. Felice, nella Parrocchiale, sotto il titolo di S. Maria, e si conserva, e venera questo S. Corpo al presente nella Chiesa Arcipretale di essa Terra, sotto il titolo di S. Pietro, fattane da noi traslazione fin dall'anno 1728...».

La corsa dei buoi è citata anche da Giambattista Masciotta, nell'opera Il Molise dalle origini ai nostri giorni: «Il protettore del Comune è S. Leone dei benedettini, che per tradizione vuolsi concittadino, e la cui festa è celebrata il 2 maggio con la caratteristica corsa dei buoi» .

Secondo il racconto, Leo, monaco benedettino nel monastero di San Felice, nasce a Cliternia, intorno all'anno Mille, e opera numerosi miracoli. Dopo la morte viene sepolto sotto l'altare del convento di San Felice, che, a causa di guerre e terremoti, è abbandonato dai monaci e cade in rovina. Il corpo del santo, scoperto da Roberto Normanno, conte di Loritello tra il 1154 e il 1182, viene trasportato su un carro trainato da buoi nella chiesa di Santa Maria in Pensili. Il 2 maggio del 1728 le ossa di San Leo vengono trasferite nella chiesa di San Pietro Apostolo.

Più semplicemente, in base alla tradizione locale, i resti di San Leo, miracolosamente ritrovati in un bosco, sono contesi dai signori di vari paesi. Per risolvere la controversia, si pongono le reliquie su un carro trainato da una coppia di buoi, che giungono infine a San Martino in Pensilis, manifestando in tal modo la scelta del santo.

La Carrese di San Martino in Pensilis

Carrese, 1964, inv. 105067

La festa patronale in onore di San Leo a San Martino in Pensilis (Campobasso) rientra nel ciclo delle feste primaverili ed è caratterizzata dalla Carrese, una corsa di carri trainati da buoi, improntata su un forte agonismo e gestita da gruppi maschili. La Carrese è profondamente radicata presso i sanmartinesi ed è vissuta con grande partecipazione, tanto da dar luogo a contese e discussioni, non solo nel giorno dell'evento, ma anche nell'attesa, creando spesso divisioni all'interno della popolazione, determinate dall'appartenenza alle fazioni.

Durante tutto l'anno i rappresentanti dei carri sono impegnati nella scelta e nella preparazione di animali e cavalieri, verso la metà di marzo iniziano gli allenamenti. I buoi della Carrese non sono animali da lavoro, ma vengono allevati e addestrati soltanto per la corsa, come sottolinea anche il Regolamento Comunale della manifestazione: «È fatto obbligo al "carro" che partecipa alla Carrese di presentare, alla corsa dei carri del giorno trenta del mese di Aprile, buoi idonei alla corsa, in quanto a selezione della razza ed in quanto ad allenamento che non può essere inferiore a sessanta giorni computati dal trenta Aprile».

La gestione dei carri richiede un grande impegno economico, al quale contribuiscono soltanto in parte il comune e la regione, e i responsabili affrontano anche costi altissimi con la speranza di ottenere la vittoria. La Carrese prevede in genere due partiti (talvolta tre) contrassegnati dai rispettivi colori: il bianco-celeste per i Giovani, il giallo-rosso per i Giovanotti. Dal 2007 partecipa alla corsa anche il carro dei Giovanissimi con il colore giallo-verde. I protagonisti della corsa sono: i carrieri, i cavalieri, i catenieri, che precedono i buoi aggiogati e li guidano con una fune, e tutte le persone impegnate durante la partenza e il cambio degli animali.

La misura

Nel pomeriggio del 29 aprile ha luogo la "misura", che segna le posizioni di partenza dei carri: «I componenti i "carri" che prendono parte alla Carrese nel pomeriggio del giorno ventinove del mese di Aprile devono recarsi sul luogo denominato "bufalara", presso la masseria Macrellino, al fine della distanza di un "carro" dall'altro, che deve essere di metri venticinque. Constatata la distanza, vengono tracciate sulla strada delle linee di vernice color bianco, che indicano la posizione di partenza di ogni "carro" da raggiungere il giorno del trenta Aprile».

