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Articoli filtrati per data: Aprile 2014

San Paolino a Nola

Gigli

PRIMA DOMENICA SUCCESSIVA AL 22 GIUGNO

Una festa lunga un anno

Nola (Napoli) festeggia il suo copatrono, San Paolino vescovo, con una processione religiosa il 22 giugno e con la Festa dei Gigli nella domenica successiva. Per l'occasione ogni anno vengono costruite una Barca guidata da un Turco e otto Gigli, costruzioni a forma di obelisco, in legno d'abete e di castagno, rivestite in cartapesta, alte circa 25 metri, ognuna delle quali rappresenta una corporazione di un mestiere tradizionale. Il 22 giugno i cittadini di Nola affollano il Duomo fin dalle prime ore della mattina per assistere alle messe officiate presso la cappella del santo. Poi le porte della Basilica si aprono per dare inizio alla processione, che vedrà sfilare per le vie della città i Gigli fino alla loro entrata in piazza, al termine della quale il Vescovo benedirà gli obelischi e la barca e pronuncerà il suo discorso dalle scale del Duomo. In questa giornata anche le nove bandiere delle corporazioni rendono omaggio al patrono, portate dai maestri di festa e poste sulle pareti della cappella di Paolino.

La preparazione della festa occupa tutto l'anno e già dalla sua conclusione, a mezzanotte, i maestri di festa, cioè gli uomini designati a prendere il giglio per l'anno successivo, firmano in Municipio l'impegno, dando le più ampie garanzie, a preparare il giglio per la categoria o corporazione corrispondente al giglio prescelto, assumendosi anche l'onere della spesa. L'impegno, a caparra, viene sancito con la somma di denaro che si usa dare ai vari rappresentanti dai cantanti, delle fanfare, dei costruttori dei gigli, etc. dal maestro di festa per assicurarsi la loro prestazione. I maestri di festa devono avere determinati requisiti che possono essere modificati di anno in anno. Così dopo pochi giorni dalla conclusione della festa, i vari comitati, cioè le associazioni di persone che divideranno con i maestri di festa l'impegno dell'organizzazione per il loro giglio, sfilano per la città con la banda musicale per presentarsi ufficialmente ai cittadini, è la prima uscita.

Nel mese di settembre avviene il passaggio, lo scambio della bandiera, che esce dalla casa del vecchio maestro di festa per entrare nella casa del nuovo, che la custodirà con l'orgoglio di essere stato designato dal comitato a sovrintendere alla buona riuscita delle fasi della festa che culminerà nella sfilata, cerimonia molto sentita e seguita dalla cittadinanza accompagnata dalla fanfara, e dalla ideale benedizione di San Paolino sotto il cui monumento avviene lo scambio, accompagnato da musiche e spari. Il maestro di festa assieme alla sua famiglia deve, quindi, scegliere il mastro costruttore dell'obelisco, che presenterà i suoi bozzetti e avrà un acconto sulla somma pattuita. Queste macchine hanno una durata effimera perché alla fine della stessa festa i gigli saranno abbattuti per poter essere ricostruiti nuovamente l'anno seguente, secondo un rituale simbolico di morte e rinascita che richiama la ciclicità degli eventi quotidiani attraverso la rinnovata esperienza creativa della costruzione annuale degli obelischi.

La questua

La lunga, laboriosa e costosa preparazione della festa presuppone l'esistenza di un buon comitato organizzativo ma soprattutto la designazione a maestro di festa, che si presuppone abbia una buona capacità di organizzazione economica per affrontare l'impegno di spesa spesso ingente che la costruzione del giglio comporta. La collaborazione spesso può essere assolta anche gratuitamente in funzione di uno sforzo comune finalizzato verso un unico obiettivo condiviso, la buona riuscita di una festa che di anno in anno segnerà la propria fine per riproporre subito dopo il proprio ritorno, nel suo continuo disfarsi e rifarsi stagionale.

A primavera iniziano le questue, anche queste annunciate dalla banda musicale che con il comitato e i cittadini sfila per le vie della città. Dopo aver reso omaggio al santo, il corteo si inoltra nel cuore della città passando per i negozi e le case dei conoscenti che offrono il loro contributo ricevendo in cambio vari doni che caratterizzano quel Giglio o quella famiglia di maestri di festa. La raccolta continua dopo il pranzo, detto a tavuliata, consumato in un ristorante dove, oltre al comitato e alla banda musicale, i maestri di festa invitano altri commensali che faranno la loro offerta nominativa, puntualmente registrata dai maestri di festa. Alla fine verrà pubblicamente dichiarata la somma ricavata, dato importante per stabilire la forza economica del comitato preposto al giglio di quella corporazione. Così fino ai primi di giugno ogni maestro di festa, per un solo giorno, procederà alla questua con queste modalità, mentre al giglio dell'ortolano è consentito di prolungarla per otto giorni, per raccogliere denaro anche nelle campagne e in periferia.

La costruzione delle macchine

I Gigli devono essere solidi e flessibili nel contempo, per poter anche ballare, obbedendo agli ordini del capo della paranza, cioè della squadra dei circa 120-8 uomini, chiamati cullatori, vestiti con la maglia caratteristica del proprio giglio. Sono loro che dovranno trasportarli a spalla per tutta la durata della sfilata, facendoli danzare al ritmo della banda musicale posta sulla base di ogni giglio.

Elemento centrale dello scheletro di legno di ogni giglio è la borda, l'asse centrale, un palo lungo circa 25 metri, composto da quattro parti bullonate con perni e chiodi, intorno al quale si costruiranno i vari elementi della macchina. La costruzione dell'obelisco è un'operazione molto delicata cui presiede il maestro di festa, spesso il capoparanza e parenti e amici membri del comitato. La lunga borda, innestata sulla base quadrangolare del giglio, che misura circa 3 metri di altezza, dovrà essere perfettamente perpendicolare a questa. Alla base si pongono le varre, otto barre di circa sei metri e del diametro di 12 cm. in legno di castagno, che serviranno ai portatori per sollevare il giglio, e i varrielli, o varritielli, pali più piccoli e sfilabili all'occorrenza per il passaggio nei vicoli più stretti. Ultimata la costruzione, dopo aver montato i sei pezzi che formano il prospetto della facciata, il giglio risulta di un peso complessivo di circa 20 quintali e di 25 metri di altezza.

All'altezza di circa due metri, verrà costruita la piattaforma destinata ad ospitare la divisione musicale composto in genere da due cantanti, strumenti a fiato tra cui il sassofono è il principale, una tastiera elettronica, chitarra elettrica e percussioni. La musica, con vecchie e nuove canzoni composte e incise ogni anno per l'occasione, è un elemento fondamentale della manifestazione: già dalla domenica precedente il 22 giugno le bande musicali accompagnano le paranze che trasportano i gigli spogliati, ovvero le nude strutture di legno, fino alle abitazioni dei maestri di festa, dove si faranno ulteriori collaudi, è il giorno in cui si provano le spalle e il giglio.

La vestizione dei gigli

Nei giorni precedenti la festa religiosa, inizia la vestizione dei gigli, la cosiddetta addobbatura, con la struttura in cartapesta che serve per rivestire questi alti obelischi di legno: sono i pezzi che sapienti maestri artigiani hanno preparato nelle loro botteghe d'arte. Oltre agli immancabili San Paolino e San Felice che dovranno essere montati su ogni giglio, ci sono angeli, santi, cuspidi gotiche, decorazioni barocche in gesso e cartapesta, ma anche soggetti presi dal mondo dello sport e dall'attualità. Non esistono precise regole che limitano la creatività dei maestri di festa e dei loro progettisti. Gli scheletri di legno vengono così rivestiti con i pezzi trasportati per mezzo di una carrucola posta in cima al giglio e azionata dagli operai che fissano i pezzi facendoli scorrere con le funi.

Terminato il lavoro, finalmente tutti possono ammirare i soggetti scelti, per valutarne anche il lavoro eseguito. La figura di San Paolino è generalmente ospitata in una nicchia nel secondo elemento di ogni giglio, mentre in cima è posizionata una statua sacra, o quella dello stesso Paolino, o una croce. Ogni macchina rivestita pesa ora circa 40 quintali, il doppio di un giglio spogliato, anche se i bassorilievi in cartapesta ricoprono generalmente solo una delle tre facciate del giglio, mentre in passato le ricoprivano tutte e quattro. Il maestro costruttore è pronto a consegnare il giglio vestito al maestro di festa che chiude il contratto versando il resto della somma pattuita. In ogni rione comincia, allora, la festa intorno ad ogni giglio, i comitati sfilano per le vie della città tra canti, musiche, brindisi e scambi di omaggi tra i vari rioni ospitanti i gigli. All'alba della domenica tutto è pronto per la sfilata.

