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Articoli filtrati per data: Dicembre 2013

#LACULTURANONSIFERMA. #ITALIADALLEMOLTECULTURE. Il progetto di ricerca Co-Heritage: Sport e spazi pubblici

Presentiamo oggi alcuni spunti di riflessione di una più ampia ricerca etnografica legata al progetto Co.Heritage dell'Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros. La ricerca è coordinata da Alessandra Broccolini e realizzata da Flavio Lorenzoni, Daniele Quadraccia e Cristina Pantellaro. Oggi parliamo di uno dei temi: pratiche sportive e spazio sociale e Torpignattara. 

 

CRICKET, COMUNITÀ E SPAZI PUBBLICI.

di Flavio Lorenzoni

Il progetto Co.Heritage, nell’ambito del programma “Italia dalle molte culture” è finalizzato all’individuazione del patrimonio culturale condiviso dalle comunità italiane e migranti. In questo caso la nozione di “patrimonio” è intesa come strumento in grado di valorizzare la diversità culturale, di promuovere il dialogo interculturale e di essere volano per nuovi modelli di sviluppo e di governance.

Co.Heritage parte dal presupposto che tutte le comunità che vivono un dato territorio abbiano il diritto di compiere attività di sviluppo, tutela, salvaguardia e promozione del proprio patrimonio culturale. A tal fine vengono proposte una serie di iniziative e di azioni capaci di accompagnare le comunità a scoprire, studiare e raccontare il territorio che vivono. Si pongono in questo modo le basi affinché le comunità di origine straniera possano essere i soggetti delle narrazioni collettive proposte anziché gli oggetti.
L’approccio utilizzato è multidisciplinare, in modo da favorire approcci, spunti di riflessione e prospettive diverse su sul tema proposto.
Il progetto è stato promosso dall’Associazione Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros, un ente territoriale che opera nel quartiere di Torpignattara e in generale nella Periferia Est di Roma. Nasce circa dieci anni fa come espressione della volontà di diverse comunità locali di promuovere, salvaguardare, valorizzare il patrimonio culturale del quartiere, tramite la costruzione dell’Ecomuseo urbano da lei gestito. L’Ecomuseo coniuga un denso lavoro sul campo, a stretto contatto con le comunità tra attività nel quartiere, laboratori e visite guidate ad un costante sguardo al mondo della ricerca, della progettazione. Oggi l’Ecomuseo è un’istituzione nel quartiere la cui importanza è stata riconosciuta, dalla Regione Lazio tramite la Determinazione della Direzione Cultura e Politiche Giovanili n.G13389 del 07/10/19 con la quale l’Ecomuseo Casilino ad Duas Lauros è stato inserito nell’elenco degli Ecomusei di interesse regionale.
Ma in quale contesto opera l’Ecomuseo e in cosa consiste effettivamente il progetto?
La periferia Est di Roma, con particolare riferimento al quartiere di Torpignattara, è luogo particolarmente denso di comunità migranti, principalmente dall’Asia. Le comunità hanno modificato il lifestyle e l’estetica stessa del quartiere, trasformandolo e contribuendo a creare un’atmosfera multietnica e cangiante difficilmente riscontrabile in altri quartieri della città.
In questo contesto l’ecomuseo si è occupato di creare gruppi di lavoro interdisciplinari composti da ricercatori e ricercatrici capaci di operare sul territorio con i mezzi e le competenze acquisite e di fornire sguardi ed approcci diversi al contesto.
Il gruppo di ricerca del quale faccio parte si propone lo scopo di individuare gli spazi, le pratiche e le politiche con le quali le comunità migranti – principalmente la loro componente maschile – impiegano il proprio tempo libero, ponendo particolare attenzione alle pratiche sportive e ludico-ricreative.
L’idea soggiacente è quella di pensare gli spazi pubblici, generalmente considerati come interstiziali, marginali, altri rispetto agli spazi quotidiani, come centrali, fulcro di pratiche che solo parzialmente hanno a che fare con la dimensione ludica di chi li abita, diventando invece fulcro per le dinamiche di socializzazione.

Il periodo di ricerca sul campo è stato da maggio a settembre del 2019 all’incirca. Le attività ludico-ricreative nei parchi e nelle aree pubbliche sono infatti soggette alla stagionalità e al clima. La ricerca si è concentrata su un gruppo di giocatori di cricket che si riunisce all’interno del Parco Archeologico di Centocelle una volta a settimana. Tanto il contesto quanto il soggetto della ricerca presentano delle caratteristiche interessanti che è bene notare.

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Partendo dal contesto, il Parco Archeologico di Centocelle è grande parco pubblico che delimita a Sud-Est la zona di Torpignattara. Si tratta di un luogo denso, marginale, conflittuale. Diversi sono gli interessi in gioco stratificati nell’attuale conformazione del parco e nel suo ruolo sociale. Il progetto comprendeva un’area molto più vasta di quella che attualmente è aperta al pubblico. La definizione di parco “archeologico” è dovuta al fatto che al suo interno sono presenti tre siti archeologici di altrettante ville romane. Nessuno dei tre scavi è ancora iniziato.
Una parte dello spazio del parco è stata in passato proprietà dell’aereonautica militare per via della presenza l’aeroporto militare Francesco Baracca, la cui pista di atterraggio adesso è dismessa e risignificata da chi quotidianamente vive il parco.
Una questione controversa per l’area è quella che riguarda il confine sudorientale del parco dove sono nate numerose attività di sfasciacarrozze tutte lungo la via Palmiro Togliatti che con il tempo hanno eroso il territorio pubblico del parco. La porzione di parco immediatamente retrostante queste attività è inoltre stata oggetto di interramento di rifiuti. Ancora oggi si attende l’inizio dell’attività di bonifica, diventata burocraticamente indispensabile per ultimare la creazione del parco e cominciare gli scavi archeologici.
Anche l’area attualmente aperta al pubblico è essa stessa un nodo di significati attribuiti dalle diverse comunità, gruppi di persone o singoli individui che utilizzano il parco. Attori sociali che non rimangono a sé stanti ma interagiscono tra di loro proprio nel territorio pubblico del parco, dissolvendosi nella sua fluidità. Anziani, studenti, coppie, giovani famiglie, sportivi, dog-sitter, giocatori amatoriali di calcio e cricket, comitive di giovani, gite organizzate rivestono il parco di significati diversi. Così la pista d’atterraggio diventa pista da skateboard, pista di gare di bicicletta, campo da gioco.
L’area che ha fatto da sfondo immobile per il periodo di ricerca è campo da cricket per i miei interlocutori, ma diventa all’occorrenza campo da calcetto, slargo ideale per lasciar correre i cani o per fare un barbecue.
Questo luogo diventa, tra le altre cose, un luogo di festa che più volte ha accolto il Capodanno bangladese. Gli attori sociali mantengono la loro autonomia nel rivestire questo luogo di senso ma entrano in contatto tra di loro, e capita che l’uomo seduto sulla panchina abbassi il giornale per osservare una partita di cricket. Che i giocatori stessi si trovino a inseguire un cane esuberante che ha deciso di partecipare al gioco rubando la loro palla, che il proprietario del cane finisca per abbozzare qualche battuta con i ragazzi, che il profumo dei barbecue attiri non solo gli invitati, e così via. Parco Centocelle diventa un cosmo di interessi e di senso a sé stante rispetto al contesto.
Ma veniamo al soggetto della ricerca. Questo gruppo di giocatori è composto da circa una ventina di ragazzi (il numero non è mai rimasto fisso durante la ricerca sul campo) di età media variabile tra i 10 e i 35 anni. È un gruppo che per la maggior parte tende ad essere composto più o meno dalle stesse persone, mantenendo comunque una percentuale piccola di persone di volta in volta diverse.
Un dato anagrafico così vasto mi è sembrato significativo, soprattutto perché, tolti i due-tre elementi più giovani, anche a ragazzi di 11-12 anni viene consentito di giocare con i “grandi”.

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Il gruppo inoltre, a differenza di altri gruppi di giocatori coinvolti nella ricerca, si presenta anche molto variegato se osservato dal punto di vista dei paesi d’origine. Questo è un dato che mi ha fatto riflettere, soprattutto se si pensa che è composto da immigrati di prima generazione arrivati in Italia da un lasso di tempo variabile tra 1 mese e 4-5 anni. La ricerca fino al punto in cui mi sono insediato aveva individuato gruppi di gioco composti da persone provenienti tendenzialmente dallo stesso paese d’origine, che si scontravano in tornei o semplici partite con gruppi di persone provenienti da altre nazioni. Questo caso invece si è dimostrato sui generis. La provenienza maggioritaria è dal Pakistan, ma si riscontra un’elevata provenienza anche dal Bangladesh e, in misura sempre minore, dall’Afghanistan, dall’India e infine dall’Iraq.

Un gruppo di ragazzi intenti a giocare a cricket in un parco d’estate ci spinge riflettere, a porci delle domande, a mettere in discussione alcuni concetti. Cosa lega persone che non fanno parte della stessa comunità migrante a vedersi in maniera così assidua per condividere del tempo insieme? Cosa viene messo davvero in gioco durante le partite di cricket che vengono disputate? Che rapporto esiste tra il gruppo di giocatori, il contesto nel quale si svolge la pratica, e la pratica sportiva stessa? In che modo, da quali pratiche comunitarie e del sé è regolamentata la partita? Quale rapporto sussiste tra i giocatori, i propri oggetti e il terreno di gioco?