Queste attività sono già accompagnate da espressioni di intensa tifoseria da parte delle fazioni, espressioni che caratterizzeranno tutto lo svolgimento della festa fino alla conclusione della gara. La sera dello stesso giorno vengono fatti esplodere a mano fuochi pirotecnici e petardi. Le vie sono invase dal fumo e dagli scoppi, la confusione e il frastuono sembrano costituire una buona occasione di sfogo per l'eccitazione della vigilia.

A questo caos fa da contrappunto la devota intonazione del canto in onore di San Leo, poiché i festeggiamenti e la gara non sono disgiunti da forti elementi religiosi: «Non deve credersi che in queste celebrazioni la corsa sia una forma di festosità slegata dal culto del santo, e sostituibile con altre forme qualsiasi, come pur avviene in molti casi. Si tratta invece di elementi insopprimibili del culto popolare del santo. A San Martino in Pensilis, infatti, alla vigilia della corsa i partecipanti si recano alla porta della chiesa per "laudare", e cioè per cantare un inno, nel quale il santo patrono si trova ad essere esaltato e onorato assieme alla "primavera che ci rinnova il mondo"; e la corsa in sé è legata alla pia leggenda del miracoloso ritrovamento delle reliquie, e dei buoi che trasportandole, si arrestarono a San Martino prescegliendolo così tra altri paesi contendenti».

Il canto

Queste celebrazioni collegate alla rinascita primaverile sono dunque accompagnate da canti popolari, eseguiti in determinate fasi della festa, la carrese di San Martino in Pensilis è un canto monodico maschile di tradizione orale. In proposito è interessante ricordare le considerazioni di Diego Carpitella, in base alle quali vi sarebbe una affinità «tra i canti che vengono eseguiti a San Martino in Pensilis dinanzi alle porte della chiesa, la sera prima della corsa dei carri, e i canti dei carrettieri siciliani. Lo stesso tipo di voce "strozzata", la quale non è, in genere, molto frequente nei canti dialettali molisani». Lo studioso prosegue chiedendosi quale sia l'origine di questi canti, che presentano analogie anche con quelli dei carrettieri salentini, e si domanda se esista, più semplicemente, un comune denominatore tra i canti dei carrettieri.

La carrese viene intonata dai rappresentanti dei carri nella tarda serata del 29 aprile: «i componenti i "carri", partendo dal luogo in cui hanno fissato la propria sede, procedono verso la Chiesa Madre di San Pietro Apostolo, in cui sono custodite le reliquie del Santo Patrono, sparando fuochi d'artificio. Giunti nei pressi della Chiesa, presso la porta principale, viene intonata, in onore di SAN LEO, la "CARRESE" con l'accompagnamento di chitarre acustiche». Inoltre è eseguita nel pomeriggio del primo maggio, quando il carro vincitore percorre le strade del paese, e il 2 maggio, prima della processione in onore di San Leo.

Il percorso

La Carrese inizia il 30 aprile, con la benedizione dei buoi e dei carri davanti alla chiesa di San Pietro Apostolo. La scalinata della chiesa e la piazza sono affollate dai rappresentanti delle opposte tifoserie, contraddistinti dai rispettivi colori. Successivamente i carri si avviano al passo lungo la via Marina, seguendo il tratturo, fino al luogo in cui è stabilita la partenza: la masseria Macrellino.

Secondo il regolamento il carro, che porta tre uomini, deve essere trainato da due buoi e composto complessivamente da venti cavalieri, la maggioranza dei quali rappresentativi di San Martino in Pensilis, per nascita o residenza, a sottolineare il carattere strettamente locale della manifestazione e il valore identitario nell'ambito della comunità: «con una quota massima di forestieri non superiore al venti per cento e da un numero massimo di tre "carrieri". Non sono forestieri i nati in San Martino in Pensilis, i residenti in San Martino in Pensilis. Dall'anno 2008 i cavalieri considerati residenti dovranno esserlo almeno da due anni ad eccezione di quelli che hanno già partecipato in qualità di residenti nella Carrese del 2007».