La domenica della festa

La domenica mattina alcuni gruppi che possono essere formati dagli uomini della paranza insieme al capoparanza e alle squadre dei caporali, iniziano all'alba a sistemare le varre legandole alla base, secondo un delicato rituale che è chiamato "allazzatura della varre". Il capoparanza provvede alla distribuzione dei cullatori sotto al giglio, scegliendo coloro che andranno a varriello, a varra o a punta 'e varra, cioè all'inizio della varra. Le varre vengono legate alla base e sono fisse, mentre i varrielli si possono sfilare in qualsiasi momento, a seconda del percorso più o meno stretto che i gigli devono intraprendere. Dopo la benedizione di ciascun giglio, tutto è pronto perché gli obelischi si muovano e il capoparanza si disponga davanti al giglio per far seguire alla paranza il ritmo della musica, imponendo gli ordini rituali. Una volta sollevati i gigli, tra ali di folla assiepata lungo le strade e sui balconi delle case, il corteo si dirige verso la piazza dove gli otto gigli e la barca entrano ad uno ad uno e si dispongono nel posto stabilito davanti al Duomo. Qui si assiste a una suggestiva esibizione dei gigli consistente in una ballata in cui ciascun giglio mette in scena una performance danzante davanti al Duomo, spesso conclusa sulle note dell'Ave Maria o dell'inno a San Paolino.

La piazza è gremita da una folla esultante e verso le tredici al suono delle campane si apre la porta della Cattedrale dalla quale esce il Vescovo seguito dal settecentesco busto argenteo di San Paolino portato a spalla da un gruppo di uomini. La parte religiosa si chiude con la benedizione dei gigli e della barca, che avviene tra uno scroscio di applausi e la commozione dei presenti. Nelle prime ore del pomeriggio si dà inizio alla ballata, i gigli nel loro tradizionale percorso attraverso le strade e gli stretti e insidiosi vicoli della città, sfilando nel seguente ordine: Ortolano, Salumiere, Bettoliere, Panettiere, Barca, Beccaio, Calzolaio, Fabbro e Sarto. Terminano la loro esibizione quando l'ultimo giglio, il Sarto, esce dallo stretto vico di Piciocchi, a tarda notte o, come ormai succede sempre più spesso, nelle prime ore della mattina successiva. La bravura e l'abilità delle paranze consistono nello sforzo di mantenere la stabilità del giglio durante tutto il percorso e di farlo ballare seguendo l'andamento della musica, il cui ritmo aumenta in un crescendo vorticoso sulle spalle dei cullatori. Il comando principale è il "cuoncie cuoncie e ghièttalo!" (piano, piano e posalo), oggi si arriva a pronunciare a stento "cuoncie cuoncie e ghiètt". Un ordine che prelude ad un virtuosismo della paranza è il nummero ddòje (numero due), che consiste nel rialzare di nuovo il giglio appena lo si è posato, anche se oggi è sempre più in disuso.

Testo: C. Peluso (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

San Paolino

L'episodio che la sfilata dei Gigli per le vie della città rievoca vede protagonista il vescovo di Nola Paolino che, tra il IV e il V secolo, durante le invasioni barbariche, si reca in Africa offrendosi al posto del figlio di una vedova che lo supplicava di aiutarla a riscattare il figlio prigioniero. Incaricato di coltivare gli orti del genero del re, arte che lui stesso dichiara essere l'unica a lui congeniale, ottiene dei risultati straordinari guadagnandosi stima e rispetto del sovrano che, scoperta la sua identità, gli concede di tornare in patria con altri concittadini di Nola liberati dalla schiavitù. È san Gregorio Magno a divulgare la leggenda del ritorno di Paolino dall'Africa nel terzo libro dei Dialoghi, un racconto che sembrerebbe anacronistico per il riferimento all'invasione dei Vandali, posteriore di circa venti anni alla morte di Paolino avvenuta il 22 giugno 432, ma il valore documentario della narrazione, peraltro non suffragata da altre fonti storiche, risulta interessante per il legame che permette di istituire con l'ordine di sfilata dei gigli, il primo dei quali dall'Ottocento ad oggi è quello dell'ortolano, durante la festa in onore di San Paolino. È probabile comunque che Paolino sia stato realmente ostaggio dei Visigoti che invasero l'Italia ai primi del V secolo, al tempo della sua elezione a vescovo di Nola, e questo episodio divenne fonte di leggenda con la storia della volontaria prigionia e liberazione. La descrizione di quel festoso entusiasmo con cui i Nolani offrirono corone di fiori a Paolino che tornava per mare dall'Africa portando i prigionieri liberati, fornisce i fondamenti, storici e mitici insieme, di questa celebrazione che appare particolarmente complessa e le cui origini più antiche sono probabilmente da rintracciare in un antico rito agrario, che avveniva in concomitanza con il solstizio d'estate, trasformatosi poi in festa cristiana.

Una città e il suo santo

Nola, città di origine ausona, nel VI secolo con Capua roccaforte etrusca passa ai Sanniti, che la chiamano Novia, città nuova. Durante la seconda guerra sannitica è alleata di Neapolis, dalla quale aveva assorbito la cultura ellenica, contro Roma e nel 311 a.C. viene espugnata da Q. Fabio diventando poi confederata di Roma. Dopo la battaglia di Canne è la principale base di operazioni dei Romani contro i Cartaginesi e viene inutilmente assediata da Annibale. Conquistata a tradimento dai Sanniti, è di nuovo occupata dalle truppe romane al comando di Silla e prende il nome di colonia felix Augusta Nolana. Nel 14 nella casa dei suoi avi muore l'imperatore Ottaviano Augusto. Divenuta una delle più importanti città della Campania negli ultimi tempi dell'impero, dopo la distruzione nel 455 subita dai Vandali di Genserico, non riesce più a riacquistare l'antica importanza. Nola è legata a S. Paolino per essere stata la sua sede episcopale dal 409, a lui si attribuisce l'invenzione delle campane per chiamare a raccolta i fedeli, dette nel medioevo nolae o campanae (della Campania), che figurano nello stemma della città.

Pontius Meropius Paolinus, nato a Bordeaux tra il 354 e il 355 da nobile famiglia con possedimenti non solo in Francia, ma anche in Spagna e in Italia, presso Fondi e a Nola, diviene governatore della Campania, scegliendo Nola come sua residenza. Si sposa con Terasia, dalla quale ha un figlio che però muore dopo otto giorni. Grazie alla moglie decide di ricevere il battesimo a Bordeaux a 35 anni, viene consacrato sacerdote a Barcellona, ritirandosi poi definitivamente a vivere a Nola, dove viene proclamato vescovo, seguendo la vita leggendaria di Felice, un prete molto venerato che era vissuto in quei luoghi e la cui tomba nella vicina Cimitile era meta di un continuo pellegrinaggio.

Nel 432 Paolino muore: l'esempio della sua vita consacrata ai poveri e la sua autorità religiosa in un'epoca difficile per la chiesa ne decretarono l'eterna memoria e la sua santità legata alla città di Nola. Nonostante le spoglie di Paolino siano state oggetto di traslazioni successive, da Cimitile, presso la tomba di San Felice, a Benevento e poi a Roma, nella chiesa di San Bartolomeo all'isola Tiberina, per essere poi riportate a Nola nell'anno dell'inaugurazione della nuova cattedrale, il 15 maggio 1909, per volontà di Pio X, i festeggiamenti in onore di Paolino si celebrarono ininterrottamente, almeno dal 1500, secondo i cronisti del tempo.

Le cronache

È la cronaca cinquecentesca di Ambrogio Leone, insieme a quelle di altri autori del sei e settecento, Andrea Ferraro e Gianstefano Remondini, ad offrirci i più antichi documenti sullo svolgimento della festa in onore di San Paolino. È il Remondini che introduce per primo il termine "gigli, come volgarmente son detti" definendoli "certe macchine a forma di globi, di piramidi, di navi o simil altre cose, tutte adorne d'innumerevoli garofani, tra i quali pende l'insegna di lor' arte in memoria di quando sparsasi per la città la grata novella", i cittadini uscirono dalla città come si trovavano e gli artigiani non fecero in tempo a deporre gli attrezzi da lavoro per correre a salutare il loro vescovo Paolino che ritornava dall'Africa.

Gregorovius nella prima metà dell'Ottocento, assistendo personalmente alla festa, rimane colpito da «un'altissima torre, rivestita di oro scintillante d'argento e di rosso, alta cinque piani, elevata su colonne, adorne di fregi, nicchie, archi e figure...la torre oscillava qua e là sulle spalle di circa trenta portatori, nel piano più basso sedevano ragazze incoronate di fior, al centro un coro di musicanti con trombe, timpani, triangoli e cornette eseguivano una musica assordante... Anche da un altro lato giungeva una musica rimbombante e vidi, sorgere sopra le case,un'altra torre, poi un'altra ancora... ne vennero nove in direzioni diverse, tutte con la stessa altezza tranne una che era alta 25 metri e che apparteneva alla corporazione dei contadini... Un attributo che pende dal fregio della nicchia centrale indica a quale arte appartengano i vari obelischi; sul giglio dei mietitori si vedeva una falce, su quello dei fornai due grandi ciambelle, su quello dei macellai un pezzo di carne, una scarpa su quello dei calzolai, un formaggio per i pizzicagnoli ed una bottiglia per i vinai. Gli obelischi si dirigevano verso la Cattedrale, seguivano poi una nave sulla quale era un giovane vestito da turco con in mano un fiore di melograno, dietro, un gran bastimento da guerra con un giovane in vesti moresche e sul tribordo, inginocchiata davanti all'altare, la figura di san Paolino».

