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Articoli filtrati per data: Marzo 2014

Carro siciliano

Il trasporto delle merci, sia dei prodotti stagionali della campagna: grano, agrumi, mandorle ecc. al concime e al carbone, che prodotti artigianali ai materiali da costruzione, era effettuato in Sicilia in modo sistematico ancora negli anni Sessanta su carri, che si distinguono in base alla località di appartenenza.. Questo tipo di carro, pur rientrando nella tipologia comune dei veicoli dei carrettieri, a due ruote con sponde e timone a due stanghe, trainati da equini, dovendo trasportare materiale minuto come sabbia, ghiaia, sale e altro, disponeva, di uno sportello anteriore e di uno posteriore, entrambi mobili.

Le origini del carretto siciliano sono ignote, forse comparso parallelamente alle evoluzioni della lettiga nel secolo scorso, veniva usato inizialmente dai contadini. Il veicolo sarebbe stato adottato in ambito urbano e nel settore dei trasporti a seguito del potenziamento del traffico mercantile e al miglioramento, nell'Ottocento, della rete stradale dell'isola, allorché le mulattiere si trasformarono in strade rotabili.

La sua decorazione, a imitazione di quella delle carrozze e lettighe dei nobili del '700, è attestata fin dal 1833, ha funzione magico-propiziatoria, pubblicitaria, ma soprattutto distintiva dello stato sociale. La costruzione dei carri in Sicilia è attuata secondo scuole, riconducibili, per gli esemplari esposti, a quella palermitana e a quella catanese, individuabili, oltre che per le iscrizioni, per vali elementi quali ad esempio la forma delle sponde (trapezoidale nel palermitano e nel trapanese, rettangolare nel catanese) e i colori usati nella decorazione (il catanese usa prevalentemente il rosso e il celeste).

La decorazione ricopre tutte le parti del veicolo, l'intero carretto è dipinto con scene ispirate alla Gerusalemme Liberata o ad episodi del dominio normanno in Sicilia o al ciclo cavalleresco di Carlo Magno. Le composizioni recano didascalie e i nomi del costruttore del carro e del decoratore. La complessa ornamentazione prosegue nella bardatura del cavallo costituita da sellino, pettorale, testiera e sottopancia con nappe, sonagli, specchietti, pennacchi, nastri, frange e galloni ricamati.

Seduti sul davanzale del carro, la trave trasversale anteriore, i carrettieri - abito di velluto, berretto di pelliccia alla slava, camicia bianca e fascia rossa in vita - compivano lunghi percorsi che duravano da uno a sei giorni, per vincere il sonno e alleviare la fatica, cantavano al suono prodotto dalle boccole di bronzo "da campana" delle ruote, fuse in una lega speciale di rame e bronzo. La sosta nei fondaci offriva loro un'occasione di vita associata: si esibivano in gare di canto, si scambiavano informazioni su prezzi ed esperienze di vita. Con il loro mestiere, tramandato di padre in figlio, i carrettieri costituivano una categoria specifica all'interno del mondo agricolo.

In questo documentario del 1984 si parla nel dettaglio del carretto siciliano, della sua storia, delle simbologie di colori e disegni, della sua struttura. Si può vedere un mastro tagliatore di Palermo, Giovanni Raia, all'opera con la sua ascia, lo scultore Salvatore Coffaro di Bagheria mentre scolpisce le parti decorative del carretto, il fabbro Carmelo Saccaro che prepara i ganci e le parti in ferro, e del pittore Francesco Paolo Cardinale durante la pittura artistica del carretto.
 