La prima posizione spetta al carro che ha vinto l'anno precedente. Quando i carri hanno assunto la posizione idonea, il sindaco grida "Girate!" e spara un colpo di pistola. I carri, con i buoi prima rivolti verso il mare, vengono subito girati e inizia la competizione. A causa della difficoltà e della lunghezza del percorso, circa otto chilometri e mezzo, è necessario sostituire gli animali stanchi. Dopo quattro chilometri di corsa si procede dunque, in pochissimi minuti, alla delicata operazione del cambio, "svict". Effettuato lo sgancio, il carro viene portato a mano fino al luogo dove i buoi freschi sono pronti per essere aggiogati.

La corsa continua, dal percorso esterno all'abitato fino alle strade del paese. Superata la durissima prova della salita della Croce, si torna dunque lungo la via Marina. Vince il carro che per primo oltrepassa l'Arco di Porta San Martino, raggiungendo così la Chiesa di San Pietro Apostolo. Al termine della gara i vincitori vengono festeggiati dai sostenitori. Il carro vincitore «ha il diritto di compiere il "giro del paese" esprimendo il trionfo per aver conquistato il privilegio di portare il busto sacro di SAN LEO nella processione del due di Maggio. Esso deve essere accompagnato da apposita banda musicale ed un unico "carro" ha la facoltà di far suonare il motivo "PIAVE"».

Nel pomeriggio del primo maggio i carri "vestiti", cioè addobbati, procedono fino alla chiesa, dove ricevono la benedizione. Il 2 maggio il carro vincitore ha il privilegio di condurre, durante la processione, il busto di San Leo, accompagnato dal parroco. Dietro il carro viene portata, a spalla, la statua del santo, gli altri carri «partecipanti alla Carrese precedono a loro volta il primo "carro" seguendo in senso inverso il risultato della corsa. La processione in onore e lode di SAN LEO è il culmine e rappresenta la conclusione della Carrese di San Martino in Pensilis, in cui tutto il popolo si ritrova e si riconosce nei valori propri del Santo e da essi prende forza ed ispirazione».

Carri trainati da buoi

Animale imponente e laborioso il bue, nella profezia di Isaia "conosce il proprietario", cioè Dio. Nella rappresentazione presepiale giace accanto alla culla di Gesù, inoltre è simbolo di sacrificio, associato nell'iconografia a Luca, che inizia il suo vangelo proprio nel tempio dedicato ai riti pagani. Figura non soltanto sacra, ma fondamentale per il lavoro e la sopravvivenza, come la descrive Ovidio: «quid meruere boves, animal sine fraude dolisque, / innocuum, simplex, natum tolerare labores? / inmemor est demum nec frugum munere dignus, / qui potuit curvi dempto modo pondere aratri / ruricolam mactare suum, qui trita labore / illa, quibus totiens durum renovaverat arvum, / quot dederat messes».

Nella religione romana i bovini sono le vittime di un rito sacrificale d'origine orientale, eseguito con scopi rigenerativi, il Taurobolium, una sorta di battesimo cruento. L'animale, ornato e inghirlandato, viene collocato in una struttura dal fondo perforato, posta sul sacerdote o fedele, in modo che, dopo l'uccisione, il sangue sgorghi copioso sulla persona, purificandola in eterno o per un periodo determinato.

L'impiego di carri trainati da bovini nelle cerimonie religiose è testimoniato in molte tradizioni italiane, non solo nell'area meridionale, in particolare in Sardegna , ma anche nel nord Italia, ad esempio in Piemonte . La connotazione agricola del Molise fa si che in questa regione siano particolarmente diffuse rappresentazioni festive collegate al mondo contadino e agli animali.