Lo spettacolo del ballo di queste torri davanti al Duomo al suono di una musica assordante e al comando di un uomo che camminando davanti ai gigli dava il tempo, fa pensare ad uno spettacolo pagano, annota Gregorovius, che ironizza sul contrasto tra quello che avviene fuori, sulla piazza mentre "all'interno della cattedrale il vescovo di Nola, impassibile e con la più grande calma, celebrava la messa cristiana che i fedeli, senza lasciarsi turbare, ascoltavano in ginocchio". Nella descrizione del viaggiatore ottocentesco De Boucard lo scrittore annota che "ciascun giglio è sostenuto da 16 facchini, ma il più grandioso è quello dell' ortolano, trasportato da trentasei".

Si deve arrivare al 1891 per leggere in un documento di cronaca che "la ballata dei gigli" si svolge nella prima domenica successiva al 22 giugno e con queste modalità la festa è stata mantenuta fino ad oggi, salvo piccole variazioni di percorso lungo le vie cittadine. Anche l'ordine di sfilata dei Gigli è rimasto sostanzialmente lo stesso: il primo giglio è quello dell'ortolano; seguono quelli del salumiere, del bettoliere e del panettiere, quindi, dopo il passaggio della barca di San Paolino, sfilano i gigli del beccaio, del calzolaio, del fabbro e del sarto.


Foto: V. Contino, 1969
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: E. De Simoni, 2005
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia



"I Gigli di Nola". Video realizzato nell'ambito del progetto "Alternanza scuola/lavoro" al Museo delle Civiltà - Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, con il Liceo ginnasio statale Giulio Cesare, Roma. Realizzazione a cura di: Chiara Bruschi, Francesca Calvano, Lucia Cristofari, Cristina Fraschetti, Giulia Tuninetti, Caterina Valentini, Flavia Vicentini. Coordinamento di: Francesco Aquilanti con la collaborazione di Emilia De Simoni e Gianfranco Calandra. Riprese di Emilia De Simoni - Nola 25 e 26 giugno 2005

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Madonna della Neve a Ponticelli

5 AGOSTO O DOMENICA SUCCESSIVA

Storia di processioni e di feste

Nel lontano 352 d. C., Papa Liberio e i nobili romani Augusto e Livia avrebbero fatto lo stesso sogno: un manto di neve avrebbe ricoperto il colle Esquilino il 5 agosto. Tutti si sarebbero dovuti adoperare per costruire un tempio alla Vergine Maria. Da quella prima chiesa mariana si sarebbe diramato, per vie quasi sempre sconosciute, il novello culto alla Madonna della Neve. Solo un secolo dopo, papa Sisto III rifondò l'antico tempio, al quale fu dato il titolo di Santa Maria Maggiore, e s'iniziò una devozione ad una delle più antiche immagini mariane, venerata pure come Madonna di S. Luca. Il culto e la festa di Ponticelli (Napoli) s'incastonano in quest'antica tradizione. Quando nel 1988 si volle celebrare con solennità il II Centenario della proclamazione a Patrona di Santa Maria della Neve, si ricrearono le condizioni atmosferiche della nevicata storica. Il 5 agosto, in quella stessa strada che aveva accolto nel lontano 2 agosto 1914 una folla straripante per incoronare la Regina di Ponticelli, si volle esperire l'aurora della devozione sorta sull'Esquilino. La statua della Madonna della Neve fu portata giù dal palco e s'accompagnò con i fedeli oranti.

La Bandiera

La prima convocazione popolare avviene nel mese di giugno, nella domenica che la Chiesa dedica all'esaltazione dell'Eucarestia con la processione del Corpus Domini. I fuochi d'artificio e la banda annunciano ai ponticellesi e ai paesi vicini che fervono i preparativi per la nuova festa. Una piccola folla si raduna e si moltiplica nell'attesa dell'inizio della processione. Dalla Chiesa escono i ministranti con il Parroco, poi si fanno strada gli uomini del Comitato, che sorreggono un drappo dipinto con l'Immagine di S. Maria della Neve. È un tessuto di m. 2,20 x 1,40 ruvido, trattato per resistere all'ingiuria atmosferica. Lungo tutto il XX secolo si sono susseguiti molti pittori per decorarlo, ma nessuno più ricorda il nome del primo. Fino a poco tempo fa, la Bandiera della Madonna della Neve veniva portata a braccia, non issata, ma sorretta. Oggi, si segue un nuovo rito. La Bandiera viene fissata su un baldacchino ornato di fiori e trasportato a spalla. Fino alla domenica della festa, resterà issata in bella vista non per sventolare, ma per indicare alla folla quotidiana che percorre la strada una certezza ed un programma.

La Festa e il Carro

Le statue della Madonna della Neve sono due: la prima è la scultura lignea policroma, alta m. 1,75: la Madonna, in posizione eretta, regge sul braccio destro il Bambino e con la mano sinistra un pugno di neve. L'ampio manto e il regale vestito luccicano di oro zecchino.

La seconda statua, invece, è un manichino. Risponde ai canoni di fattura delle statue di fine '700 ed è stata creata per essere trasportata. Il corpo è una struttura in legno e canapa, ricoperta di preziosa veste, saldamente ancorata su una base circolare. La testa e le mani sono armoniose sculture lignee. Il Bambino, anch'esso ligneo, fu rubato nella notte tra il 29 e il 30 novembre 1977. Questa è la statua che portata a braccia dai preti di Ponticelli viene issata alla sommità della macchina da festa tramite un ascensore manuale interno.

La liturgia celebra la Madonna della Neve il 5 agosto. Dall'alba al tramonto il popolo canta il suo culto alla Vergine, partecipando alla Celebrazione Eucaristica. La domenica successiva al 5 agosto, Ponticelli vive ilgiorno del trionfo. La domenica del Carro è il giorno della folla assiepata. Tutti seguono con gli occhi il movimento della lunga piramide. Fissano l'immagine della Madonna e ne individuano ogni sussulto, ogni sbandamento.

Il Carro, un'alta torre rettangolare a forma piramidale diversamente istoriata, anno dopo anno, da un artista - scelto attraverso un Concorso Nazionale per il Progetto Decorativo del Carro della Madonna della Neve di Ponticelli - viene portata per le strade dell'antico comune. Alla sommità del Carro si fissa la statua della Madonna della Neve. Se per un anno intero i fedeli vanno in chiesa, ora è Maria che passa tra le case dei ponticellesi, che aspettano senza mangiare, che adornano i balconi, che applaudono e manifestano la loro gioia anche attraverso gli scoppiettanti fuochi d'artificio. È l'esternazione dell'entusiasmo che cerca di caricarsi di fede autentica e quotidiana.

Da sempre il Carro è trasportato in piena libertà dai devoti. Quando il loro numero è sufficiente si procede con speditezza. Ma quando appaiono i vuoti si vivono momenti di ondeggiamento pericoloso e lo sguardo del popolo altalena velocemente dai muscoli sudati dei portatori allo svolazzante manto della Vergine. Ci sono tantissimi giovani. A guardarli bene, prima che s'immergano nel sottofondo della materializzazione della devozione, non ti spieghi perché lo facciano. Hanno altre idee e comportamenti, talvolta agiscono in modo dissacrante, eppure sono lì, sotto il Carro. Nessuno può dire quante persone occupano quei sette metri quadri. È una bolgia irrespirabile di calore e di sudore. Movimenti all'inizio umani, ma poi solo meccanici. Volontà di spingere di muovere di trasportare nell'attesa di captare la voce rauca, stanca, ma determinata di chi per generazioni ha scandito la reazione del sistema muscolare dei portatori: aìze... posa. Soltanto all'ultima posata, radicale autoaffermazione sul dolore, si sperimenta l'immediata certezza che lo sforzo, apparentemente senza legge, ha avuto ragione dell'impossibile.

Così, tra le undici e le diciannove, si snoda una processione lenta e intensa, ricca di emozioni, di pathos, di sussulti e di speranze. A sera, una folla oceanica accoglie il Carro che incede affaticato, ma solerte, in una piazza avida di festa e attende paziente che la statua venga riportata giù per passare sotto una pioggia di petali, tra preghiere gridate. Tutti sciamano solo quando la Vergine del Carro ha riconquistato il suo trono. Un altro anno si aggiunge come tessera multicolore nel mosaico del vissuto del popolo ponticellese.