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Coltivazione dei cereali

L'aratura è rappresentata da alcuni esemplari di aratro in legno, strumento antichissimo, ormai quasi ovunque in disuso, risalente ai primi tempi della rivoluzione neolitica. Strumento indispensabile al lavoro contadino, in relazione al tipo di terreno che doveva essere rimosso, ad esso venivano aggiogati due buoi, ma anche cavalli, muli e asini. La fase della raccolta viene illustrata da una serie di strumenti: vari tipi di falce usate per tagliare grano ed erba, la falce fienaia con lama arcuata molto lunga munita di una o due impugnature, la falce a manico lungo per tagliare l'erba lungo pendii scoscesi e ripidi dei canali e dei fossati, strumenti di protezione del mietitore quali i corti pezzi di canna da infilare nelle dita della mano sinistra e il bracciale di cuoio per il polso. Sono inoltre esposti contenitori in cui si teneva la cote, pietra dura che serviva per affilare la lama, e alcune piccole incudini usate insieme al martello per la ribattitura delle lame sul campo.

Segue l'esposizione di attrezzi utilizzati per i lavori eseguiti sull'aia: la sgranatura del granturco, la trebbiatura e la pulitura del grano. Una volta mietuto, il grano in cumuli veniva lasciato asciugare alcuni giorni, veniva poi legato in covoni e trasportato nell'aia, si stendevano i covoni sciolti e si procedeva all'operazione di trebbiatura delle spighe, allo scopo di dividere la paglia dai chicchi di grano.

La prima fase, quella della battitura, poteva essere effettuata a mano con il correggiato, formato da due bastoni legati all'estremità superiore, che si batteva sul grano con uno slancio circolare o utilizzando degli animali (buoi, asini, muli) che girando sui covoni, calpestavano le spighe con gli zoccoli. In altri casi gli animali trainavano una grande pietra piatta, spesso scanalata, o una tavola appesantita con pietre e persone o munita di denti di ferro, che veniva trascinata sul grano. Durante la trebbiatura, le spighe di grano steso venivano rivoltate parecchie volte e la paglia mano a mano eliminata con le forche di legno o riammucchiata al centro dell'aia con i rastrelli.

La fase successiva era costituita dall'operazione di spulatura, che serviva a eliminare i chicchi di grano dalle particelle di paglia rimaste, tra cui la pula (l'involucro del chicco). La spulatura si effettuava per ventilazione o per crivellatura, nel primo caso il mucchio di grano da pulire veniva lanciato in aria con pale o forche: nella caduta la paglia, più leggera, volava via, mentre il chicco cadeva in terra. Per piccole quantità di grano si usavano ventilabri di legno o di vimini, crivelli e setacci muniti di maglie più o meno larghe.

Era poi il momento della circolazione del prodotto che si svolgeva con l'aiuto di recipienti per misurare il grano, alcuni dei quali, di vaia fattura e provenienza, sono esposti in vetrina. Il grano veniva di solito in parte diviso (spartito) tra il proprietario della terra e il contadino, attraverso diversi tipi di contratti, di mezzadria o di colonia, rapporti parziari che nei vari momenti storici e nei diversi luoghi hanno assunto caratteristiche particolari; il prodotto era poi venduto o scambiato in natura, una parte immagazzinato per scopi alimentari, una parte infine conservato per la semina successiva. Il grano o la farina venivano quindi conservati in grandi recipienti come il grande silo, tipico dell'Italia centrale (per il grano o altri cereali ancora da macinare) in cesti, madie o altri recipienti.

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Macinatura dei cereali

Nel corso della storia una grande rivoluzione tecnologica fu costituita dalla diffusione dei mulini idraulici usati nelle nostre campagne sin dall'inizio del secolo: due modellini di mulino per grano, a ruota verticale e a ruota orizzontale testimoniano qual grande sollievo energetico sia stato per il lavoro umano e per lo sviluppo socio-economico l'uso di altre fonti di energia.

L'idea della fabbricazione di una ruota munita di pale e mossa da una corrente d'acqua nasce da una delle necessità fondamentali del sistema di produzione agricolo, l'irrigazione dei terreni coltivati ed è documentata già dall'ultimo secolo dell'era cristiana nell'Oriente mediterraneo da dove presto si diffonde verso l'Europa.