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Un altro elemento interessante emerso dalle interviste svolte a margine delle partite è il fatto che nonostante loro come gruppo si incontrassero sempre lo stesso giorno alla stessa ora nello tesso posto, quello non fosse l’unico momento in cui giocavano a cricket durante la settimana. Tutt’altro. La maggior parte di loro, compatibilmente con gli impegni lavorativi e di studio, giocava a questo sport appena possibile, investendo in questa attività una gran parte del proprio tempo libero, solo che non lo faceva con quel gruppo di persone, non in quell’orario e non in quel posto. È emerso infatti come il Parco Archeologico di Centocelle possa essere infatti considerato come un singolo nodo facente parte di una rete più ampia che coinvolge la maggior parte delle grandi aree verdi della città. Questa rete di luoghi ma soprattutto di legami sociali si configura a sua volta come una vera e propria rete di accoglienza per i migranti che si trovano a Roma, che sia per loro la tappa finale del viaggio o solo una tappa del così detto “corridoio per Londra” o per altrove. Insomma, una rete sociale innervata negli spazi interstiziali e spesso considerati marginali, che consente ai membri delle comunità migranti di condividere esperienze reciprocamente durante lo svolgimento di una pratica ludica.

 

FUORICAMPO. PRATICHE SPORTIVE NEGLI SPAZI PUBBLICI A TORPIGNATTARA

di Daniele Quadraccia

Pieni/vuoti

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Largo Perestrello, 2019 (Ph. Daniele Quadraccia)

La ricerca che vorrei presentare prende le mosse all’interno del progetto Co.Heritage (promosso dall’Ecomuseo Casilino Ad Duos Lauros) e ha avuto lo scopo di individuare, attraverso i metodi dell’indagine etnografica, pratiche, forme, spazi che riguardano le attività sportive e ludico-ricreative che si espletano negli spazi pubblici di Torpignattara e aree limitrofe, con particolare riferimento alle comunità migranti molto presenti nell’area. Un universo di pratiche multiformi che si snodano tra piazze, parchi, rovine archeologiche, slarghi e piccoli spazi vuoti lasciati da palazzi e automobili: il paesaggio urbano che diventa teatro ora di improvvisate partite, ora di veri e propri tornei. Luoghi non marginali o interstiziali, dunque, ma punti di incontro centrali per le comunità che li vivono. Arene ludico-sociali dove a essere messi in gioco sono valori comunitari, strategie di socializzazione, forme identitarie di appartenenza transnazionale. Tra gli sport più praticati sono quelli di squadra che maggiormente hanno suscitato l’interesse della nostra ricerca: soprattutto cricket, poi calcio, ma anche badminton e pallavolo.
Il contesto in cui si inserisce la ricerca è, dunque, ibrido e mutevole: le pratiche sportive hanno il più delle volte il carattere di informalità e avvengono con una frequenza instabile, per lo più dettata dall’estemporaneità. Ci si aggrega dandosi appuntamento telefonico o tramite i Social. C’è chi partecipa con una divisa di gioco, chi in tuta o calzoncini, chi in abiti non consoni all’attività sportiva limitando la sua presenza all’incontro amicale o a poche e limitate azioni. Altri fattori determinanti ai fini dell’incontro sono il tempo e le condizioni del campo: si gioca quasi esclusivamente nella stagione buona, soprattutto la domenica pomeriggio, se c’è spazio libero a sufficienza e se l’erba non è troppo alta. Oltre a questo non sono da trascurare gli impegni dei singoli membri: il lavoro, le attività in famiglia e all’interno delle comunità.
La scelta di uno spazio di gioco pubblico e condiviso è una delle forme di appaesamento e di rivendicazione spaziale che le comunità mettono in atto all’interno dei contesti urbani di approdo. A differenza dello sport praticato nei campi da gioco ufficiali e nelle palestre, che spesso si pone come alternativo e differenziato rispetto alle altre attività quotidiane e settimanali (si paga una quota, si acquistano abiti e strumentazioni ad hoc, si accede in spazi riservati e adibiti al solamente a quell’attività) e si espleta in uno spazio “altro”, lo sport praticato negli spazi pubblici dai membri delle comunità migranti è inclusivo, contiguo e parallelo alle altre attività comunitarie. Ci si va tutti insieme, partendo dalla moschea o dalla sede associativa di riferimento. Si può giocare a margine di un incontro, oppure ci si incontra per prendere importanti decisioni per la comunità appositamente nel giorno preposto al gioco. Delle volte, tuttavia, l’utilizzo del parco per giocare e allenarsi non è una scelta ma una necessità dettata dalla difficoltà ad accedere agli spazi privati, come campi sportivi e palestre, che hanno un costo troppo elevato. In questo caso gli spazzi pubblici possono essere considerati dai giocatori come luogo di marginalizzazione e stigmatizzazione. Visibilità e invisibilità, dunque, si compenetrano all’interno di uno scenario metropolitano dove ad essere “messa in gioco” è l’intera vita sociale dei gruppi sportivi. È proprio questo contesto multiforme formato dalle comunità, la loro permeabilità con l’esterno e il loro agire negli spazi pubblici che la ricerca ha trovato la sua cornice interpretativa ed ermeneutica.
Entrando un po’ più nel dettaglio, sono state seguite tre comunità di giocatori all’interno di quelli che sono i luoghi del quartiere più interessati dal gioco: una squadra afghana di cricket che si allena e gioca prevalentemente al Parco Archeologico di Centocelle, un gruppo di giovani ragazzi che passa il tempo tra il cricket e il calcio presso Villa De Sanctis, e una squadra di calcio formatasi per giocare il Torneo Bangla.

 

Piccole patrie, piccole nazionali: sport e identità in una squadra afghana di cricket

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Parco di Centocelle, 2018 (Ph. Daniele Quadraccia)

Il gruppo di giocatori afghani che mi ha accolto durante gli allenamenti si incontra soprattutto al Parco di Centocelle. Quella afghana è una comunità che vive sparsa in varie zone di Roma ma che comunque vede in Torpignattara il suo perno, sia per la Moschea di via Serbelloni che per la sede dell’associazione “Comunità Afghana in Italia”, di cui Jamali, il ragazzo con cui ho interagito di più nel corso degli incontri, è vicepresidente. I suoi membri sanno tutti giocare a cricket, considerato sport nazionale seppur di più recente sviluppo rispetto ad altri paesi come Bangladesh e India. Giocare con la maglia della propria nazionale rappresenta, dunque, per Jamali e per i suoi compagni un’importante forma identitaria volta al consolidamento di una prossimità con la Madrepatria. Nei giocatori afghani che la indossano crea orgoglio e senso di appartenenza. È per questo che il suo gruppo di amici, insieme ad altre comunità, ha creato una sorta di piccola coppa del mondo romana (e non solo) a cui partecipano squadre di varie nazioni del Commonwealth: Bangladesh, Sri Lanka, India, Pakistan, Inghilterra e anche Italia. È un torneo molto sentito dai membri delle varie nazionali e occupa un importante spazio nella pianificazione dei momenti ludico-ricreativi dei partecipanti, che si sobbarcano tutta la (non facile) organizzazione: «Quando stavamo a Colli Aniene l'anno scorso, a dicembre, abbiamo giocato tantissimo e ci siamo divertiti tantissimo. Ho giocato anche io: ogni tanto gioco con i ragazzi della squadra, perché ho mal di schiena, diciamo, e non riesco a farlo, anche per colpa del lavoro. Però organizzo. E quella l'avevo organizzata io» (Jamali).

 

Sport e Spazio pubblico: un confronto col Bangladesh

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Villa De Sanctis, 2019 (Ph. Daniele Quadraccia)

Hossain è un ragazzo bengalese di venti anni arrivato a Roma quando ne aveva sei. Nel 2012 è ritornato per 4 anni in Bangladesh per approfondire lo studio dell’Islam e di traduttore del Corano. È tornato in Italia da pochi mesi e ora si divide tra la famiglia e la moschea di Via Capua, dove continua la sua formazione e aiuta soprattutto con i più piccoli. Spesso li porta a giocare al parco di Villa De Sanctis, soprattutto d’estate quando non c’è la scuola. Al contrario dell’Italia, mi dice, in Bangladesh praticamente non esiste il calcio. Lo sport più praticato è senza dubbio il cricket, a cui si inizia a giocare da piccolissimi. Si pratica più o meno a tutte le età, dai più giovani agli adulti. In Bangladesh non c’è un concetto di spazio e parco pubblico come qui in Italia, dove si può andare a correre, sedersi, camminare e giocare. Perciò si gioca in strada, ovunque ci sia uno spazio vuoto, o di sera, quando le persone sono a casa: «La gente sta tutto il giorno al lavoro e non trovi mezzo metro quadro di spazio per mettere piede. Però in alcune parti ci stanno delle campagne, oppure un posto vicino al lago o a un fiume, perché il Bangladesh è tutto pieno di fiumi. In alcune parti i ragazzi fanno un campo piccolo, portano il filo della corrente e giocano da quelle parti».