Testo: G. Mancini (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

Ponticelli

Ponticelli, appollaiato sulle sue prime pendici del Vesuvio per difendersi dalle Paludi di Napoli, si è lentamente sviluppato a partire dall'alto Medioevo intorno ai corsi d'acqua dell'antico Sebeto dove la vita quotidiana si districava in migliaia di orti, segnati da mulini e da fiumicelli, fonte di vita e di distruzione. La fantasia degli abitanti aveva inventato tanti ponticelli, dai quali deriva l'antico nome del paese, Ponticello, per affermare una continuità di comunicazione su vie interpoderali, sempre minacciata. Così, avrebbero potuto raggiungere la casa dei parenti o le poche cappelle disseminate nelle campagne per manifestare la loro fede e la loro devozione mariana. Almeno una volta all'anno, forse due, i contadini, caricati i loro carretti, raggiungevano a Napoli i monasteri padroni per soddisfare le clausole d'affitto.

Ponticello sviluppò una una organizzazione urbanistica essenzialmente rurale, localizzata lungo le direttrici naturali delle vie interpoderali. Queste restavano tracciate quando i contadini arginavano i loro orti con barriere di piante, divenendo il letto naturale dell'acqua, che veniva giù copiosa nei mesi invernali. La piana a nord, orograficamente più infossata, costituiva la ricchezza della regione, a sud, su un leggero declivio, s'impiantò lentamente questa nuova realtà abitativa. I gruppi familiari abbandonarono gli antichi insediamenti nelle paludi e si trasferirono compatti per parentela e per provenienza sui nuovi siti, ai margini della via prescelta. Piccole comunità crearono piccole isole che accolsero uomini ed animali domestici.

Due erano le direttrici che risalivano la china e al loro incontro s'inerpicava dolcemente il primo tratto della via che raggiungeva la più antica e nobile via sommese, parte del sistema viario romano. I due bracci convergenti nell'unico corso, disegnarono la pianta topografica di Ponticello.

Lì, fu costruita la prima Cappella, culla del culto, della devozione e della festosa celebrazione popolare della Madonna della Neve. Tutto ciò era una meravigliosa realtà già nel XV secolo. Nello stesso periodo in cui il piccolo villaggio si trasformava in Università e poi in Casale, si verificò un incremento demografico significativo e quella originaria Cappella non fu più ospitale ad accogliere tutti i devoti abitanti, forse un centinaio circa alla fine del XIII secolo ed alcune centinaia alla fine del XV.

All'alba del XVI secolo, l'Università di Ponticello fece costruire secondo le sacre disposizioni una chiesa sotto il titolo di S. Maria della Neve. Nel 1598 l'antica cappella era stata ampliata. Due erano le navate e non più una. Un corredo inaspettato arricchiva questa comunità: la fonte de battezzare di pietra bianca lavorata, una vasca arricchita di bassorilievi marmorei su colonna, e un organo a quattro registri.

La novità maggiore consisteva in un investimento cultuale, culturale ed economico che ha segnato la storia di Ponticelli in modo perenne: il fedele che frequentava la nuova chiesa per manifestare la sua fede era accolto da un trittico improprio, ma certamente accattivante per la bellezza singolare degli elementi composti sull'altare maggiore: la Statua lignea di Maria della Neve con il Bambino sul braccio destro e ai due lati le tavole lignee di S. Pietro e S. Paolo.

La devozione a S. Maria della Neve non ha conosciuto interruzione di sorta nei secoli successivi, assumendo un ruolo singolare sia nel secolo XVII, quando le fu riconosciuta pari dignità con la celebrazione di Natale e di Pasqua, sia nel XVIII, quando fu decretata come festa di precetto.

Nel 1914 si concluse un'ulteriore tappa nel cammino devozionale: il sommo privilegio, concesso dal Capitolo Vaticano, dell'Incoronazione dell'immagine della Madonna della Neve venerata a Ponticelli e famosa per i miracoli. La cerimonia si svolse il 2 agosto 1914 in una cornice di folla straordinaria, sulla pubblica ed ampia strada che oggi si chiama Viale Margherita, sotto un monumentale baldacchino imposto dalla Curia Napoletana.

L'ultima meta auspicabile, ed anche raggiunta, era l'elevazione del Tempio a Basilica Minore. Inoltrata la richiesta nel 1988, in occasione del II Centenario della proclamazione della Madonna della Neve a protettrice di Ponticelli, il 27 luglio di quell'anno S.S. Giovanni Paolo VI sottoscrisse il Breve Pontificio, decidendo di accogliere la richiesta comune del Clero e dei Fedeli di elevare al grado e alla dignità di Basilica Minore il tempio dedicato alla Beata Vergine della Neve nel quartiere Ponticelli dell'Archidiocesi di Napoli.


Foto: Comitato festeggiamenti Maria SS. della Neve di Ponticelli, 2006
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

 

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San Silvestro a Sessa Aurunca

31 dicembre

Il Buco Buco di Sessa Aurunca (Caserta) è un canto di strina eseguito il 31 dicembre che, iniziando al calar della sera, e portando le squadre di corte in corte alla ricerca delle offerte spontanee degli abitanti, sfocia in una manifestazione collettiva nel punto di maggiore slargo del comune di Sessa Aurunca, dove ad attendere le squadre di bucobuchisti vi è la stragrande maggioranza della comunità sessana.

Le squadre in qualche modo competono tra loro, sfoggiano divise diverse per essere riconoscibili, costumi che variano di anno in anno per ogni squadra (e che fruttano spesso simpatici nomignoli alle stesse), si impegnano per offrire le voci migliori, il maggior numero o la migliore qualità possibile degli esecutori di questa sorta di bande musicali, due sole cose le accomunano, ossia il canto (nel testo come nella melodia) e lo strumento che dà il nome al rito ed a tutti gli elementi presenti in esso, e cioè il buco buco. Così ce lo descrive Alberto Virgulto partecipe dei riti della comunità di cui è parte nota e riconosciuta come custode del rito ed artefice della riproposizione dello stesso: "Lo strumento musicale classico della tradizione aurunca è senza dubbio ru Zuchete - zu (Puti - pu). voce onomatopeica che si riferisce al particolare suono emesso da questo strumento musicale popolare, diffuso nell'Italia Meridionale. Viene anche detto Struglio o Buco - buco. Si tratta di un tipico tamburo a frizione di antichissima origine. Costituito da una canna preventivamente legata e fissata al centro di una struttura cilindrica, ossia su di una botte di piccole dimensioni che ricoperta di pelle funge da cassa armonica. facendo scorrere la mano bagnata lungo la canna la pelle sottostante produce un suono cupo, ingigantito dalla cassa armonica. Questo tipico strumento musicale serve a cadenzare il ritmo nelle varie melodie".

Il Buco Buco

Ma leggiamo come la nostra guida prosegue il racconto della tradizione del Buco Buco: "Questo singolare ed arcaico attrezzo è costituito da un recipiente di legno, rivestito nella parte superiore da una tela dalla quale fuoriesce un'asticella che è manovrata da un suonatore che delicatamente la stringe e muove con movenze ritmiche che si basano su di un cadenzato movimento di sfregamento e scivolamento della mano lungo tutta l'asta, inumidita dall'acqua. Tale movimento genera il suono tipico dello zuchete - zu. Prettamente maschile è la partecipazione collettiva che costituisce il gruppo. Il suono, che si protrae per trentadue strofe con un ritmo sempre uguale, trova il suo acme nel finale, caratterizzato dal cambiamento spasmodico di esso, da binario a ternario; la mano del suonatore intensifica lo scivolamento sull'asta e culmina con la "contata", vero atto liberatorio .Oltre alla contata e al movimento dello zuchete zù in alcune realtà locali maggiormente si evidenziano precise movenze sceniche. A Corigliano, piccola frazione del Comune di Sessa Aurunca, ad esempio i componenti del gruppo e i zuchezuchisti accompagnano l'intercedere del suono e delle parole con un movimento sussultorio del bacino. Nella composizione della formazione, schierata per la partenza, i componenti si dispongono gradualmente in fila con a capo il mazziere che tiene tra le mani la "mazza" che secondo la credenza popolare ha la funzione di inseminare e fertilizzare il territorio percorso. L'atto finale si manifesta con il cambiamento di tempo e con l'assunzione da parte dei componenti del gruppo, di una disposizione circolare, lasciando all'interno del cerchio solo il Mazziere e il suonatore di Zuchete - zu (o Buco Buco) nel loro sensuale movimento, fino all'apogeo della "contata", prima cadenzato dalla sola voce solista, poi dall'intera banda: "1,2,3,4,5,6,7,8,9,10" vero e proprio atto liberatorio di gruppo."