Tra le principali feste , comprese tra aprile e luglio, che vedono come protagonisti i bovini, si possono citare, oltre la corsa di San Martino in Pensilis, le corse nei paesi di origine arbëresh: il 3 maggio, per il Santo Legno della Croce, a Ururi; il lunedi successivo alla Pentecoste, per la Madonna di Costantinopoli, a Portocannone; il 22 aprile, per San Giorgio, nella confinante Chieuti, in territorio foggiano. Ricordiamo inoltre le sfilate di carri: per San Pardo a Larino; per Sant'Anna a Jelsi; per Sant'Antonio di Padova a Santa Croce di Magliano, Montecilfone (di origine arbëresh), Palata (in passato con parte della popolazione di origine croata) e Lupara.

Oltre Bojano, altri paesi molisani derivano il loro nome da questi animali e in numerose chiese del Molise si trovano scolpite teste di bue o di toro, come ricorda Alberto M. Cirese: «Esiste in effetti un certo numero di chiese che portano effigiate teste o profili di bue. Il parroco di Ferrazzano ne indicava sei; la settima, che egli diceva non essergli nota, era forse anche al suo tempo la Abbazia di Santa Maria di Canneto nel territorio di Roccavivara, attorno alla quale aleggia oggi la medesima leggenda, e che è ritenuta, assieme a Santa Maria della Strada , uno dei più antichi monumenti medievali della regione».

Il Ver Sacrum

Spesso, secondo alcune leggende di fondazione, non soltanto molisane, le reliquie dei santi giungono miracolosamente nei paesi su carri trainati da buoi. Lo stesso territorio dei Sanniti sarebbe stato popolato da giovani guidati da un bue, durante il Ver Sacrum, l'allontanamento dai luoghi d'origine per fondare nuove colonie, così descritto da Lorenzo Giustiniani: «L'atto di religione che dagl'Itali primitivi si reputava più meritorio da rimuovere le pubbliche calamità era il Ver sacrum, ossia la solenne promessa di sacrificare agli Dei ciò che nasceva nel corso di una primavera. I pargoletti che ne facean parte, non erano esclusi se non a patto di viver nei tempj fino all'età di vent'anni , e poscia di andare in cerca di un asilo sotto la protezione di quella Divinità, cui erano consacrati. Ciò diede cominciamento alla diramazione di frequenti colonie, che ora colle armi ed ora coi patti gittarono le basi di nuove società, le quali, attirando da giorno in giorno altra gente col favor della consacrazione, pervennero da piccioli elementi a costituire corpi sociali più o meno possenti».

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Feste e Riti)


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (29 e 30 aprile 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Nicandro a Venafro

dal 16 al 18 giugno

Il busto argenteo di San Venafro, con i due reliquiari, viene portato in processione dopo che il giorno precedente, a mezzanotte, presso il convento dei cappuccini, si è ufficializzata l'apertura della festa patronale con il suono di un motivetto ripetitivo eseguito da una piccola banda composta di elementi semplici che viene chiamata "bandarella" e per tutta la notte il motivetto viene ripetuto per le strade della città annunciando a tutti l'inizio dei festeggiamenti.


Foto: E. De Simoni e D. D'Alessandro (18 giugno 2009)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Giorgio a Mirabello Sannitico

15 e 22 aprile

In concomitanza con la festa di San Giorgio si accendono centinaia di fuochi sia nel centro abitato che in tutto il territorio. Secondo la tradizione locale, l'origine dei fuochi viene collegata all'apparizione di San Giorgio che liberò il paese da un assalto di soldatesche.


Foto: D. D'Alessandro (22 e 23 aprile 2008)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Santa Cristina a Sepino

Santa Cristina

Cristina è una giovane martire, vissuta tra il III e il IV secolo. Secondo la versione agiografica latina, viene imprigionata dal padre Urbano, "magister militum" di Bolsena, in una torre con dodici fanciulle, e poi sottoposta a innumerevoli torture per aver rifiutato il culto degli dei in nome della fede cristiana.