L'invenzione del mulino idraulico ha consentito una straordinaria trasformazione tecnologica e sociale, ha permesso infatti la liberazione dallo sfruttamento della forza lavoro umana, realizzando una nuova tappa verso la specializzazione artigianale e nel contempo ha aumentato il livello di produzione.

Il mulino ha la sua grande diffusione in epoca medievale e la sua storia è legata alle traversie politiche e sociali dei tempi. In Italia, tutti i mulini ad acqua sono infatti di origine signorile o di proprietà dei monasteri.

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Panificazione

Alla produzione del pane sono dedicate due vetrine: la prima mostra oggetti relativi alla panificazione effettuata in casa o presso forni comunitari, comunali, o ancora presso forni appartenenti a fornai di professione.

La preparazione del pane è operazione fortemente legata all'ambito femminile, sia perché svolta prevalentemente dalle donne, sia per il significato simbolico che la levitazione della pasta e la cottura del pane avevano nell'immaginario contadino.

Di particolare rilevanza risulta, in questa vetrina, il corpus di oggetti sardi: una serie di cucchiai e setacci per farina, cesti per contenere la farina setacciata o il lievito ed altro.

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Coltivazione vino e olive

La sezione testimonia le due coltivazioni arboree della vite e dell'olivo scelte per la loro centralità nell'economia italiana.

Sono esposti attrezzi e oggetti che illustrano alcune fasi di coltivazione della vite e della lavorazione del vino, dall'attività del viticultore a quella dell'oste: roncole e forbici per la potatura della vite, irroratori per la zolfatura, recipienti per la raccolta dell'uva, un grande torchio da vino (Lazio), recipienti per la conservazione, per il consumo e la vendita del vino, insegne e segni d'osteria.

Analogamente per le fasi di lavorazione dell'olivo, sono presentati gli attrezzi per la potatura e la raccolta, un torchio per la spremitura, orci da olio pugliesi, recipienti per la conservazione dell'olio, misure e altri oggetti relativi all'impiego dell'olio in cucina e in casa.

 

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Lavorazione della canapa

La lavorazione delle fibre di canapa e lino ha un'antica tradizione che risale fino alla seconda metà dell'Ottocento quando, con l'introduzione di apparecchi meccanici, furono apportate profonde modifiche che ridussero fortemente i tempi di lavorazione incidendo in modo determinante sull'economia e sulla società.

Le tecniche tradizionali sopravvissero nelle campagne per la produzione di manufatti di uso domestico, canapa e lino venivano utilizzati per i capi di vestiario e di corredo.

Nell'esposizione sono visibili gramole e pettini per la lavorazione della canapa, fibra vegetale dai vari impieghi, lavorata con maggiore o minore raffinatura per ricavare corde e tessuti grossolani per fabbricare i sacchi utilizzati nei vari cicli di lavorazione contadina, ma anche tessuti per camicie, lenzuola e asciugamani.

Le fibre si ottenevano mediante una serie di operazioni che richiedevano: macerazione, essiccamento, scotennatura, gramolatura, pettinatura, filatura effettuate a mano con la rocca e il fuso o il filatoio.

Alla filatura seguiva l'aspatura per formare le matasse, la sbiancatura, la dipanatura ed infine la tessitura su telai domestici. Una tecnica di colorazione dei tessuti è quella ottenuta mediante stampi di legno intagliati i cui disegni vengono impressi sulle stoffe secondo la tecnica silografica.