Il Buco Buco

Si noti come Virgulto specifichi che le squadre sono formate esclusivamente da uomini, induco a questa osservazione il lettore, o semplicemente gli comunico questo dato, per rendergli noto come nell'anno 2008, per la prima volta nella memoria fino a noi giunta di questa tradizione, una donna abbia preso parte ad una delle squadre nel ruolo, centralissimo, di cantante, generando stupore e curiosità all'interno della comunità sessana. Tuttavia le evoluzioni, espressione che trovo più corretta rispetto a "le novità", non intimoriscono eccessivamente gli attori di questa tradizione, come ci spiega lo stesso Virgulto il Buco Buco ha conosciuto "aggiunte ed riadattamenti dettati dalle esigenze dei tempi. modificandosi nel corso dei tempi sia nella struttura musicale che nel testo originale, arricchendosi di nuove sfumature armoniche e di particolari immaginari, fondendosi con ele­menti di narrazione fantastica ed allegorica, Possiamo affermare quindi che il "Buco -buco", almeno nel capoluogo, si è arricchito e si è evoluto nel corso degli anni in tre parti musicali nei tempi di: 4/4, di 2/4 e di 6/8."

Chi scrive si rende conto che una variazione nella struttura ritmica o melodica del canto non equivale ad una modifica in quella rituale, ma una tale riflessione esula dalle possibilità di questo scritto, si lascia al lettore tuttavia una ulteriore informazione e, probabilmente, un ulteriore spunto di riflessione. Altro particolare interessante, raccontatomi da Alberto Virgulto, come da altri bucobuchisti, tra cui Giovanni Loffredo, anche cantore del miserere, è quello relativo ad una sorta di gerarchia, o di apprendistato, presente all'interno delle squadre dei bucobuchisti, difatti coloro che per la prima volta prendono parte alla squadra, generalmente bambini figli degli stessi componenti, non hanno il "diritto" di poter suonare lo zuchete'zu, si inizia trasportando l'acqua necessaria per inumidire l'asticella dello strumento, per poi accedere a strumenti intermedi come tamburelli, scetavaiasse e quant'altro, soltanto dopo un lungo apprendistato protratto di anno in anno si può giungere, avendone le capacità, ad assolvere ruoli importanti all'interno della squadra come quello di suonatore, di cantante, di suonatore di zuchete'zù o addirittura di mazziere. Per completezza va ribadito, come già emerso dalla narrazione fattaci dalla nostra fonte, che quella di Sessa Aurunca non è l'unica forma di Buco Buco eseguita tutt'oggi, Sessa consta di un numero elevatissimo di frazioni in alcune delle quali vengono eseguite differenti forme di questo canto di fine anno, a tal proposito precedentemente si è accennato al caratteristico Buco Buco di Corigliano.

Testo: A. L. De Simone (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione

 

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Carnevale a Montemarano

Il carnevale ha inizio con la ricorrenza di Sant'Antonio Abate, il 17 gennaio (a Santantuono maschere e suoni) ed ha termine la domenica successiva alle Ceneri, dopo un festeggiamento di tre giorni, con Carnevale morto.


 

Foto: A. Rossi, 1974-1975
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: M. Russo, 1974-1975
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Carnevale a San Michele di Serino

Il Carnevale Serinese si festeggia con la tradizionale "A Mascarata" ed è uno dei carnevali più rappresentativi della bassa Irpinia. Nato nella frazione di San Biagio, si festeggia in alcune frazioni del comune di Serino.


 

Foto: E. De Simoni e G. Torre (24 febbraio 2009)
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Carnevale a Bellizzi

MARTEDI GRASSO

Durante il Carnevale di Terlizzi si rivive la "Zeza", una scenetta carnevalesca, cantata al suono del trombone e della grancassa, che vide probabilmente la luce nella seconda metà del Seicento.


 

Foto: Università di Salerno 1974 - Rappresentazione della Zeza
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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San Rocco a Cinquefrondi

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San Rocco a Palmi

16 agosto

La festa in onore di San Rocco è la festa annuale più importante della città di Palmi ed una delle più importanti della Calabria. La festa richiama migliaia di fedeli, da tutti i centri vicini della Provincia. E' conosciuta anche per il "Corteo degli Spinati".


 

Foto: V. Contino, 1970
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: M. Marcotulli, 2000-2003-2004-2005
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

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Settimana Santa a Nocera Terinese

Sabato Santo

I Vattienti

Nell'ambito delle celebrazioni liturgiche nei giorni che precedono la Pasqua a Nocera Terinese (Catanzaro), una tradizione locale ancora oggi particolarmente sentita è quella costituita dalla lunga processione funebre del sabato santo, che ripropone il rito dei vattienti, eredi, forse, della tradizione medievale dei disciplinati, che esprimono la loro partecipazione al lutto collettivo attraverso una pubblica autoflagellazione con una intenzionale effusione di sangue.

Si tratta di un rituale penitenziale, ma anche spettacolare, praticato in segno di devozione o di voto per una grazia chiesta o ricevuta davanti al gruppo ligneo della Pietà, o come i noceresi preferiscono chiamarla, dell'Addolorata, una Madonna seduta con il figlio morto in grembo. I penitenti, cinti il capo con una corona di spine, si battono le cosce nude con due piattelli rotondi di sughero, su uno dei quali sono conficcate punte di vetro, il sangue sgorga abbondante e il loro sacrificio umano diventa un segno materiale di espiazione.

Il rito occupa un posto centrale nel calendario festivo nocerese e, nonostante i numerosi tentativi di proibizione da parte delle autorità ecclesiastiche, resiste e si ripete ogni anno, seguendo un rituale articolato e scandito secondo modalità consolidate da una antica tradizione culturale condivisa e seguita da tutta la comunità che esprime la sua partecipazione corale al dolore di una madre per la morte del figlio.

La processione del Sabato Santo

A Nocera Terinese il sabato santo si svolge l'interminabile e drammatica processione della Madonna Addolorata e del Cristo morto. La mattina del sabato esce dalla chiesa dell'Annunziata il corteo aperto da un fedele che porta la grande croce. che deve essere nascosta alla vista della statua della Pietà, è un "fratello", appartenente alla congregazione laica che gestisce l'intera cerimonia e che sembra derivare dall'antica Congregazione della Santissima Annunziata. A notevole distanza, per far in modo che la Madonna non scorga la croce, segue la Pietà lignea seicentesca, scolpita secondo la tradizione in un unico tronco di pero selvatico da uno scultore che perse immediatamente la vista per non poter più ripetere un simile capolavoro. La Pietà, seguita da migliaia di persone e portata a spalla dal gruppo dei fratelli - i membri della confraternita, che indossano un saio bianco e recano sul capo una corona di erba spinosa - viene trasportata in processione per l'intero paese con ritmo lento e cadenzato, effettuando soste presso le chiese, all'interno delle quali sono stati allestiti i Sepolcri, davanti ad edicole sacre, a case e negozi di fedeli. I due simulacri devono incontrarsi fino alla ridiscesa alla processione, cioè quasi al termine della cerimonia.

Mentre la processione si snoda lungo la via principale della città al suono della banda musicale che intona la jone, una sorta di marcia funebre, in vari punti dello spazio urbano, un gruppo di uomini si prepara ad un antico rito che costituisce la fase più singolare della cerimonia: si tratta dei flagellanti o vattienti, cioè di coloro i quali in segno di devozione si percuotono le cosce e le gambe fino a provocare una abbondante fuoriuscita di sangue, una penitenza che ha l'intento di purificare se stessi ed i propri cari dai peccati commessi.

La "preparazione" del il penitente consiste in un energico massaggio dei polpacci e delle cosce con un infuso di rosmarino, preparato precedentemente in una caldaia di rame, per rendere parzialmente insensibili cosce e gambe che percuoterà, durante la processione, con gli strumenti rituali, la rosa e il cardo, piattelli di sughero dello spessore di 5 cm e del diametro di circa 10, il primo liscio, il secondo provvisto di 13 schegge di vetro, dette lanze. L'abito rituale del vattiente consiste in un pantalone corto ed una maglietta di colore scuro, sulla testa il mannite, un largo fazzoletto nero sul quale poggia una corona di spine di asparago selvatico - sparacògna - intrecciato in modo da non provocare ferite. Legato al flagellante da una lunga corda, è il suo accompagnatore, Acci'om, l'Ecce homo, spesso un ragazzo od un bambino. Questi, generalmente parente del vattiente, porta sulle spalle una croce di legno con i bracci obliqui avvolta da bende e nastri di tessuto scarlatto, il suo abbigliamento rituale consiste in un panno rosso che dalla vita scende fino alle caviglie, è scalzo ed ha in testa la corona di spine ricavate da un arbusto detto spinasanta. Con loro è anche una terza persona, l'Amicu, il portatore di vino, che avrà il compito di versare, sulle gambe sanguinanti, vino misto ad aceto, per disinfettare, ma anche per impedire l'immediata coagulazione del sangue cghe esce dalle ferite.