 

Golden Night Team: la costruzione di una squadra di calcio

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Torpignattara, 2018 (Ph. Daniele Quadraccia)

I legami di amicizie e di conoscenze sono il substrato fondativo delle costellazioni di gruppi sportivi e di squadre informali che continuamente si aggregano e disgregano all’interno dei quartieri. Spesso sono formate da giovani o giovanissimi e non hanno una struttura pienamente organizzata, ma rappresentano i nuclei embrionali di potenziali squadre e associazioni, che talvolta vedono la luce, altre volte si sciolgono disperdendosi o confluendo altrove. È un panorama fluido e disomogeneo, difficile da rintracciare e seguire nella sua processualità se non in due momenti precisi: gli allenamenti e le partite. I primi nella maggior parte delle volte si espletano proprio nei parchi o nelle piazze, ovunque ci sia spazio a sufficienza; mentre le seconde possono essere giocate in contesti pubblici o privati, a seconda del grado di formalità della competizione.
La costituzione di una squadra costituisce un momento delicato per i giovani ragazzi. Oltre all’aspetto sportivo vengono messi in gioco valori e legami, strategie e tattiche di aggregazione e di convincimento, delusioni, momenti altalenanti di profonda condivisione e senso di tradimento. La squadra è il luogo privilegiato per costruire e rinsaldare amicizie, per sentirsi protetti e allo sesso tempo forti da poter competere con altre. Roman, tra i fondatori della Golden Night Team (che ha militato nel torneo ufficiale Bangla di calcio a 8 che si è giocato tra novembre e dicembre del 2018) mi ha raccontato la travagliata gestazione della squadra, inserendola all’interno della sua biografia e dei rapporti con i suoi amici: «Hanno abbandonato due/tre di loro, hanno detto "Guardate ragazzi, io da domani non gioco più con voi, gioco con un'altra squadra". "Ah come, loro erano i nostri rivali e ora tu giochi con loro? Scusa, tu non perdi solo la squadra, tu perdi anche l'amicizia. Pensaci, io ti do tempo, una settimana, due settimane. I ragazzi di Torpigna, guarda, nessuno ti darà il valore che tu avevi prima". Ho cercato di spiegare, ma non hanno ascoltato. "Vabbè allora se tu vieni noi ti salutiamo con un ciao come stai e basta, non ti aspettare altro"».

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#LACULTURANONSIFERMA Le parole chiave del patrimonio im-materiale: il MUSEO (a cura di Paola Abenante)

Paola Abenante (funzionaria demoetnoantropologa, Polo Museale del Lazio) ci introduce al complesso mondo del MUSEO.

 

Riferimenti Bibliografici Amaturo

M. – Filamingo V. – Abenante P. (2019), Un estratto del comodato della Scuola Professionale Femminile Margherita di Savoia al Museo Boncompagni Ludovisi , “OADI, Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative” n. 20; DOI: 10.7431/RIV20122019.

Ballacchino K. (2013), Per un’antropologia del patrimonio immateriale. Dalle convenzioni Unesco alle pratiche di Comunità, “Glocale” 6-7.

Broccolini A. (2011), L’Unesco e gli inventari del patrimonio immateriale in Italia, “AM” 10 pp. 41-51.

Caputo A. (2017), Il baule di Angelina. Il mestieri delle trine alla Scuola Professionale Femminile Margherita di Savoia di Roma, Roma, Aracne Editrice.

De Varine H. (2005) , Le radici del futuro. Il patrimonio locale al servizio dello sviluppo locale, Bologna, Clueb.

Latour B. (2005), Reassembling the Social: An Introduction to actor-network theory,Oxford, Oxford University Press.

Lunghi M.D., (2014) Magici Intrecci. Merletti meccanici italiani. Roma, Aracne Editrice.

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#LACULTURANONSIFERMA. #VISIONIDAITERRITORI. Tessere la Speranza: la serie di mostre e pubblicazioni dedicata alle Madonne vestite del Lazio

di Luisa Caporossi e Francesca Fabbri

Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l'area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l'Etruria meridionale

Dal mese di dicembre 2016 all'estate 2019 la Soprintendenza ABAP per l'area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l'Etruria meridionale si è fatta promotrice di una serie di eventi espositivi, ideata dall'allora Soprintendente Alfonsina Russo e portata avanti con continuità dal nuovo dirigente arch. Margherita Eichberg, dedicata alle “Madonne vestite” del Lazio. L’intento che principalmente ha mosso la Soprintendenza nell’elaborazione di questo progetto è stato quello di promuovere presso il pubblico potenziale la conoscenza di un patrimonio capillarmente diffuso sul territorio del Lazio e di riuscire a rappresentarlo nelle sue molteplici declinazioni. Con il termine “statua da vestire” si intende un'effigie tridimensionale rivestita di abiti in materiali tessili, a volte riccamente ricamati, applicati sia su statue interamente scolpite o modellate sia su figure-manichino, e dunque incomplete se prive degli abiti. Queste ultime sono rifinite e dipinte, spesso anche finemente, solo nelle parti a vista in legno, gesso, cartapesta etc. e possono essere dotate di strutture molto diverse: le più comuni sono “a girello” o “a conocchia” (vale a dire stanti su listelli lignei formanti un tronco di cono su cui si innesta il busto con la testa e le braccia), oppure ad asse verticale o “a palo”, davanti al quale sono appoggiate le gambe.

Fig.1

Francesco Antonio Picano, Madonna del Rosario, Casalattico (FR), Chiesa di S. Barbato vescovo,  1705.

Il busto spesso è costituito di materiali vegetali, rivestiti di tela, mentre le estremità sono sovente snodabili e/o smontabili per facilitare la vestizione. Il rivestimento tessile dei simulacri religiosi, attestato già nell'antichità pagana ma diffuso soprattutto nel mondo cattolico europeo e latino-americano ed accompagnato spesso dall'ornamentazione con parrucche e gioielli, costituisce quindi la peculiarità di questi beni culturali nei quali, in maniera particolarmente evidente e pregnante, è possibile rintracciare una stratificazione di valori e significati.

Dal punto di vista etnoantropologico, la statua vestita costituisce un bene materiale di notevole interesse, dal quale possono dispiegarsi infiniti percorsi immateriali relativi ai culti, alla ritualità delle vestizioni, alla devozione nelle sue valenze religiose, storiche e sociali, all’immaginario collettivo delle popolazioni nutrito di narrazioni di miracoli e prodigi legati alle effigi da vestire.

Superando alcuni preconcetti legati ad un'estetica considerata a lungo “popolare” per lo spiccato realismo, la polimatericità e talvolta la serialità dei manufatti, lo studio delle statue e dei loro considerevoli corredi ha rilevato al contrario l'indubbio interesse storico-artistico di alcuni esemplari, si veda ad esempio la Madonna del Rosario di Casalattico (FR), firmata dallo celebre scultore napoletano Francesco Antonio Capano e datata al 1705.

Fig.2

Vallerano (VT), Santa Maria della Pieve, Madonna del Rosario senza abiti (manichino a palo), 1700 ca.

Tale “riscoperta” è avvenuta molto spesso in occasione degli interventi di restauro che hanno interessato sia la statua che gli abiti, spesso pregevoli e antichi. E' il caso ad esempio della Madonna della Pieve di Vallerano (VT), recuperata grazie ad un intervento conservativo di somma urgenza che ha portato, oltre che alla rivitalizzazione di un culto abbandonato, ad una importante riflessione critica sui criteri metodologici che devono guidare ogni intervento di restauro di manufatti così complessi, sia dal punto di vista tecnico per la loro polimatericità e perché talvolta oggetto di ripetute manomissioni, sia dal punto di vista teorico per la necessità di preservarne i valori simbolici e la funzione.

Fig.3

Vallerano (VT), Santa Maria della Pieve, Madonna del Rosario prima del restauro.

Ciò è valso sia per le effigi che per i corredi tessili, spesso particolarmente ricchi e con un'articolazione del “guardaroba” che prevede la biancheria, abiti feriali e abiti festivi, a volte accompagnati dalle calzature.

Fig.4

Arpino (FR), Monastero di S. Andrea Apostolo, Abito festivo della Madonna di Loreto, fine XVII-inizio XIX sec.

Non di rado la Vergine indossa più capi sovrapposti, dalle sottovesti donate da donne povere a ricchi abiti da principessa. Di solito l’abito visibile è il più recente, ma via via che si giunge sino al corsetto si traccia lungo più strati di tessuto una vera e propria storia del costume.

Fig.5

Soriano del Cimino (VT), Chiesa di S. Maria del Poggio, scarpine del XVIII secolo della Madonna del Poggio.

In riferimento al contesto storico, grazie alle ricerche d'archivio è stato possibile tracciare sia il ruolo delle importanti famiglie nobiliari nella realizzazione di alcuni simulacri (come i Ruspoli a Vignanello) o nel dono di corredi e gioielli (ad esempio gli Altieri a Oriolo) sia le modalità di cura affidate nella maggior parte dei casi alle confraternite, in una tematica che unisce la “committenza elevata” all'associazionismo religioso e al tema delle feste e dei riti e delle pratiche rituali ad esse connessi.

Per rappresentare al meglio nell'ambito dei percorsi espositivi questa “polifonia” di significati, si è scelto come filo conduttore il tema della devozione religiosa alle Madonne vestite da parte delle comunità insediate sui territori come fattore di coesione sociale. Sottolineare il legame intercorrente tra il corredo delle effigi e il calendario liturgico, ha permesso infatti di mostrare ai visitatori una selezione di abiti che fossero testimonianza dei diversi culti mariani attestati nel territorio del Lazio meridionale e settentrionale quali la Madonna del Rosario, del Carmelo, di Loreto, della Madonna Addolorata, in relazione quindi ad altrettante categorie iconografiche. Nell’ultima delle mostre, tenutasi a Viterbo, si è scelto di porre l’attenzione sul culto: talvolta le Madonne vestite sono infatti oggetto di grande devozione, in altri casi invece il culto è stato abbandonato e le Madonne ritrovate in sagrestie o armadi hanno riattivato nella popolazione ricordi di processioni, portando a compiere restauri, studi o più semplicemente ricerche di vecchie foto nei cassetti.