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Allevamento

Nello spazio dedicato all'allevamento viene affrontato il tema della segnalazione del bestiame ovvero dei sistemi adottati per l'identificazione della proprietà, del ruolo, del comportamento del bestiame o per la sua ubicazione. La segnalazione viene distinta in visiva e sonora: sono infatti presentati numerosi timbri a fuoco (in ferro) e a vernice (in ferro e cuoio) per la marchiatura dei capi di bestiame e una ricca selezione di collari con campanacci. Il marchio, indispensabile per il riconoscimento delle greggi e l'identificazione del proprietario, era costituito per lo più dalle iniziali del nome di quest'ultimo e poteva essere anche accompagnato da simboli con funzione protettiva e propiziatoria quali la croce, il cuore, la stella. I collari, oltre a svolgere una funzione distintiva e protettiva, attraverso le particolari decorazioni, potevano segnalare mediante il suono del campanaccio sia il luogo in cui si trovava l'animale, sia uno specifico "status" dell'animale stesso o del suo proprietario come due collari valdostani per bovini usati per un animale appartenuto ad una famiglia in semilutto - condizione indicata dal suono smorzato del campanaccio – o quello con fiori e ornamenti vari, contraddistinguente "la regina del latte", ovvero la mucca che aveva prodotto più latte. Questa, insieme alla "regina delle corna", la più forte, guidava il branco al ritorno dall'alpeggio.

All'interno della vetrina compaiono poi oggetti relativi alla guida, alla custodia e alla cura del bestiame: bastoni da pastore, catene da stalla, pastoie usati con funzioni di difesa personale, ma anche di controllo e di recupero degli animali, nonché di sostegno durante la marcia e appoggio nei momenti di riposo al pascolo. I bastoni del pastore presentano spesso impugnature scolpite a forma di uccello, cane, mucca o serpente. Nella conduzione e sorveglianza del gregge, il pastore è sempre aiutato da un cane, il cui compito è la conduzione del gregge, il recupero dei capi durante il cammino, la sorveglianza e la difesa dagli animali predatori.

Oltre ad alcuni recipienti per il pasto, sono esposti alcuni esemplari di collari caratterizzati da punte acuminate per proteggere il collo dell'animale dai morsi del lupo. Tra gli oggetti relativi alla cura del bestiame figurano alcuni recipienti e dispositivi per il controllo dell'alimentazione: mangiatoie per agnelli, abbeveratoi, museruole, frenelli, sorta di museruola le cui punte acuminate allontanavano la madre dal vitello favorendo lo svezzamento di quest'ultimo. Sono inoltre esposti esempi di strumenti di tipo chirurgico per castrare e salassare gli animali e alcune forbici a molla per la tosatura delle pecore.

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Lavorazione del latte

Due vetrine sono dedicate alla lavorazione del latte: dalla fase della mungitura, operazione che si effettuava due volte al giorno, documentata mediante sgabelli da mungitore, recipienti in terracotta, legno e rame che servivano a raccogliere il latte appena munto, alla produzione del burro, del formaggio e della ricotta. Per la burrificazione sono presenti recipienti per l'affioramento della panna, mestoli-spannatoi, contenitori per la panna, stampi, misure, zangole.

Attrezzo fondamentale per la produzione del burro è la zangola, gli esemplari esposti in vetrina, presentano la tipologia di zangola fissa, costituita da un recipiente di legno di forma cilindrica chiuso da un coperchio attraverso il quale passa il pistone che viene mosso in senso verticale: vi si versava la panna o crema affiorata dal latte e la si sbatteva energicamente fino a ottenere il burro, che veniva poi tolto dalla zangola, lavato e modellato in pani con le mani o con stampi. Di notevole interesse i sigilli lignei da burro esposti utilizzati per imprimere, sulla superficie del burro, motivi figurati con funzione distintiva oltre che decorativa.

Tra gli attrezzi per la produzione del formaggio e della ricotta si segnalano: il secchio sardo di sughero che attesta la primitiva tecnica di riscaldamento del latte mediante l'immersione di sassi arroventati, le grandi caldaie in cui si metteva a riscaldare il latte fino ad arrivare alla temperatura richiesta dal tipo di lavorazione, le frangicagliate utilizzate per frantumare il latte divenuto denso grazie all'aggiunta del caglio (una sostanza coagulante ricavata in passato dallo stomaco dei vitelli), gli stampi nei quali veniva messa in forma e a scolare la pasta di formaggio, le fiscelle per la ricotta, ottenuta ricuocendo il siero residuo della lavorazione del formaggio. Viene inoltre riproposto l'intero ciclo della lavorazione del latte a partire dalla mungitura con oggetti raccolti in uno stesso contesto rispettivamente in una masseria pugliese e in Val d'Aosta.