Prima di uscire e di compiere la flagellazione rituale, il battente si arrosa, cioè si bagna le mani nell'infuso di rosmarino e si riscalda i polpacci delle gambe e delle cosce, poi si percuote con, e col cardo. Terminate le fasi preparatorie, i penitenti sono pronti ad uscire per le strade del paese per compiere la loro prima flagellazione in pubblico che avviene davanti all'edificio dal quale escono in strada. Dopo aver strofinato la parte con un ruvido tappo, il penitente si percuote le gambe prima con la rosa, allo scopo di far affiorare più velocemente il sangue nei capillari e poi con il cardo picchia sui punti arrossati per far scorrere lungo le gambe i rivoli di sangue con cui viene segnato il petto nudo dell'Ecce homo. Compiuto questo primo atto rituale, il vattiente, di corsa, insieme all'Acci'omu e all'Amicu si dirige verso il cuore della processione.

I Vattienti si muovono per le strade in gruppi o in coppie isolate precedendo o seguendo la processione e, all'improvviso, sbucano da una strada e si avvicinano al gruppo dell'Addolorata, i confratelli allora fermano la statua ed i flagellanti, dopo essersi fatti il segno della croce, possono dare dà a questo rito antico e cruento, versando il loro sangue ai piedi della Vergine che alla fine viene baciata in segno di adorazione. Concluso il giro, che può durare anche più di un'ora, i penitenti fanno ritorno al luogo dell'iniziazione e si lavano ripetutamente le ferite con l'infuso di rosmarino per favorire la loro rimarginazione, quindi, rivestiti di tutto punto escono nuovamente per unirsi al corteo che segue la Pietà.

La processione prosegue così al gran completo il suo lungo peregrinare e, nel ridiscendere, raggiunge per la seconda volta Pizzu Cacàtu, il luogo che nell'immaginario popolare simboleggia il monte Calvario. Qui il fratello che ha portato la grande croce sta attendendo la statua della Pietà che, giunta, viene posta su un tavolo precedentemente apparecchiato: la Madonna si ricongiunge idealmente a suo figlio, da questo momento il fratello che porta la grande croce non deve più nasconderla al suo "sguardo". Ripreso lentamente il cammino e dopo circa otto ore di pellegrinaggio, il simulacro della Pietà fa il suo rientro nella chiesa dell'Annunziata.

Il culto della Madonna Addolorata

Madonna Addolorata o Maria Dolorosa, l'Addolorata oppure Madonna dei sette dolori (Mater Dolorosa) sono tra gli appellativi con cui viene invocata dai cristiani Maria, la madre di Gesù. La tradizione popolare ha assimilato la meditazione dei Sette Dolori nella devota pratica della "Via Matris" che, al pari della Via Crucis, ripercorre le tappe importanti delle sofferenze di Maria per la passione e la morte di suo figlio. Le processioni penitenziali, tipiche del periodo quaresimale, comprendono infatti anche la figura della Madre dolorosa che segue il Figlio morto, l'incontro sulla salita del Calvario, Maria posta ai piedi del Crocifisso. Queste processioni assumono l'aspetto di vere e proprie rappresentazioni, fortemente coinvolgenti, specie quelle dell'incontro tra il simulacro di Maria vestita a lutto e addolorata e il Cristo crocifisso. A Nocera Tirinese questo rito si compie con una solenne e intensa partecipazione popolare.

La Settimana Santa

Il dramma della Morte e Risurrezione di Cristo viene celebrato in tutto il mondo cattolico con riti e funzioni secondo una liturgia ufficiale che ricorda gli ultimi eventi della vita di Cristo, dal trionfale ingresso in Gerusalemme nella domenica delle Palme, ai riti del mercoledì e del giovedì santo che prevedono la Missa in coena Domini con la lavanda dei piedi per ricordare l'istituzione dell'Eucarestia, e l'allestimento del sepolcro in una cappella dove viene conservata l'ostia consacrata. In ogni chiesa, la casa di Dio, i fedeli compiono la rituale visita ai sepolcri, una veglia funebre ad un defunto speciale, il Salvatore, cui si vuole partecipare il proprio dolore individuale. Gli altari sono spogli e velati, ma davanti al sepolcro ci sono fiori e vasi ornati di grano biondeggiante, fatto germogliare al buio, i piatti della Madonna, che rimandano sia ai rituali della Pasqua ebraica sia ai giardini di Adone, allestiti in segno di lutto per la morte dell' eroe, durante le antiche cerimonie per la sua morte e risurrezione. Le manifestazione di dolore e di lamento funebre culminano nelle processioni e sacre rappresentazioni del venerdì e sabato santo, in cui il popolo diventa protagonista, attore e spettatore insieme della commemorazione della passione e morte di Gesù.

Nocera Terinese

Nocera Tirinese o Terinese è situata a circa 5 chilometri dalla costa Tirrenica, presso l'estremità nord del golfo di Sant' Eufemia, su di uno degli ultimi speroni del monte Mancuso, che lentamente degradano verso il mare, alla confluenza delle due vallate del torrente Grande e del Rivale. Fu detta Tirinese dal vicino piano della Tirena (dal latino laterina, mattonaia), dove, secondo recenti studi storici, si ritiene che sorgesse la città di Témesa conquistata da Crotone alla fine del sec.VI a.C. Divenuta colonia romana, fu distrutta dai saraceni nel X secolo. La Porta della città, oggi chiamata "Porta Vecchia", era orientata a tramontana; al di sopra di essa era il castello, vera e propria fortezza. Nocera subì la dominazione normanna, quella spagnola ed in seguito quella francese. Il nome con cui è conosciuta attualmente è di coniazione piuttosto recente; in precedenza infatti essa veniva chiamata col nome di "Nocera di Calabria".

Testo: P. Izzo. Adattamento a cura della Redazione


Foto: M. Marcotulli, 2000-2006
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

 

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Santi Cosma e Damiano a Riace

SECONDA DOMENICA DI MAGGIO - 25-26-27 SETTEMBRE

La festa

I festeggiamenti nel Santuario di Riace (Reggio Calabria) si fanno risalire al 1669, quando le reliquie di san Cosma furono portate da Roma, ma Cosimo e Damiano furono istituiti Santi Patroni di Riace solo nel 1734. I Santi vengono festeggiati due volte l'anno secondo modalità differente.

La "festa di maggio" anche detta "festa del Braccio" coinvolge soprattutto la comunità di fedeli di Riace. Ogni anno, la seconda domenica di maggio, a ricordo di quanto accaduto al pastorello, le reliquie dei Santi vengono portate in processione al "castedu". Una teca d'argento a forma di braccio viene trasportata lungo un itinerario campestre attraverso i sentieri della campagna di Riace, dalla Chiesa Matrice fino a raggiunge la spiaggia di Riace Marina. Una volta giunti sulla spiaggia, la teca viene imbarcata e portata nei pressi di uno scoglio dove la tradizione racconta che sia rimasta l'impronta del piede di San Cosimo, dopo la traversata a nuoto dall'Arabia. Un tempo, durante il tragitto, i contadini, oggi i devoti che partecipano, deponevano sulla base dove è collocata la teca fasci di spighe di grano, piante di fave, di piselli e rami di ulivo, la processione veniva, infatti, intesa come rito propiziatorio contro la siccità.

La "festa di settembre", dal 25 al 27 del mese, coinvolge anche gran parte dei paesi limitrofi alla cittadina jonica, che giungono numerosi al Santuario, a piedi, ed è considerata unica nel suo genere per la grande partecipazione dei devoti Rom e Sinti della Calabria che vengono a venerare i Santi Cosma e Damiano insieme al Beato Zeffirino martire, di cui si conserva una effigie nel Santuario. Nel corso della festa di settembre le statue dei Santi medici sono portate in processione dalla Chiesa Matrice al Santuario per poi ritornare in paese al termine delle tre giornate.

I pellegrini pregano, cantano e portano doni sia per le grazie ricevute, sia nella speranza che i Santi medici accolgano le loro preghiere. Alcuni devoti trascorrono la notte nella Chiesa matrice, perpetuando così l'antico rito dell'incubatio.

Cartteristici del culto a Riace sono gli ex voto anatomici: proprie riproduzioni, benedette, in cera, delle parti del corpo guarite dai Santi -gambe, braccia, testa, cuore, ecc.- e dolci tipici di farina e miele. In alcuni casi, viene donato il "bambinello", quasi a voler consacrare, in segno di riconoscenza, ai Santi Medici la vita del bambino infermo da loro salvato. La fede nei due Santi medici è tale per cui ancora oggi alcuni bambini e qualche adulto veste con gli abiti dei Santi.