Fig.6

Vallerano (VT), Santa Maria della Pieve, Corsetto della Madonna del Rosario, I metà XVIII sec.

Spesso infatti l’abolizione del culto nasce da disposizioni dei vescovi e non corrisponde al sentimento dei fedeli che talvolta si sono anche opposti con forza a tali decisioni.

 

Bibliografia

Tessere La Speranza collana diretta da Alfonsina Russo, Luisa Caporossi, Francesca Fabbri, Ed. Gangemi 2016-2019 (9 voll.):

Tessere la speranza: Il culto della Madonna vestita lungo le vie del Giubileo, Catalogo della mostra (Roma, Palazzo Patrizi-Clementi, 9 Dicembre 2016 - 9 Gennaio 2017), a cura di A. Russo, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2016.

Tessere la Speranza. Le preziose vesti dalle Madonne Addolorate del Lazio a Santa Marìa de La Esperanza Macarena di Siviglia, Catalogo della mostra (Sora, Museo Civico della Media Valle del Liri, 15 Giugno – 22 Luglio 2017), a cura di A. Russo, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2017.

Tessere la Speranza. Dal culto della Vergine del Rosario al restauro della Madonna della cintura di Gaeta, Catalogo della mostra (Gaeta, Museo diocesano, 27 Luglio – 1 Ottobre 2017), a cura di A. Russo, S. Urciuoli, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2017.

Tessere la Speranza. Il culto della Madonna di Loreto, Catalogo della mostra (Arpino, Palazzo Boncompagni, 9 Dicembre 2017 – 9 Febbraio 2018), a cura di A. Russo, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2017.

Tessere la Speranza. Le vesti celesti in Aracoeli, Catalogo della mostra (Roma, Basilica di Santa Maria in Aracoeli, 9 Marzo - 4 Maggio 2018), a cura di M. Eichberg, A. Russo, L. Caporossi e F. Fabbri, Roma 2018.

Tessere la Speranza. Il culto della Madonna delle Grazie, Catalogo della mostra (Capranica, Chiesa di San Francesco, 9 Maggio – 1 Giugno 2018), a cura di M. Eichberg, A. Russo, L. Caporossi, F. Fabbri, Giannino Tiziani, Roma 2018.

Tessere la Speranza. Le vesti preziose della Madonna di Loreto in Italia, Catalogo della mostra (Lisbona, Museo di São Roque presso la Santa Vasa da Misericordia de Lisboa, 16 Marzo - 19 Maggio 2019), a cura di S. Gizzi, A. Russo, L. Riccardi, Roma 2019.

Tessere la Speranza. Il culto della Madonna vestita nella Tuscia, Catalogo della mostra (Viterbo Monastero di Santa Rosa 31 Agosto- 3 Ottobre 2019), a cura di M. Eichberg, L. Caporossi, M. Arduini, Roma 2019.

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#LACULTURANONSIFERMA #VISIONIDAITERRITORI: SAN GENNARO E I BUSTI ARGENTEI DEI COMPATRONI DI NAPOLI A CURA DI VALENTINA SANTONICO (DEMOETNOANTROPOLOGA - MIBACT)

Contributo SABAP – NA per l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale - campagna MiBACT #laculturanonsiferma

I busti argentei dei Santi compatroni di Napoli. Poliedricità delle esigenze di salvaguardia: un’esperienza positiva.

 

 

Il contesto

Nel sabato che precede la prima domenica di maggio cade la prima delle ricorrenze annuali dedicate a San Gennaro a Napoli. Delle tre occasioni riservate alla commemorazione delle vicende che riguardano il Santo Patrono, questa è sicuramente la più sentita, la più partecipata e la più articolata. Celebrata per ricordare la prima traslazione delle reliquie di San Gennaro, l’evento vede, oltre alla partecipazione di una nutritissima folla di fedeli, quella delle autorità civili e religiose rappresentate nelle loro più alte cariche: il Cardinale per l’Arcidiocesi e il Sindaco per la Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro, i cui componenti sono da secoli i custodi riconosciuti della sua storia e dei beni ad essa connessi, tra cui il sangue stesso e i preziosissimi oggetti che compongono il corredo del Santo, donati in segno di devozione nei secoli.

In questa occasione viene svolto anche un corteo processionale il cui itinerario parte dal Duomo per arrivare a Santa Chiara, dove ha luogo una solenne celebrazione che culmina con lo scioglimento del sangue nelle ampolle. Nel suo annuale viaggio tra le strade del centro di Napoli, il busto dorato del Santo viene accompagnato da quelli argentei dei compatroni. Se ne contano 54, donati nel tempo da corporazionio dalla popolazione afferente a determinate parrocchie o quartieri esposti al culto sulle mensole della Cappella del Tesoro, delle sacrestie retrostanti ed ammirati nelle sale dell’adiacente Museo del Tesoro di San Gennaro. I più antichi risalgono al XVI secolo, l’ultimo è quello di Santa Giovanna Antida del 2009 a conferma della continuità e della persistenza che tale pratica cultuale ancora riveste nella città.

Ogni anno, in base alle richieste pervenute dalle parrocchie e dalle congregazioni o a rotazione, vengono scelti circa 20 busti per essere portati a spalla in processione da squadre di portatori che non necessariamente sono composte da cittadini napoletani, ma che possono arrivare anche da altre realtà italiane, come per il busto di Sant’Emidio, patrono di Ascoli Piceno. L’uscita dei “santi” in processione è un evento straordinario, che ha dato anche luogo alla nascita di un antico detto ancora oggi pronunciato alla comparsa di persone che si mostrano assai poco in giro: "... so' asciute 'e statue 'a dint' 'o vescovato!".

Il progetto

L’interevento portato avanti dalla Soprintendenza ABAP per il Comune di Napoli nel 2019 riguarda proprio i santi compatroni e le attività di preparazione che li vedono coinvolti come protagonisti, a latere della figura prevalente e dominante di San Gennaro, ma non per questo percepiti come secondari dai propri devoti. A ben guardare, lo stesso San Gennaro rivestirebbe il ruolo di compatrono, poiché la prima Patrona della città è Santa Maria Assunta, titolare anche del Duomo.

Nell’ambito del proficuo rapporto di collaborazione instauratosi con la Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro, la Soprintendenza ABAP per il Comune di Napoli ha proposto ed avviato una serie di iniziative tese a promuovere la tutela e la valorizzazione della manifestazione religiosa, parallelamente all’inizio di un organico programma di manutenzione delle sculture portate in processione.

Il progetto ha posto in essere un interessante laboratorio basato sullo scambio di pratiche e conoscenze tra i vari attori coinvolti, offrendo una occasione di riflessione interdisciplinare sul modo di intendere la tutela e la valorizzazione di un patrimonio culturale che si manifesta come vario e multiforme nei suoi riferimenti.

L’attività di tutela è stata portata avanti in due fasi: quella imprescindibile del restauro di alcuni busti, che nel corso del tempo avevano subito urti, rotture e ossidazione dovuta sia alla reazione del metallo con gli agenti chimici presenti nell’aria, che al contatto con la pelle delle mani e quella, altrettanto fondamentale, della in-formazione del gruppo di movimentatori. Il venerdì che precede il sabato interessato dalle celebrazioni, prima che iniziassero le operazioni di spostamento ed esposizione dei busti all’interno della navata laterale, è stato svolto un breve corso rivolto ai movimentatori i cui contenuti hanno spaziato dalla storia della devozione della città al proprio Santo Patrono, alla storia dell’arte e alla descrizione dei fattori di degrado dei manufatti. Scopo dell’iniziativa è stato quello di suggerire e concordare strategie di interazione con i busti al fine di prevenire eventuali danni attraverso il riconoscimento del ruolo attivo dei movimentatori e della loro posizione di portatori di un sapere informale ma, ora, ufficialmente riconosciuto.

La tutela di beni su cui vengono a convergere molteplici interessi culturali richiede, infatti, la costruzione di una metodologia di salvaguardia che tenga conto della loro specifica e polivalente natura. Oltre alla necessità di tutelare la loro componente materiale è fondamentale tener conto anche della loro funzione, del loro significato simbolico e delle occasioni in cui essi assumono il ruolo di oggetti significanti, elementi attivi all’interno di specifici contesti. Nel laboratorio si è quindi voluto riconoscere formalmente tutti questi aspetti cercando una soluzione di equilibrio tra esigenze diverse, ma complementari.

Considerazioni

La prospettiva antropologica si è rivelata preziosa in questa occasione come forma di mediazione tra saperi e pratiche di differente natura. Da un lato la necessità della tutela - dettata dal Codice dei Beni Culturali e abitualmente intesa come prevalente su qualsiasi altra forma di intervento - ha reso necessaria un’operazione di restauro, consolidamento strutturale e pulitura dei busti, ma nella circostanza specifica essa è stata armonizzata e integrata con le numerose altre esigenze a cui questi beni rispondono. Ad esempio, si è tenuta nella opportuna considerazione la necessità di rendere accessibili le sculture, garantendo le operazioni di movimentazione nella loro tradizionale modalità di svolgimento, facendo un passo indietro rispetto alla proposta, avanzata da parte dei tecnici, di utilizzo di strumenti meccanici che garantirebbero una maggiore sicurezza degli ambienti, dei busti argentei e delle persone che li maneggiano, ma impedirebbero per contro il soddisfacimento delle istanze devozionali, espresse attraverso l’offerta della propria fatica (alcuni busti arrivano a pesare oltre i 150 chili e sono spesso posizionati su mensole e nicchie difficili da raggiungere).Istanze, queste, che contribuiscono ad accrescere il valore patrimoniale di questo “rituale di preparazione”, il cui riconoscimento ha permesso di lasciare spazio all’espressione di pratiche e competenze non attuabili in un contesto diverso da quello consueto, la cui garanzia di continuità è stata ottenuta bilanciando le necessità di tutela con le esigenze della comunità di pratica.