La cultura pastorale viene documentata in relazione a quattro aspetti: l'abbigliamento (con l'abito del massaro calabrese e quello del fruttier, ovvero il lavorante valdostano di fontine), l'equipaggiamento personale, la produzione artistica e la sfera magico-religiosa. Autosufficente, il pastore provvedeva a confezionare i capi in pelle del suo vestiario, realizzava e decorava gli oggetti del suo equipaggiamento, costruiva gran parte degli attrezzi necessari al suo lavoro. Inoltre, nell'ambito delle comunità rurali, era l'artefice di molti degli oggetti decorati che costituivano doni rituali in occasione di fidanzamenti, matrimoni, nascite. L'abilità artigianale del pastore si esplicava nella lavorazione di manufatti in legno, canna, sughero e corno, nella lavorazione e decorazione di zucche, nella fabbricazione di strumenti musicali in canna e legno, ed anche nell'esecuzione di lavori a maglia. Le decorazioni scolpite o incise sui manufatti rivelano un ricco repertorio iconografico con una forte presenza di simboli a carattere propiziatorio, apotropaico e sacro.

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Alpeggio e transumanza

Alpeggio e transumanza, le due forme di allevamento del bestiame da latte – ovini, caprini e bovini - comprensive delle attività legate al ciclo produttivo del latte, sono rappresentate nell'esposizione: la transumanza praticata dai pastori abruzzesi è documentata nei suoi vari aspetti fin dal momento della migrazione lungo i tratturi (le larghe vie erbose di antichissime origini che conducevano dall'Appennino al Tavoliere delle Puglie) dai basti per muli e asini usati per il trasporto delle varie masserizie, agli stazzi - i recinti per gli ovini -, alle attrezzature per la lavorazione del latte, alla cassa per l'equipaggiamento del pastore.

L'alpeggio invece veniva effettuato nella malga, in genere di proprietà comunale, che comprendeva i pascoli, la stalla per gli animali e la caséra, edificio utilizzato per la lavorazione del latte e come abitazione.

Il complesso discorso sui ricoveri per il bestiame e per i pastori è esemplificato attraverso l'esposizione di reti, paletti e magli usati dai pastori transumanti per approntare il recinto per gli ovini, ovvero lo stazzo. Questo, formato da reti ancorate a paletti, che venivano conficcati nel terreno servendosi di magli di legno, veniva costruito sia durante gli spostamenti sia durante la permanenza sulle montagne. Le persone addette alla custodia degli animali e alla lavorazione del latte, organizzate in famiglie pastorali con precisa distribuzione dei ruoli e rigida organizzazione gerarchica, si sistemavano in capanne, cavità naturali o in costruzioni in muratura, secondo la durata della permanenza.

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Armi da fuoco e da taglio

Dai tempi più remoti fino all'alto Medioevo l'uomo ha usato indifferentemente le stesse armi come mezzo di offesa-difesa personale e come mezzo per procacciarsi il cibo. Una attenta disamina tecnica delle singole armi mostra sufficientemente che queste possono essere efficaci sia contro gli esseri umani sia contro gli animali terrestri e marini. «L'arma da guerra del contadino o del soldato, in epoca medievale, è sempre un arnese da lavoro o di uso rustico adattato alle necessità del combattimento;..il medesimo coltello, la falce o la ronca si raddrizzano per la guerra sull'incudine del fabbro del villaggio, come la spada usata in campo si presta nella battuta contro il cinghiale o il lupo» (Boccia 1967). Dal Cinquecento in poi e soprattutto dalla seconda metà del Seicento, questa qualità di reciprocazione degli usi di una stessa arma non si annulla del tutto ma perde via via consistenza, mentre assume valore sempre più determinante la specializzazione tecnologica, strumentale alla funzione preminente cui la stessa arma deve assolvere. In conclusione, fino a tutto il secolo scorso, periodo cui è riferibile la collezione delle armi da fuoco e da taglio esposte in sala, le armi usate durante l'attività venatoria presentano una commistione di accorgimenti e soluzioni tecniche derivanti dall'uso ora bellico ora cinegetico.