Il 25 mattina incomincia il rito lungo due percorsi di devozione paralleli, uno intorno al Santuario e l'altro dentro alla Chiesa Matrice a Riace. Fin dalle prime luci dell'alba da ogni parte della Calabria centinaia di devoti Rom e Sinti giungono al Santuario dove trascorreranno la notte danzando al suono della tarantella. In paese, intanto, nella Chiesa Matrice incominciano i festeggiamenti con il rito "e da calata e di santi" in cui le statue di Cosma e Damiano, vengono spostate dalla nicchia collocata sopra l'altare centrale, per essere esposte alla venerazione dei fedeli affinché possano toccarle ed offrir loro gli ex voto. La chiesa è addobbata con " u paratu", panneggi e decorazioni di stoffa e di carta colorata appesi ai muri, agli archi ed intorno alle statue. La chiesa lentamente si trasforma per la notte di veglia: l'arrivo dei pellegrini per: i fedeli pregano, cantano e, quelli venuti nella speranza di ottenere la grazia della guarigione dormono al suolo, compresi i più piccini, ripetendo l'antico rito dell'incubazione.

Il 26 mattina, al termine della veglia, i devoti Rom e Sinti partono dal Santuario, suonando e danzando, per raggiungere la Chiesa matrice dove i Santi stanno per essere portati fuori. I due cortei si uniscono sotto i Santi Cosma e Damiano. E' questo uno dei momenti più intensi della festa: la gente urla, applaude e tutti insieme i fedeli delle diverse comunità si preparano ad accompagnare i loro protettori al Santuario, danzando al suono dei tamburelli. Lungo il percorso i Santi ricevono di continuo offerte e voti, i bambini vengono protesi a toccare le statue per essere simbolicamente affidati alla protezione spirituale e materiale dei Santi miracolosi.

I Rom sono in testa al corteo danzando, i restanti fedeli chiudono il corteo, preceduti dal gruppo delle donne di Riace, dei paesi limitrofi e delle comunità Rom e Sinti che intonano canti e preghiere. L'apice della festa è segnato dall'arrivo al piazzale del Santuario. Tutti sono ormai uniti intorno a Cosma e Damiano, non esistono più differenze e divisioni. I Santi vengono portati sulla scalinata per essere mostrati ed ammirati da tutti i fedeli, i fuochi pirotecnici segnano l'ingresso delle statue nel Santuario. Una volta sistemati i Santi nel Santuario, come per incanto, tutta la comunità Rom scompare.

A sera ha inizio una nuova veglia, che stavolta si svolge al Santuario dove i devoti trascorrono la notte in preghiera interrotta da musica, canti e danze dei numerosi pellegrini accorsi per rendere omaggio ai Santi. Questa atmosfera di vitalità, gioia e spiritualità proseguirà fino al pomeriggio del 27 quando le statue in processione saranno riportate nuovamente alla Chiesa Matrice per rimanere là in attesa della prossima festa di maggio.

Rom e Sinti

La partecipazione intensa delle comunità Rom e Sinti della Calabria differenzia in modo sostanziale il culto praticato a Riace da quello praticato ai due Santi in molti altri luoghi d'Italia. Infatti si tratta del più grande raduno religioso di questa comunità, principale protagonista di questa straordinaria manifestazione di religiosità popolare. Ogni anno, fin dalle prime luci del 25, giungono in gran numero da ogni parte della regione, per venerare i Santi medici Cosma e Damiano riconosciuti loro protettori. Per questo motivo, la festa di San Cosma e Damiano a Riace è detta dagli abitanti del circondario "a festa di zingari". La loro presenza ha radici molto antiche, infatti in quanto grandi mercanti di bestiame, essi giungevano per la tradizionale fiera del bestiame che veniva fatta in passato in occasione della festa e che purtroppo da lungo tempo è stata interrotta.

Alcuni devoti indossano l'abito votivo mentre accompagnano la processione danzando. Animano con entusiasmo e trasporto la festa e mai come in tale occasione si assiste ad una fusione così spontanea e naturale con il resto della popolazione, mostrando come attraverso la devozione sia possibile abbattere le barriere razziali.

"a danza di curtegli"

La devozione di questo gruppo etnico si manifesta molto anche attraverso la danza. Nel corso della veglia del 25 settembre al Santuario, per tutta la notte organetti e tamburelli non cessano mai di suonare. La tarantella ballata a Riace può assumere anche il carattere di una danza armata "a danza di curtegli" più comunemente conosciuta col nome di "scherma". Si tratta di una danza esclusivamente maschile, dove gli uomini riuniti in una ronda delimitano e contengono lo spazio entro il quale balla una coppia chiamata ad esibirsi dal "Mastro di ballo". Chi balla esprime attraverso la tarantella la propria maestria e virilità. La coppia simula figure e movenze del duello a mano armata di coltello, danza che un tempo regolava dissidi, oltraggi o mancanze di rispetto. Oggigiorno i coltelli non si usano più e sono stati sostituiti dall'indice e medio della mano destra tesi a rappresentare l'arma. Gli uomini così duellano, simulando il combattimento, fino a che uno dei due contendenti venga toccato per tre volte dalle dita dell'avversario. Anche suonare per i Santi è considerato un onore, e questo rito viene eseguito fino allo sfinimento, fino a far sanguinare le mani.

Beato Zefferino Rom

Come già detto, nel Santuario di Riace è conservato un quadro raffigurante il Beato Zeffirino (Ceferino) Gimenez Malla detto "El Pelè" martire gitano, ucciso durante la guerra civile in Spagna. Fu proclamato beato da Giovanni Paolo II il 4 maggio 1997. Nato a Benavent de Sangría, in Catalogna, il 26 agosto 1861, fu fucilato a Barbastro, in Aragona, il 2 agosto 1936, per aver difeso un sacerdote. Si narra che fosse nato in una famiglia povera. Non va a scuola, ma impara a fare ceste, diventa esperto di muli e cavalli e spesso viene chiamato a fare da mediatore, essendo stimato per la sua sincerità e senso di giustizia. Un giorno aiuta un importante personaggio di Barbastro che, malato, era svenuto per strada. Unico, lo soccorre e porta a casa in spalla. La famiglia in segno di riconoscenza lo aiuta ad avviare una sua attività commerciale. Ormai affermatosi come personaggio buono e devoto, professa apertamente la sua religiosità, portando la sua testimonianza di fede soprattutto fra i membri della comunità Rom. Soccorre ed aiuta i più poveri e, pur non essendo andato a scuola, "legge" gli ammonimenti dell'apostolo Paolo ai Corinzi e realizza in sé la carità che "tutto copre, tutto crede, tutto sopporta". Diventato Terziario francescano, già in vita qualcuno lo definisce "santo". Quando nel luglio del 1936 viene arrestato ha 75 anni. Prega e a testa alta viene fucilato con in mano la corona del Rosario. Viene seppellito in una fossa comune con tutte le altre vittime della barbarie.

I Santi "Anargiri" Cosma e Damiano

I Santi Cosma e Damiano sono, in assoluto, i più importanti medici santi dell'antichità, tra i pochi a potersi fregiare del titolo di "anargiri" - che guariscono senza chiedere compenso. Protettori dei medici, dei farmacisti e delle professioni affini come i barbieri, le levatrici e i dentisti, sono per lo più rappresentati con la palma o con gli strumenti della loro arte. Sulla vita di Cosma e Damiano non si hanno dati storici certi, le poche notizie disponibili si possono rintracciare soprattutto nei Martirologi e nei Sinassari. Il loro culto, estesosi rapidamente a tutto il bacino del mediterraneo ed oltre, è molto antico e complesso e presenta numerose affinità con gli dei della medicina, i Dioscuri Castore e Polluce, Asclepio ed Iside medica.

I due Santi vengono festeggiati con date differenti a seconda delle tradizioni: la tradizione "asiatica", diffusa a Costantinopoli, li festeggia il 1 novembre; quella "romana", diffusa in Siria, il 1 luglio; quella "arabica", diffusa a Roma, il 17 ottobre. La Chiesa ortodossa, in linea con la tradizione orientale, li festeggia proprio in queste tre date. La Chiesa cattolica, invece, li commemora generalmente il 26 settembre, ma successivamente, in memoria della traslazione delle reliquie nella Basilica a Roma, la festività liturgica è stata spostata al 27 settembre.

Sulla nascita dei due Santi esistono molte leggende. Alcune versioni li ritengono gemelli, forse in analogia con il mito dei Dioscuri, ed identificano il padre nel martire cristiano Niceforo e la madre in una donna cristiana, Teodora o Teodata, che li educò alla fede insieme ai fratelli Antimo, Leonzio ed Euprepio. Teodoreto, vescovo di Ciro, in Siria, dal 440 al 458 d.C., - la fonte agiografica più antica - fa risalire la nascita dei due Santi, definendoli fratelli, alla seconda metà del sec. III d.C. a Egea, dove esisteva un tempio di Asclepio, dio della medicina, presso il quale i sacerdoti praticavano cure mediche anche attraverso la pratica dell'incubatio, un rito diffusissimo nell'antichità classica - sia in area greca che in area Italica - che consisteva nel recarsi presso il santuario, in stato di purezza, e dopo aver effettuato un sacrifico propiziatorio, nell' addormentarsi presso un luogo sacro, con la speranza di ricevere in sogno la visita del dio, i suoi opportuni suggerimenti o la guarigione miracolosa.