Al progetto hanno partecipato per la SABAP Comune di Napoli la dott.ssa Laura Giusti (Funzionario Storico dell’Arte), la dott.ssa Annunziata D’Alconzo (Funzionario Restauratore), la dott.ssa Valentina Santonico (Funzionario Demoetnoantropologo) e il dott. Stefano Moscatelli (ALES).

Si ringrazia la Deputazione del Tesoro di San Gennaro, la sua Responsabile delle Attività culturali, dott.ssa Luciana De Maria, il dott. Massimiliano Massera che ha effettuato gli interventi di restauro e la squadra di movimentatori.

Bibliografia di riferimento

- AA.VV. (1958), “Devozione”, in Enciclopedia universale dell'arte vol.4, Istituto per la collaborazione culturale, Firenze, pp. 289-306.

- Boggio M., Lombardi Satriani L. M. (2014), San Gennaro. Viaggio nell’identità napoletana, Armando editore, Roma.

- Bravo G. L., Tucci R. (2006), I beni culturali demoetnoantropologici, Carocci, Roma.

- Cirese A. M. (2002), Beni immateriali o beni inoggettuali?, in “Antropologia Museale”, 1, pp. 66-69.

- Scovazzi T. et alii, (2011), Il patrimonio culturale intangibile nelle sue diverse dimensioni, Giuffre’, Milano.

- Strazzullo F. (2008), San Gennaro “defensor civitatis” e il voto del 1527, Cappella del Tesoro di San Gennaro, Napoli.

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#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle stampe: i giochi di strategia

di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza e Leandro Ventura

Iniziamo oggi il nostro consueto viaggio fra le quattordicimila tavole dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, raccontando le incisioni dei giochi di strategia conservate presso il Gabinetto delle Stampe. Se giovedì scorso abbiamo incontrato l’attesa del giocatore che vive l’ebbrezza dell’azzardo aspettando la decisione della sorte, oggi entriamo in un nuovo campo di gioco, nel quale vengono invece richieste destrezza e abilità tattica.

L’adozione di tavole variamente configurate a fini ludici ha radici antichissime. Risale alla Mesopotamia di oltre 5000 anni fa il gioco reale di Ur e al 5000 a.C. l’egiziano senet, attestato successivamente nella tomba di Tutankamhon, entrambi antenati del backgammon. Antica, ma molto più vicina ai nostri giorni è la tabula lusoria romana, una tavola da gioco conservata in tanti esemplari incisi “abusivamente” su soglie o gradini di molti spazi pubblici, come quella conservata sul bordo di una grande piscina a Roma alle Terme di Caracalla, dove probabilmente i giocatori si sfidavano stando seduti nell’acqua termale: stiamo parlando di veri campi di gioco, tra i cui confini disegnati si entra osservando regole e istruzioni specifiche.

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Tabula lusoria (ph. Roberto Galasso) 

Alle Terme di Caracalla è ancora visibile una tabula lusoria incisa sul bordo di una grande piscina e probabilmente i giocatori si sfidavano stando seduti nell'acqua. Si tratterebbe di una sorta di scacchiera destinata al gioco delle fossette o tropa. Il gioco consisteva nel far cadere le biglie, oppure noci o astragali, secondo una successione stabilita, in tutte le fossette fino ad arrivare all'ultima al di là di una riga. Sulla tabula lusoria delle Terme di Caracalla sono identificabili delle lettere probabilmente incise dai giocatori che frequentavano le Terme, probabilmente frasi scherzose che si scambiavano gli avversari durante il gioco. Paola Caramadre, Soprintendenza Speciale di Roma. 

I più noti tra i giochi di strategia sono certamente la dama e gli scacchi, giochi di fama internazionale che coinvolgono soprattutto giocatori adulti. Nato nel VI secolo in India, il gioco degli scacchi, attraverso la mediazione della cultura persiana, si diffuse presso gli Arabi per giungere infine, con il nome originale di shatranj, nell’Europa medievale intorno al X sec. d. C.: il Museo Archeologico di Venafro, in Molise, conserva i pezzi più antichi d’Europa che una complessa datazione al radiocarbonio ha collocato proprio intorno all’anno mille.

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Capitoli da osservarsi per li giuochi delli scacchi, e dama, fine sec. XVIII-inizio sec. XIX, caratteri mobili tipografici (ICPI, Gabinetto delle stampe)

Presso il Gabinetto delle stampe, oltre ad alcune scacchiere, sono conservate, tra i capitoli dei giochi di fine Settecento, le regole della dama e degli scacchi. Le spiegazioni fornite sono molto dettagliate e utilizzano il lessico della strategia, dallo scacco soffocato alla pedina soffiata.

Il gioco degli scacchi è sempre attuale e appassiona milioni di giocatori in tutto il mondo -sono oltre 150 le federazioni nazionali esistenti- che si sfidano in tornei, campionati nazionali, internazionali, mondiali e Olimpiadi. La terminologia e gli schemi del gioco, molto utilizzati nel linguaggio metaforico e simbolico quotidiano, così come nel cinema e nella letteratura, ispirano la nota performance di Marostica, in provincia di Vicenza, dove oltre cinquecento figuranti in costume medioevale fanno da cornice ad una partita a scacchi giocata in piazza con personaggi viventi, che rappresenta la sfida di due nobili rampolli della città innamorati entrambi della bella Lionora.

Sul rovescio dello scacchiere è generalmente collocato il gioco del filetto, detto anche della tavola-Mulino. Si gioca in due, con nove pedine ciascuno, su un disegno di tre quadrati concentrici. Chi riesce a disporre tre pedine sulla stessa fila fa tris. Vince chi riduce l’avversario con due sole pedine. La versione semplificata e moderna del gioco è anche detta, infatti, tris, un passatempo adatto a tutte le età, ancora oggi diffusissimo che, sebbene richieda solo una matita e una superficie su cui scrivere, è commercializzato su svariati tipi di supporto e anche in molte versioni elettroniche.

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Nuovo giuoco della tavola molino, inizio secolo XX, litografia (ICPI, Gabinetto delle stampe)

Nel Gabinetto delle stampe sono conservati anche alcuni giochi di strategia militare, che vanno dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi decenni del ventesimo secolo. Si tratta di tavole che, attraverso immagini suggestive, gradevoli nel disegno e accurate nella rappresentazione grafica, rievocano alcuni dei principali avvenimenti militari della storia. In periodo di guerra, i giochi di strategia militare ebbero una larga promozione sul piano commerciale, perché educavano i giovani al valore bellico, all’amor patrio e al sacrificio.

La Battaglia del 48 è ad esempio una litografia di primo Novecento dell’editore Bertarelli di Milano che rimanda nel titolo all’avvenimento storico della prima guerra d’indipendenza. Lo scopo del gioco è l’attacco a un vecchio castello posizionato al numero 48 e difeso da due villaggi separati fra loro da una stretta gola.

Veri e propri giochi di strategia militare sono le varie tavole dedicate all’Assalto al castello, in cui lo scopo finale è quello di occupare la fortezza, che corrisponde al riquadro superiore numerato. Proprio come nella dama, sono presenti delle pedine (due difensori e 24 assedianti), che si muovono lungo il percorso e possono essere mangiate.

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Assalto al castello, anni Venti del XX secolo, litografia a colori, editore Marca Stella, Milano

(ICPI, Gabinetto delle stampe)

I giochi di strategia militare si sono trasformati nel tempo in versioni diverse e più attuali, che partono dalla battaglia navale, disegnata sul foglio a quadretti, che tutti conserviamo nei nostri ricordi, per arrivare, attraverso il Risiko, un gioco popolarissimo ma basato su modelli relazionali molto complessi, agli attuali giochi di strategia e simulazione di guerra che consentono di combattere battaglie virtuali contro altri giocatori collegati on-line da ogni parte del mondo.

Vi invitiamo oggi a stampare e a mettere alla prova la vostra abilità tattica con il gioco ottocentesco del lupo e delle pecore, molto simile nello schema ai giochi d’assalto alla fortezza. Chi vincerà? L’unità del gregge o la forza del predatore?

 

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Bibliografia

Come giocavamo: giochi e giocattoli 1750-1960, catalago della mostra (Milano, Rotonda della Be-sana, primavera 1984), a cura di P. Bonato, P. Franzini e M. Tosa, Milano 1984

M. Ceresa alla voce De’ Rossi, Giovanni Giacomo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Roma 1991, vol. 39, pp. 218-220

Fabbrica d’immagini, gioco e litografia nei fogli della Raccolta Bertarelli, catalogo della mostra (Milano, Spazio Baj-Palazzo Dugnani, 13 maggio-13 luglio 1993), a cura di A. Milano, Milano 1993

Gioco voce in Dizionario di antropologia, a cura di U. Fabietti e F. Remotti , Zanichelli, Bologna, 2001

R. Callois, I giochi e gli uomini, Milano 2014

 

Sitografia

http://www.giochidelloca.it/

http://www.treccani.it/enciclopedia/filetto/

http://www.cci-italia.it/index.shtm“Il Bollettino del collezionista di scacchi, edizione italiana del The Chess Collector. Organo ufficiale d'informazione dei collezionisti italiani aderenti al CCI”

http://naibi.net/b/053.pdf “Una datazione per gli scacchi di Venafro”di Franco Pratesi

http://www.ctsbasilicata.it/files/convenevole_r_e_bottone_f_-_la_storia_di_risiko_.pdf  “La storia di Risiko e l’anello mancante. Origini ed evoluzione del gioco di strategia più diffuso nel mondo” di Roberto Convenevole e Francesco Bottone

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Elaborato e video di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza, con la preziosa collaborazione di Roberto Galasso, Marco Marcotulli e Leandro Ventura.
Si ringrazia la collega Paola Caramadre della Soprintendenza Speciale di Roma per le indicazioni sulla tabula lusoria romana

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#LACULTURANONSIFERMA. PLAYGROUND: come il gioco disegna dinamiche inclusive e modifica l’uso dello spazio pubblico.