Tra i racconti della sua "passio", che la accomuna a molte altre figure di santi caratterizzati da atroci supplizi, il più dettagliato è quello di Alfano, arcivescovo e medico della Scuola Salernitana: «Tunc Urbanus impietatis furiis exagitatatus, jussit afferri rotam, et gladios acutissimos superaptari, et igne copiosum subter accendi. Cumque ex tyranni decreto B. Christina tanto crudelitatis generi incurvaretur, dum rota revolvitur, corpus ejus. pretiosissimum scinditur et exuritur. [...] Ecce jam speciosissima virgo post fustes et vincula: post ignem et rotam, post torturas et verbera, post cunam et tonsuras, post truncationes et jacula, ad aeterni regis thalamum angelicis manibus asportatur».

Il culto della martire risulta esistente già dal IV secolo, come appare dagli scavi effettuati nella grotta sottostante la basilica della santa, a Bolsena. Cristina è raffigurata, verso il VI secolo, nei mosaici di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna. Nel X secolo, il culto è ampiamente diffuso nel mondo cristiano ed è favorito dal passaggio dei pellegrini lungo la Via Francigena. Verso la fine del secolo XI, in base alla tradizione locale, due pellegrini francesi diretti a Gerusalemme sostano a Bolsena peronorare la tomba della santa, durante la notte trafugano alcune ossa e riprendono il viaggio. Giunti a Sepino, alloggiano nell'ospizio di San Nicola ma sono costretti a lasciare le reliquie nel paese e la santa ne diviene patrona. Nella seconda metà del 1100 le reliquie, tranne alcune ossa del braccio destro, vengono traslate a Palermo, che venera la santa come patrona fino al secolo XVII, quando vengono "scoperte" le reliquie di Santa Rosalia.

A Bolsena si festeggia Santa Cristina con la processione del suo simulacro e la rappresentazione della passione, attraverso l'allestimento dei "Misteri", quadri viventi silenziosi e statici. Sulla vita della santa, sulla traslazione e sulla localizzazione delle sue reliquie esistono numerose leggende e ipotesi, discusse in particolare in un testo di Antonio Briganti, edito alla fine del 1800: «Non vi ha forse leggenda o vita di un eroe della Chiesa, che presenti tanti dubbii e difficoltà quanto quella di S. Cristina Vergine e Martire Bolsenese. Incerta la patria, ignoto il nome suo e della madre...; sappiamo soltanto, che il padre chiamavasi Urbano. [...] In Sepino se ne celebrano tre feste e tutte solenni. L'arrivo, la traslazione, ed il 24 luglio che è il dies natalis. Palermo, che ha il vanto di possedere la maggior parte delle santo Reliquie... l'ha venerata sino al secolo XVII come principale Patrona della città, solennizzandone oltre il 24 luglio, anch'essa la Traslazione e l'arrivo nella città. Da quel tempo, avendo data la precedenza a Santa Rosalia sua concittadina, si ritenne S. Cristina come Patrona principale minore».

La festa di Santa Cristina a Sepino

Il 6 gennaio, ricorrenza dell'Epifania, si commemora l'arrivo delle reliquie di Santa Cristina a Sepino (Campobasso). L'inizio dei festeggiamenti viene preannunciato dal suono delle campane alle ore 12 del giorno precedente. L'8 gennaio, presso le terme Tre Fontane, ha luogo la "Crianzola", un incontro conviviale tra uomini, che rappresentano le famiglie del paese e delle contrade, durante il quale si assaggia il vino dei produttori locali. La "Crianzola", un tempo ristretta al solo ambito maschile, pùò prevedere attualmente anche la presenza femminile.

Durante il periodo della festa si rende omaggio alla statua della santa posta nella cripta della chiesa a lei dedicata, statua che si dovrebbe portare in processione ogni cento anni. Il simulacro ligneo sorregge con la mano sinistra Sepino, nella destra ha una freccia, simbolo del supplizio finale, e una palma, simbolo di verginità. I fedeli, in segno di rispetto, si allontanano senza voltare le spalle. Nella grotta della chiesa è inoltre rappresentata la complessa "passio" di Santa Cristina, in otto scene lignee realizzate dalla bottega Mussner di Ortisei, accompagnate da scritte che ne indicano le varie fasi e da dediche di devoti sepinesi emigrati.