Secondo la tradizione occidentale, Cosma e Damiano partirono da Egea per recarsi in Siria - sede di una fiorente tradizione medica- per studiare medicina (anche se alcune versioni sostengono la loro abilità di guaritori fosse dovuta a poteri taumatologici). Ritornati nella loro città cominciarono a curare gli ammalati senza mai chiedere alcun compenso e proprio per questo venne loro assegnato l'appellativo "Anargiri". Nel "Sinassario" della Chiesa di Costantinopoli si tramanda che solo in una occasione fu loro data una ricompensa: tre uova donate a Damiano, all'insaputa del fratello, da una contadina guarita miracolosamente. Cosma rimase talmente deluso e mortificato che, rimproverato Damiano, espresse la volontà di essere sepolto lontano dal fratello. Anche intorno alla data e luogo della loro morte non esistono dati certi, forse subirono il martirio durante l'impero di Diocleziano, denunciati come cristiani dai sacerdoti del tempio di Asclepio, danneggiati economicamente dalla gratuità degli interventi medici dei due fratelli.

La loro passio li vede decapitati dopo una lunga serie di supplizi e sofferenze sopportati santamente. La memoria popolare tramanda una complessa narrazione circa le prove a cui vennero sottoposti e da cui uscirono indenni per volontà di Dio: in alcune narrazioni, mentre venivano lapidati, le pietre rimbalzarono contro i soldati; secondo altre, mentre venivano fustigati crudelmente, si rivolsero a Dio, che restituì i loro corpi illesi sotto gli occhi increduli dei presenti; secondo altre ancora, furono crocefissi e bersagliati dai dardi, ma le lance rimbalzarono senza riuscire a ferirli; altre narrano che perfino gettati in mare da un alto dirupo con un macigno appeso al collo, i Santi medici riuscirono a salvarsi. Alla fine, Cosma e Damiano morirono decapitati, assieme ai loro fratelli più giovani, Antimo, Leonzio ed Euprepio, nella città di Cirro, nei pressi di Antiochia, orientativamente intorno al 300 d.C.

Il culto dei Santi taumaturgi iniziò immediatamente dopo la loro morte e ad essi furono attribuiti un gran numero di miracoli terapeutici. Nella sua Legenda Aurea Jacopo da Varagine narra quello che viene indicato come il primo trapianto della storia: un devoto, avendo sognato i due Santi che gli applicavano la gamba di uno schiavo etiope morto, si risvegliò con la gamba sana e di colore scuro. Dal V secolo il loro culto cominciò a diffondersi inizialmente a tutto l'Oriente dove vennero costruite molte chiese a loro dedicate: meritano di essere ricordate le basiliche costruite in Palifilia, Cappadocia, Edessa e la sfarzosa basilica di Costantinopoli fatta costruire dall'imperatore Giustiniano guarito per loro intercessione da una pericolosa malattia. Attraverso gli scambi commerciali fra Roma e Oriente e grazie ai monaci bizantini, il culto raggiunse anche l'Occidente. Secondo la tradizione, i malati si recavano nella Basilica per chiedere la guarigione dai propri mali e praticavano il rito della "incubazione": si addormentavano nella chiesa e durante il sonno i Santi apparivano miracolosamente in loro aiuto, prendendosi cura di loro, facendo operazioni chirurgiche i cui segni erano miracolosamente evidenti al risveglio, applicando impacchi di olio e cera, oppure suggerendo in sogno al malato le cure. Sotto il Pontificato di San Gregorio Magno (590-604) le reliquie dei Santi Medici e dei loro fratelli furono traslate a Roma, nella loro Basilica fatta erigere dal Papa Felice IV nel Foro Romano proprio nelle vicinanze dei resti del tempio dedicato ai Dioscuri. Nel tempo le reliquie dei Santi furono distribuite nei numerosi Santuari a loro dedicati in tutta Europa, furono portate a Brema, a Monaco di Baviera, a Malta e in qualche città della Spagna, in Francia, dove sono in parte custodite nella chiesa metropolitana di Parigi.

In Italia esistono vari importanti Santuari dedi­cati ad essi fra cui, oltre al Santuario di Riace in Calabria, i Santuari in Puglia di Alberobello, di Bitonto, vicino a Bari che vanta una reliquia delle braccia dei Santi Cosma e Damiano, di Oria - comunemente detto S. Cosimo alla Macchia. E ancora i Santuari di Gaeta, di Secondigliano a Napoli, di Carbonara di Nola, d'Isernia, oltre a numerose parrocchie in molte città e pic­coli paesi. Reliquie dei Santi sono custodite anche a Venezia, nella chiesa di S. Giorgio; a Verona, nella chiesa di S. Procolo; nella Cattedrale di Amalfi, a Bologna, ad Imola, a Campobasso, a Tagliacozzo in Abruzzo. In Italia il culto non solo raggiunse rapidamente Roma ed il Lazio, ma si diffuse anche in Toscana dove la famiglia Medici, intorno alla metà del '400 li scelse come propri Santi patroni contribuendo a determinarne e diffonderne l'iconografia attraverso opere commissionate ad importanti artisti dell'epoca.

Il Santuario dei Santi Cosma e Damiano

Il Santuario, situato in basso, a qualche chilometro di distanza da Riace Superiore, è considerato il più importante della zona per le sue antiche origini e per i festeggiamenti ai due Santi che si tengono due volte all'anno. Le statue dei Santi sono conservate in paese nella Chiesa Matrice di S. Maria Assunta, detta anche Chiesa di S. Giacomo, da dove vengono tirate fuori per entrambe le ricorrenze festive e portate in processione fra Riace Superiore e Riace Marina. Opera di un ignoto scultore della scuola napoletana del '700, furono restaurate nel 1879 da Nicola e Pietro Drosi da Satriano.

L'origine del Santuario, meta di molti pellegrinaggi fin dai tempi più remoti, è fatta risalire ad una probabile struttura bizantina collegata con il vicino Monastero di S. Giovanni Theristis. Si tramanda che la confraternita dei SS. Cosma e Damiano fu istituita nel 1637 ad opera del Vescovo di Squillace. Oggi il Santuario, con l'annessa Casa del Pellegrino, in grado di accogliere circa duecento persone, si presenta affrescato con opere della scuola calabrese. Nel Santuario è presente anche l'effigie del Beato Zeffirino, Rom, martire.

Una delle leggende di fondazione tramanda che "un certo giorno di mille anni fa" un pastorello vide avvicinarsi due uomini che si presentarono dicendo di essere Cosimo e Damiano, due fratelli medici, quindi lo invitarono a lasciare il gregge per andare ad avvisare alla gente di Stignano che due medici provenienti dall'Oriente volevano edificare una chiesa. Il pastorello obbedì, ma invece di andare a Stignano si fermò nel più vicino paese: Riace. Molti uomini lo seguirono, ma giunti là dove si era intrattenuto con i due fratelli, non trovarono nessuno. Il ragazzo non si prese d'animo e chiese agli uomini di aiutarlo ad edificare la chiesa. Iniziarono la costruzione, lavorando fino al tramonto, ma al mattino trovarono che tutto era crollato, così dovettero iniziare daccapo, ma nuovamente, durante la notte, tutto andò giù. E così anche il terzo giorno. Durante la notte al pastorello apparvero in sogno i due Santi medici Cosimo e Damiano che gli consigliarono di andare a prendere nel luogo in cui si erano incontrati una delle pietre su cui si erano seduti e di inserirla nella costruzione così l'edificio non sarebbe più crollato. Seguite le indicazioni dei santi e collocata la pietra in un lato della costruzione, l'edificio di culto non crollo mai più.

Riace

Riace, cittadina famosa oltreché per le due stupende statue di bronzo, anche per il culto ai santi "medici" Cosma e Damiano, sorge su una collina a sette chilometri dalla costa jonica. Si dice prenda il nome dalle sue antiche origini greco-bizantine. La storia si perde nel tempo, ma la nascita del paese forse si può far risalire alla fine del XII secolo, quando, come in gran parte della fascia costiera, a causa della peste, della malaria e delle invasioni saracene, la popolazione fu costretta a rifugiarsi sulle colline intorno agli eremi dei monaci bizantini in fuga dall'Oriente. Si possono ancora rintracciare vestigia medioevali nei resti dell'antica cinta muraria, che inglobava numerose chiese, purtroppo quasi interamente distrutta dai terremoti nei secoli scorsi, e nel tessuto urbano dove sopravvivono impronte della sua antica storia.

Testo: B. Terenzi e C. Trimboli (tratto da Feste e Riti d'Italia). Adattamento a cura della Redazione


Foto: M. Marcotulli, 2004
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia


Foto: C. Trimboli
Archivio Fotografico dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia

 

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