Testo di Emily Dellheim e Marianna Frattarelli
Foto di Moonchausen


Il progetto Playground, avviato all’interno del Laboratorio Formativo e di Progettazione Interculturale ArtClicks, elabora creativamente il concetto di contact zone di James Clifford, ovvero lo spazio sociale dove le culture si incontrano e si scontrano, utilizzando il patrimonio ludico delle “comunità migranti” presenti sul territorio dove il laboratorio si è svolto. Il gioco, infatti, instaura naturalmente un ponte tra le narrazioni delle tradizioni e le storie personali dei player, e al contempo offre un punto di incontro visivamente connotato: il playground.

Il progetto - finanziato dal MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma in collaborazione con ECCOM Idee per la cultura e con l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale (ICPI) - prende le forme di un “workshop di design del gioco e del playground da strada”, finalizzato alla creazione di una dinamica di gioco e all’allestimento di uno spazio dedicato all’attività ludica in strada, offrendo nuovi spunti di riflessione sull’uso dello spazio pubblico e delle pratiche sociali ad esso collegato.

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Il progetto analizzava due contesti urbani e sociali diversi del Lazio con due target diversi: ad Aprilia, collaborando con il Liceo Statale Antonio Meucci e a Roma al museo MAXXI. Ad Aprilia la squadra di lavoro era formata da studenti del programma di alternanza scuola-lavoro e gli ospiti del Centro Residenziale per minori “La Pergola”, mentre a Roma si è formato un gruppo eterogeneo di giovani adulti italiani, stranieri e migranti. Il gruppo di lavoro comprendeva persone provenienti da quattro continenti che parlavano dieci lingue diverse.

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L’avvio del laboratorio è stato affidato all’associazione Liscìa, che si occupa di metodologie non formali di educazione e di laboratori di partecipazione. Attraverso alcune proposte di gioco, le esperte - Cristina Gasperin e Ginevra Sammartino - hanno messo al centro il piacere, quale principio educativo che spinge naturalmente a costruire relazioni armoniose tra i partecipanti. Tema centrale del loro intervento è la costruzione del playground come spazio sacro, un temenos, che si attiva con il gioco, capace di far perdere a chiunque ne entri a far parte la sua connotazione identitaria diventando un Player, un giocatore.

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I laboratori erano affiancati con le visite alla collezione del MAXXI e la mostra temporanea La Strada: dove si crea il mondo, a cura di Hou Hanru, con l’obiettivo di dare un ulteriore contributo alla lettura dello spazio “su strada” e invitando i partecipanti a guardare da un lato ad artisti e architetti (come Sol Lewitt, Labics o Aldo Rossi), che hanno lavorato sulla progettazione, modularità e good design come ispirazione per la creazione del nostro playground, e dall’altro ad analizzare i contenuti valoriali delle opere: inclusione, collettività, azioni di gruppo e interventi nello spazio che hanno un impatto sociale o politico (come le opere di Alfredo Jaar e Boa Mistura), o che riflettono sul concetto di “strada” come luogo di cambiamento e di interazione sociale (come le opere di Robin Rhode, Marinella Senatore e i Modified Social Benches di Jeppe Hein).

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Grazie al coinvolgimento dell’Istituto Centrale per Il Patrimonio Immateriale e alla loro ricerca sul gioco e lo sport per il progetto “Italia dalle molte culture”, abbiamo potuto lavorare con Francesca Berti, ricercatrice presso l’Istituto di Scienze dell’Educazione dell’Università di Tübingen (Germania), con la quale sono stati indagati gli archetipi e le dinamiche ricorrenti nei giochi di strada. La sua proposta è stata incentrata sulla scoperta della varietà e della ricchezza della tradizione ludica dei vari paesi. Obiettivo del modulo era la conoscenza dei giochi tradizionali di strada come esperienza condivisa e dunque luogo di incontro tra le culture. La riflessione finale verteva, inoltre, sulla percezione dello spazio del gioco, delle sue regole e delle possibilità creative e di continua reinvenzione. Il suo intervento prevedeva l’uso di giochi di conoscenza e cooperativi e si sviluppava alternando momenti di auto-narrazione a momenti di gioco, utilizzando gli “strumenti” della tradizione ludica.

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In questa cornice preparatoria alla costruzione del Playground, il collettivo di architetti “Orizzontale” ha trasformato, in chiusura del Workshop, il “campo gioco” nel gioco stesso: PLAY with GROUND è il titolo del loro intervento.

PLAY with GROUND si rifà sia alla tradizione dei giochi di strada che al mondo del design, le cui caratteristiche sono la temporaneità e la modularità, con una particolare attenzione alla riproducibilità dei suoi elementi, sopratutto delle forme geometriche elementari: cerchio, quadrato e triangolo. Grazie alla autoproduzione di elementari strumenti di misurazione - squadre, pantografi e compassi creati con pochi e semplici materiali - è stato possibile rapportarsi in modo creativo e ogni volta inedito con lo spazio. Il loro modulo ha previsto una fase di progettazione del playground, in cui i partecipanti hanno prima condiviso degli schemi grafici riferiti a giochi, tradizionali e non, e poi li hanno “montati” in un lay-out unico che è stato in seguito riprodotto all’aperto, nel cortile della scuola e in quello del museo. Il playground diviene così una cosmogonia dalla quale i player hanno fatto derivare un gioco e il suo “universo di regole”.

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Ad Aprilia il playground era un grande tavolo da gioco, che modulava e rappresentava i giochi di tutti. A Roma, invece, i player al MAXXI cercavano di inventare un nuovo gioco, un ibrido dei contributi di tutti i player, modulando le regole. Lo spazio del playground, attivato nella piazza del museo, ha dimostrato di attirare e includere un pubblico interculturale e intergenerazionale: bambini, migranti e turisti tutti insieme.

I partecipanti hanno compilato un questionario con domande a risposta chiusa e aperta, all’inizio e alla fine del progetto. Alcune domande erano incentrate sul tema del gioco e altre legate alle proprie abitudini, all’uso del tempo libero, alla fruizione degli spazi pubblici della città e ai propri rapporti con i musei (dal punto di vista della conoscenza, frequenza, etc.). Le domande erano finalizzate misurare i cambiamenti tra l’inizio e la fine del progetto, catturare il MSC (Most Significant Change) (Davies e Dart, 2005), indagare sul concetto di gioco, dimostrare l’efficacia di includere il museo nel percorso del workshop, estrapolare gli effetti a lungo termine del progetto e valutare la sua sostenibilità e replicabilità. Durante i laboratori, i partecipanti hanno rilasciato interviste informali in cui sono stati incoraggiati ad esprimersi o raccontare i ricordi legati ai giochi.
Il progetto ha rivelato di aver portato un aumento di confidenza, autostima e pensiero positivo ai partecipanti nonché di avergli fatto superare le barriere delle differenze linguistiche e culturali per creare nuovo amicizie.

Playground è stato presentato a Tocatì – Festival Internazionale dei Giochi in Strada, dove è stato messo a confronto con altri progetti interculturali, offrendo l’occasione di discutere le buone pratiche nella rete territoriale. 

 

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Per approfondimenti:

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Il workshop è coordinato da Emily Dellheim e Marianna Frattarelli, con il contributo di Giovanna Rocchi e Svetlana Antyushyna e con il supporto per la progettazione europea di Gloria Paris.
Tutor di progetto: Giulia Cardona, Project Assistant Progetto Art Clicks | MAXXI

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#LACULTURANONSIFERMA #LAFESTANONSIFERMA. Sguardi incrociati, cronaca di una festa. Santa Fermina, un’eredità alle nuove generazioni di Bianka Myftari

Le feste hanno sempre rivestito un ruolo fondamentale attraverso cui la comunità dialoga con l’esterno, creando relazioni. La festa esprime in un quadro modificato l’aspetto sacrale, i rituali, e soprattutto il valore patrimoniale di cui le comunità sono sempre più consapevoli. Le feste, in particolare quelle patronali, si legano con l’identità stessa del luogo e delle persone, come Santa Fermina, Santo Patrono dei Naviganti, di Amelia e di Civitavecchia. Ad Amelia si festeggia il 24 Novembre, a Civitavecchia il 28 aprile. 

La prima processione della santa, che unisce due località, è datata nel 1647, anno in cui la comunità civitavecchiese vedeva esaudito il secolare desiderio di ricevere dalla Chiesa di Amelia alcune reliquie della comune Patrona. Per questa occasione veniva organizzata per la prima volta una grande festa. Oggi, la festa si compone di vari eventi sia religiosi che laici che culminano con due processioni: terrestre e via mare. L’aspetto laico della festa varia nel corso degli anni, facendo emergere come la riproposizione e la reinvenzione siano caratteristiche peculiari delle feste mariane civitavecchiesi, rivolte soprattutto ai più giovani.