Dal pomeriggio del 9 gennaio le campane cominciano a suonare, a intervalli regolari, circa ogni quindici minuti, per richiamare i cittadini alla festa. Presso il palazzo comunale si riuniscono genitori e bambini. Insieme a una candela viene consegnato ai bambini il "cartoccio", un dono dell'amministrazione comunale confezionato con vari dolci. Dopo la quarta suonata i fedeli, le autorità e le "Verginelle", bambine vestite di bianco, ornate di monili e con il capo sormontato da una coroncina floreale, si recano in chiesa portando il cero, alla cui sommità è legato un ramoscello di ulivo, e i doni da offrire alla santa: oro, incenso e mirra, gli stessi dei Re Magi a Gesù Bambino.

In merito alle "Verginelle" è suggestivo ricordare un'iscrizione che testimonia, nell'antica Saepinum, festività collegate alla fertilità, tenute tra gennaio e febbraio, caratterizzate dalla presenza delle Canefore, fanciulle che nelle processioni dell'antica Grecia portano in genere canestri di fiori, doni e oggetti rituali: «Dall'antico Sepino gli scavi degli ottimi sigg. Giacchi danno non poche iscrizioni, le quali ci vengono comunicate per mezzo del sig. parroco Luigi Mucci, altro nostro socio attivo ed esatto. L'ultima lapida di cui egli ci diede copia, è curiosa, perchè dimostra essersi l'uso delle famose Canofore trapiantato da Atene fin nel cuore delle montagne sannitiche». Al di là di queste reminiscenze arcaiche, le "Verginelle", oltre a rappresentare la purezza che contraddistingue Cristina, sembrano piuttosto rievocare le giovani ancelle della leggenda, compagne della santa nella torre.

Nella chiesa vengono esposti alla venerazione il busto di Santa Cristina, ricoperto di gioielli, e il braccio argenteo contenente la reliquia, custodito nella cappella del tesoro. Dopo i vespri si celebra la messa. Le "Verginelle" sono disposte in prima fila, dinnanzi all'altare. Il sindaco tiene un discorso, al quale segue la risposta e l'omelia del parroco. L'amministrazione fa inoltre un dono alla parrocchia. Al termine della celebrazione i genitori portano i bambini, che vengono benedetti e affidati alla protezione della santa. La devozione viene espressa con particolari comportamenti: baciare il braccio che contiene la reliquia; toccare il busto della santa, azione talvolta eseguita con un fazzoletto da parte delle donne più anziane; porgere i bambini alla reliquia o alla santa; farsi fotografare in chiesa accanto al simulacro.

Mentre i fedeli rendono omaggio a Santa Cristina, nella sacrestia si procede al sorteggio dei turni delle persone che, durante la notte, si alterneranno sul campanile per suonare manualmente le campane, prerogativa quasi esclusivamente maschile, tranne alcune eccezioni. Il sorteggio stabilisce anche i gruppi che, in occasione delle processioni, porteranno la statua e il baldacchino.

Il 10 gennaio si commemora la traslazione del corpo della santa dall'ospizio di San Nicola alla chiesa del Santissimo Salvatore. I fedeli si preparano alla comunione, per ottenere l'indulgenza parziale concessa nel 1737 da Papa Clemente XII. Dopo la celebrazione inizia la processione delle "Verginelle" fino al rione Canala, seguendo uno dei percorsi intrapresi, secondo la tradizione, dai due pellegrini che portarono le reliquie. I fedeli che trasportano il busto della santa, sorteggiati la sera del 9 gennaio, indossano una veste rossa, con ricami dorati e una cintura azzurra. Sepino commemora Santa Cristina anche in altre date: in forma solenne il 24 luglio, ricorrenza della morte; la prima domenica di maggio, in ricordo della traslazione a Palermo e la prima domenica di ottobre.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: E. De Simoni (9 e 10 gennaio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Biagio a San Martino in Pensilis