Con l'inizio del Novecento e il conseguente fiorire di vere e proprie industrie belliche, specializzate nella progettazione e realizzazione di prodotti ancor più sofisticati, si definiscono e spiegano i caratteri precipui e distintivi a cui devono corrispondere le singole armi. In sostanza si stabilisce un canone che distingua le armi da caccia dalle armi da guerra. L'arma da caccia, che è poi il tipo d'arma che ci interessa qui descrivere, sebbene appaia più elaborata e decorata nel suo aspetto esteriore di quella impiegata per uso bellico, si osservino quelle esposte nelle vetrine, presenta dal punto di vista pratico funzionale perlopiù le medesime prerogative richieste all'arma da guerra: la sicurezza, la precisione, l'efficienza, la maneggevolezza. Suoi tratti distintivi, invece, sono le caratteristiche derivanti dall'uso in funzione del tipo di selvaggina da abbattere e dalla varietà dei luoghi in cui può essere usata (macchia, palude, bosco). La morfologia dell'arma risente, altresì, di un'altra influenza non trascurabile, che è quella esercitata da una parte dall'estro e dalla ingegnosità dello stesso artigiano armaiòlo - il quale, anche per ragioni di concorrenza professionale, è indotto a rincorrere continue sperimentazioni, provando e riprovando soluzioni che tengano sempre più conto delle rinnovate conoscenze tecnico-scientifiche - dall'altra dal gusto e dalle abitudini locali della classe sociale d'appartenenza del committente.

Nelle vetrine disposte in successione sul lato sinistro della sezione sono esposti gli oggetti: fucili, piastre (meccanismi), coltelli, fiaschette da polvere di corno, di zucca, di pelle, di metallo e tutti gli altri accessori d'uso più comune, compresi quelli inerenti l'equipaggiamento del cacciatore che meglio si prestano a documentare l'attività venatoria esercitata con l'uso delle armi. La collezione delle armi da fuoco, più ricca e rappresentativa di quella delle armi da taglio, ad eccezione della singola pistola, è costituita da una serie di fucili - di provenienza calabra, sarda e altoatesina - con meccanismo di accensione a 'pietra' focaia.

Quella delle armi bianche è composta dal gruppo di coltelli, in gran parte calabresi e siciliani raccolti dal Corso, dal De Chiara e dallo stesso Loria per la nota occasione del 1911. Una successiva suddivisione funzionale le distingue in armi da punta e da taglio. Le coltelle esposte presentano varie fogge di lame: dall'esemplare calabrese con lama a punta, intagliata e attraversata longitudinalmente da uno sguscio centrale scolasangue, a quello siciliano, con lama larga ad un filo, costa a schiena, sguanciatura terminale e intagli a bulino con figurazioni allegoriche. I manici, a botticella, sono generalmente di osso o di corno uniti da guarnizioni di metallo (ottone, argento). I coltelli ove non costituiscano essi stessi l'arma mortale, sono gli indispensabili accessori di cui ha bisogno il cacciatore per 'sparare' la grossa selvaggina (cinghiale, cervo, etc.), operazione che consiste nel tagliare le carni e disarticolare le ossa. Per questo presentano sempre una lama massiccia, spesso una punta ridotta e una sguanciatura terminale. Le coltelle sono custodite in foderi di cuoio, accompagnati talvolta da altre guaine, provviste del necessario (forchetti, passacorda) per la complessa e immediata preparazione della preda abbattuta.

 

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Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
Amministrazione
trasparente

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