Diario di campo, aprile 2019
La domenica del 28 aprile è la giornata più sentita e attesa da gran parte della città, rappresenta il culmine di un intero anno di lavoro per il comitato che organizza la festa, e che raccoglie l’interesse e l’impegno della maggior parte della popolazione. All’alba del 28 aprile parto per Civitavecchia, città portuale aperta sul mar Tirreno, la cui storia è legata alla marineria e al commercio, ed è conosciuta fin dai tempi antichi come porto di Roma. Era una giornata chiara e serena, con il mare calmo e una temperatura gradevole. Camminavo a passo spedito per partecipare in tempo alla messa che si svolge nella piccola cappella di Santa Fermina all’interno della fortezza portuale Forte Michelangelo. La città si sveglia con il suono della Banda musicale “Giacomo Puccini” che percorre tutte le vie cittadine, segna il preludio dei festeggiamenti patronali. La prima messa inizia per le 08.30.
Questo rito rientra in quell’insieme di pratiche e conoscenze che formano i modelli culturali di una data società e svolgono una funzione di trasmissione di valori e norme, di riconoscimento di identità e coesione sociale. Durkheim analizza i riti religiosi come momenti di estasi collettiva nei quali, attraverso l’identificazione dell'oggetto di culto, viene rafforzata la coesione sociale tra i membri. Dopo la celebrazione eucaristica, ci dirigiamo verso la Cattedrale dove si svolgerà l’offerta del Cero da parte della comunità di Amelia preceduta dal trentacinquennale Corteo Storico amerino, che fa capo al prestigioso Ente Palio dei Colombi, composto da circa duecento persone tra tamburini, sbandieratori e costumanti appartenenti alle varie contrade della città umbra. Le celebrazioni continuano con il corteo storico delle cinque contrade di Amelia, Collis, Crux, Valli, Posterola e Platea che sfila per la città con costumi dell’epoca trecentesca romana, dando vita insieme al gruppo di sbandieratori ad un vero e proprio insigne riconoscimento alla Santa Patrona. Per gli amerini la festa e molto sentita non solo perché per un giorno evocano i personaggi del medioevo, ma per partecipare attivamente ed essere parte della tradizione cittadina. Ci sono molti giovani che da molti anni fanno parte delle contrade amerine partecipando attivamente alle cerimonie tradizionali come la festa della comune Patrona Fermina ad Amelia e Civitavecchia, sia anche alle altre celebrazioni come il Palio dei Colombi, una singolare rievocazione in costume che si svolge secondo quanto contenuto negli Statuti Comunali trecenteschi del 1346. In occasione del Palio, ciascuna contrada di Amelia scende in campo con un balestriere, un cavallo e un cavaliere.
Tra le file degli sbandieratori ci sono anche i bambini. Il gruppo degli sbandieratori costituiscono un’antica tradizione ad Amelia che viene tramandata da generazione in generazione; è importante condividere e portare avanti la tradizione, perché questi valori non scompaiano mai. A questi ragazzi gli viene insegnato a custodire la tradizione, un’esperienza fondatrice e dai caratteri basilari del proprio stare al mondo.

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Civitavecchia, 2019 - Piccoli sbandieratori mentre si esibiscono davanti alla comunità (ph. B. Myftari)

Un momento di particolare interesse è il pranzo che il comitato offre dopo la messa pontificale a tutta la comunità amerina venuta a Civitavecchia per i festeggiamenti della comune Patrona. Il cibo è legato al momento festivo della commensalità fra gli uomini, è un momento intimo e allo stesso tempo collettivo. Il cibo a saperlo leggere, è un libro di memoria e, se ci si viene dalla terra in cui siamo nati, è anche un pezzo della nostra infanzia e della nostra storia. I prodotti alimentari sono innegabilmente la caratterizzazione di un territorio, in cui le varie popolazioni hanno affermato la propria identità e il diritto all’esistenza. Quindi storia del cibo, ma anche la storia nel cibo. E in questa prospettiva non poteva mancare il prodotto che rappresenta di più Civitavecchia, il pesce, territorio di pescatori, parte fondamentale della tradizione. Questo incontro annuale, diventato un rito tra gli abitanti di Amelia e di Civitavecchia è un’occasione per rinsaldare il gemellaggio tra le due città. Liberalità e gratitudine sono inseparabili e vengono esercitate palesemente nelle feste, in tanti aspetti che mi limito a menzionare sommariamente: donare il proprio tempo, le proprie capacità, una parte dei propri beni; donare la propria cordialità e gioia, esercitare l’ospitalità, dedicarsi agli altri, e tutto questo porta a accogliere con riconoscenza i gesti ospitali, i trattamenti di riguardo e quel che gli altri hanno donato, in senso ampio, per la buona riuscita della festa. La festa, pertanto, è un’occasione privilegiata per vivere e curare la trasmissione intergenerazionale, così importante per la crescita personale e sociale.
Nel primo pomeriggio, davanti alla Cattedrale comincia il raduno dei cortei storici di Civitavecchia e di Amelia, del gruppo dell’Ordine di Malta, Marinai d’Italia, pro-loco Civitavecchia, di tutte le associazioni, delle confraternite civitavecchiesi e amerine.

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Civitavecchia, 2019 - Bambine vestite con il costume iconografico della Santa (ph. B. Myftari)

Al corteo partecipano anche diversi gruppi boy scout della città. Una particolare menzione alle famiglie che con tanta tenerezza hanno curato la partecipazione alla processione delle bambine vestite con il costume iconografico della Santa. Questa nuova tradizione si è inserita da poco nell’uso locale grazie al nuovo presidente del Comitato, Ombretta del Monte, decisa a far rivivere non solo la tradizione ma anche creare nuovi costumi che siano parte di un nuovo rito festivo. All’interno della Cattedrale i portatori di Santa Fermina finiscono gli ultimi preparativi e controllano che la macchina a spalla non abbia problemi durante la processione percorrendo le vie storiche della città.

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Civitavecchia, 2019 - La statua di S. Fermina esce in processione (ph. B. Myftari)

Aprono il corteo i membri del comitato, proseguendo con le autorità locali civitavecchiesi e amerine, le autorità civili e militari. Dalla Cattedrale esce la statua di Santa Fermina che viene portata sulle spalle dai portatori vestiti da marinai, che sono il simbolo della santa perché sono coloro che “portano” sulle spalle il peso della devozione. In processione vengono portati anche le reliquie della santa. Nel corso della processione si procede con l’accensione di un cero devozionale da parte della staffetta podistica proveniente da Amelia, davanti al monumento della Patrona che si trova all’ingresso della fortezza Forte Michelangelo. La statua di Santa Fermina arrivata al porto, è accolta dalle sirene delle navi. Questo momento è particolarmente difficile per i portatori, ci vuole tanta pazienza e lucidità perché la santa viene spostata dalla banchina al rimorchiatore per intraprendere la processione via mare presso le acque portuali. I rimorchiatori sono accompagnati dalla Guardia Costiera, Capitaneria del porto, i marinai e i pescatori. Tutti salutano la santa suonando contemporaneamente le sirene, mentre il vaporetto si allontana dalla banchina davanti si aprono due prospettive, da un lato il panorama della città splendente dalle luci del tramonto, dall’altro l’orizzonte, l’infinito blu. Un fedele grida “evviva Santa Fermina”, in quel momento sembra di entrare in un'altra dimensione, forse e anche questo un legame intimo con il divino, la necessità aggrapparsi come i marinai, a un credo. Dopo il giro in porto, il corteo religioso riprende il cammino per tornare in Cattedrale per celebrare un’ultima messa e raccogliersi in preghiera da tutti i devoti.

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Civitavecchia, 2018 - Processione via mare (ph. B. Myftari)

La ricerca sulla Processione di Santa Fermina è stata svolta nell'ambito del lavoro di tesi per la Scuola di Specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell'Università La Sapienza di Roma. 

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#LACULTURANONSIFERMA. #Visionidaiterritori. Molise: feste e tradizioni del mese di aprile di Lia Montereale

Nell’articolo precedente abbiamo parlato dell’attesa della Pasqua e del senso di condivisione e di identità che si crea nella comunità in occasione dell’evento liturgico, ma le feste tradizionali del Molise del mese di aprile non si fermano qui. 

Scopriamole insieme e continuiamo il nostro viaggio lungo la mappa delle feste e delle tradizioni del Segretariato Regionale per il Molise.

mappa-molise aprile

La festa di San Giorgio ci porta come prima tappa a Mirabello Sannitico, anche se non è l’unico comune in cui si festeggia. Si celebra infatti in altre località tra cui Campobasso e Petrella Tifernina.
A Mirabello Sannitico, tra il 15 e 22 aprile si accendono centinaia di falò per ricordare l’apparizione di San Giorgio che liberò il paese da attacchi nemici. È una festa di grande impatto scenografico, che alterna momenti devozionali e religiosi, a momenti più prettamente celebrativi, folcloristici e di condivisione di cibo e bevande.
Per saperne di più è possibile consultare la pagina dedicata a San Giorgio a Mirabello Sannitico.

san-giorgio-a-mirabello-sannitico

Spostiamoci ora nel comune di San Martino in Pensilis. La festa patronale in onore di San Leo - 29 aprile-2 maggio - rientra nel ciclo delle feste primaverili che si celebrano nel mese di Aprile. Si distingue per la presenza della Carrese, una corsa di carri trainati da buoi, molto sentita e amata dagli abitanti di San Martino e costituisce un momento di grande partecipazione e coinvolgimento della comunità.