3 FEBBRAIO

San Biagio

Biagio, vescovo della sua città Sebaste, attuale Sivas in Armenia, secondo alcune fonti medico, è vissuto tra il III e il IV secolo. Imprigionato dai romani nel corso di una persecuzione locale, viene decapitato, dopo essere stato torturato con pettini di ferro. Le sue reliquie sono portate in Italia, a Maratea, nel secolo VIII, da alcuni pellegrini armeni. È venerato da cattolici e ortodossi. Gli sono attribuiti numerosi miracoli, tra i quali quello che caratterizza le sue proprietà taumaturgiche: la guarigione di un bambino soffocato da una spina di pesce. È dunque invocato in particolare contro i mali della gola.

Nella celebrazione della sua ricorrenza è frequente l'uso di candele benedette, che il sacerdote impone sulla gola dei fedeli. La festa di San Biagio avviene in un periodo dell'anno che segna l'attenuarsi dell'inverno, nel giorno successivo alla Candelora. Il 2 febbraio si celebra la Presentazione di Gesù al Tempio, collegata alla Purificazione di Maria, 40 giorni dopo il parto, e si benedicono le candele, simbolo della luce.

La festa di San Biagio a San Martino in Pensilis

A San Martino in Pensilis (Campobasso) dal 2 febbraio, giorno della Candelora, iniziano i preparativi per la festa di San Biagio , nella quale cavalli e cavalieri hanno un ruolo fondamentale, come accade nella Carrese del 30 aprile in onore di San Leo. All'alba del 3 febbraio, lungo le vie del paese, vengono fatti esplodere fuochi pirotecnici. Nella località di campagna chiamata Contrada San Biase, distante sette chilometri, dove un tempo era la chiesetta di San Biagio, si accende il fuoco e si allestisce un tavolo con cibi e bevande.

Tre giovani, in sella a cavalli ornati con i colori della squadra vincitrice dell'ultima Carrese, percorrono il paese chiamando a raccolta i cittadini e gli altri cavalieri verso il sagrato della chiesa di San Pietro Apostolo, in Largo Trinità. Uno dei tre cavalieri accompagna la chiamata con il suono di un tamburo. Dinnanzi alla chiesa il parroco benedice tutti i cavalieri che si sono radunati e porge una croce di legno, che viene passata da cavaliere a cavaliere per essere baciata. Dopo la benedizione i cavalieri, con la croce, partono verso la Contrada San Biase per visitare il luogo dove sorgeva la quercia e dov'è la pietra del santo, dalla quale si è soliti staccare piccoli pezzi, che vengono conservati a protezione delle malattie della gola.

Giunti a San Biase, i cavalieri pregano e compiono tre giri attorno al luogo della quercia. La visita dei cavalieri in contrada San Biase è anche occasione di festosa consumazione del cibo, e si attua, come nella Carrese, in un percorso esterno al paese. Prima del ritorno, i cavalieri ricevono i pani benedetti e ripartono al galoppo, rallentando poi, in prossimità del centro abitato. Sulla scalinata della chiesa la folla attende il loro arrivo.

Una volta tornati, i cavalieri compiono un giro intorno alla Santissima Trinità. La croce passa di mano in mano e viene baciata, dai cavalieri e dalle persone radunate nella piazza. In chiesa si susseguono gli atti devozionali verso il santo, espressi in particolare dal reverente contatto della propria mano con il simulacro. Nel tardo pomeriggio, dopo la messa, ha luogo la processione con il busto di San Biagio. La cerimonia si conclude in chiesa con la benedizione della gola, impartita dai sacerdoti con due candele incrociate, mentre i fedeli continuano a rendere omaggio al santo.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: D. D'Alessandro (3 febbraio 2006)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
Amministrazione
trasparente

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