La tradizione locale spiega il perché del legame tra San Leo, San Martino in Pensilis e la Carrese. Si narra infatti che i resti di San Leo furono ritrovati in un bosco e contesi dai signori dei vari paesi circostanti.
Per risolvere la controversia, le reliquie vennero poste su un carro trainato da buoi che giunsero a San Martino in Pensilis. Fu chiaro quindi che il Santo avesse scelto questa cittadina divenendone il santo patrono.
Per saperne di più, visita San Leo a San Martino in Pensilis.

carri aprile

Carrese, San Leo a San Martino in Pensilis (ICPi)

A Santa Croce di Magliano invece, in provincia di Campobasso, l’ultimo sabato di Aprile si festeggia la Madonna dell’Incoronata. È strettamente legata alla Puglia, in particolare Foggia, e alla pratica della transumanza. Secondo la tradizione infatti, nel bosco del Cervaro, all'alba dell'ultimo sabato di aprile del 1001, la Madonna apparve ad un cacciatore incoronata da due angeli. A costui chiese di edificare, proprio in quel luogo, una chiesa che potesse ospitare la sua statua. ll santuario di Foggia divenne quindi il luogo che i pastori preferivano per la sosta prima di rientrare nelle loro terre di origine.
La processione in onore della Madonna dell'Incoronata è dunque un modo attraverso cui la cittadina di Santa Croce di Magliano esprime la propria devozione verso la Madonna ma allo stesso tempo consente di ricordare e rivivere il lavoro dei pastori, le loro lunghe percorrenze dal freddo Molise verso il clima più mite della Puglia, nonché di celebrare il legame tra uomini ed animali. Durante la processione è possibile vedere greggi di pecore e capre, ma anche buoi e cavalli “circolare” per le strade, a cui si aggiungono piccoli carri con bambini trainati da altrettanti piccoli cavalli.

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Processione della Madonna Incoronata, Santa Croce di Magliano (ICPi)

Come tutte le feste tradizionali che si rispettino, non può certo mancare la parte dei sapori locali. Le donne, per l’occasione, preparano infatti un formaggio dalla forma di una “treccia”. È un elemento tipico di questa festa e viene indossato a tracolla dai vari partecipanti tra cui cavalieri e pastori. Simboleggia prosperità e abbondanza ed è un modo per manifestare gratitudine per ricchezza e benessere.
Per gli approfondimenti, per sapere chi era lo Scarciacappa e per tante altre curiosità, clicca a questo link.

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#LACULTURANONSIFERMA la rubrica di Etnomusicologia a cura dell'etnomusicologo Claudio Rizzoni (Demoetnoantropologo - MiBACT): il capodanno cinese tra Italia e Cina

Il capodanno cinese a Milano e a Wencheng (文成)

Video e testo di Francesco Serratore, ricercatore in antropologia della musica presso lo Shangai Conservatory of Music.

La Festa di Primavera (chunjie 春节) è senza dubbio la festività tradizionale più sentita dal popolo cinese, chiamata in occidente con l’espressione, meno diffusa in Cina, di ‘Capodanno Cinese’ (zhongguo xin nian中国新年). Questa ricorrenza segna l’inizio del nuovo anno in base al calendario cinese tradizionale (lunare). Essa coincide con il secondo novilunio dopo il solstizio d’inverno e quindi può oscillare tra il 21 gennaio e il 19 febbraio. Secondo l’astrologia cinese, inoltre, ogni anno è associato ad un animale e a un ‘ramo terrestre’ formando un ciclo di 12 anni cui corrispondono appunto dodici animali: il topo, il bue, la tigre, il coniglio, il drago, il serpente, il cavallo, la capra, la scimmia, il gallo, il cane, il maiale. In Cina i festeggiamenti del capodanno durano 14 giorni e si concludono con la festa delle lanterne.

Questo è di fatto un periodo molto importante per i membri della comunità cinese di Milano, durante il quale vengono attivati processi utili a rimarcare la presenza della comunità sul territorio, a stabilire e mettere in mostra i legami fra vari gruppi di migranti cinesi a Milano, ad affermare il ruolo e lo status sociale, culturale e politico dei gruppi o dei singoli all’interno della comunità stessa, nei rapporti con organizzazioni esterne appartenenti alla società del luogo di approdo e nei rapporti fra la comunità diasporica e il governo cinese.

 

Durante il periodo del capodanno cinese, l’intera comunità tende a essere più gioviale, la chinatown milanese si colora di rosso con le hongdeng (lanterne rosse) disposte per tutta la chinatown e le varie decorazioni come i chunlian e i doufang affisse nei negozi cinesi.

Le lanterne rosse, oltre a essere un simbolo della Cina, sono di certo uno dei simboli della diaspora cinese nel mondo. I chunlian e i doufang sono un elemento grafico che arricchisce la chinatown milanese durante il capodanno. Si tratta di decorazioni rosse contenenti caratteri cinesi di colore oro che richiamano buoni auspici e che vengono tradizionalmente affisse agli ingressi delle abitazioni e dei negozi.

Gli stessi commercianti si vestono in modo più elegante e il colore rosso predomina anche nel loro abbigliamento. Sciarpe rosse per gli uomini e scarpe rosse per le donne sono veramente molto comuni nella chinatown durante questo periodo.

Nelle giornate principali del capodanno Cinese a Milano la musica diventa una parte importante dei festeggiamenti, sia nell'ambito di iniziative private, come ad esempio nei diversi Ktv (Karaoke cinese) presenti a Milano, si sotto forma di iniziative pubbliche. Fra questi ultimi, l'evento principale del capodanno cinese a Milano è rappresentato dalla sfilata del drago su via Paolo Sarpi, e dal successivo concerto in piazza Gramsci.

Che musiche vengono usate in questi contesti, quali sono gli insiemi di significati che contengono?

Osservare e studiare le pratiche musicali del capodanno cinese a Milano ci consente di capire innanzi tutto che la comunità cinese organizza l'evento e la progettazione musicale dello stesso al fine di mantenere e di migliorare le relazioni con la comunità locale. Lo stesso processo organizzativo, gestito per diversi anni dall'associazione "Shoulashou - Diamoci la mano" mette in luce come le finalità di scambio culturale rappresentino una priorità per gli organizzatori. Questo emerge chiaramente durante il concerto di piazza Gramsci dove alcune formazioni musicali vengono create da gruppi misti di italiani e cinesi. Nel video allegato possiamo ad esempio vedere la band di tamburi cinesi (gu) composta da amatori italiani e cinesi. Nonostante i ritmi realizzati dal gruppo siano piuttosto semplici, il valore simbolico è invece molto forte. Non a caso, ad esempio l'evento del 2015 venne ufficialmente aperto da un colpo dello stesso gong da parte dell'allora sindaco di Milano Giuliano Pisapia e dal Console Generale Cinese.

Nel video possiamo anche vedere una serie di attività musicali, che includono musica tradizionale cinese, come ad esempio l'esecuzione di un solo di guzheng (cetra cinese) o di un brano ispirato all'opera di Pechino. Ma possiamo vedere anche la presentazione di brani che afferiscono invece alla sfera della popular music cinese.

Quello che probabilmente ci può interessare è che queste pratiche musicali sono in linea con le pratiche musicali presentate dalle televisioni cinesi, come ad esempio dalla CCTV (China Central Television) durante i festeggiamenti del capodanno cinese in Cina. Queste pratiche fanno quindi riferimento alla cultura nazionale cinese, e questo vale ad esempio anche per la sfilata del drago per le vie principali della Chinatown.

Anche nel caso della danza della sfilata del drago però, vengono mantenute le due finalità simboliche, quella di rappresentare la Cina come nazione e quella di rappresentazione e di scambio culturale nel contesto italiano. La prima, vede il drago come simbolo nazionale cinese, la seconda è rappresentata dal fatto che ogni anno a Milano vi sono almeno due gruppi che eseguono la danza del drago, uno è composto da italiani e l'altro da migranti cinesi.

Quello che però io mi chiedevo spesso durante le mie ricerche sulle musiche dei cinesi a Milano, era quali fossero le tradizioni musicali appartenenti al luogo di origine dei migranti. Dobbiamo di fatto considerare che la maggior parte dei migranti cinesi di Milano proviene da un'area molto circoscritta della Cina, ovvero da alcune aree rurali della città prefettura di Wenzhou, nella provincia sud-orientale del Zhejiang.

Per rispondere a questa domanda, mi sono recato personalmente a Wencheng, (una contea di Wenzhou) per un periodo di ricerca, dove ho avuto modo di osservare e di videoregistrare i festeggiamenti del capodanno Cinese.

Da queste ricerche sono emerse da un lato, molte similitudini fra le attività musicali realizzate a Milano e Wencheng, questo vale soprattutto per quelle pratiche che rappresentano la Cina come nazione. Al contrario proprio la sfilata del drago e le musiche ad essa associate hanno fatto emergere una delle principali differenze. Ovvero la funzione religiosa e rituale che questo evento assume nella contea cinese oggetto di questa analisi. Nel villaggio di Xikeng (contea di Wencheng), dove ho realizzato il filmato allegato, vi è la venerazione di Longwang 龙王 (Re Drago), divinità appartenente alla religione popolare cinese, infatti, il drago nella cultura contadina cinese era una figura mitologica alla quale ci si rivolgeva per chiedere la pioggia e un buon raccolto, col tempo è stato concepito come un elemento molto importante anche all’interno delle religioni cinesi quali buddismo, taoismo.

Per queste ragioni la sfilata del drago assume caratteristiche diverse. L'accompagnamento musicale è realizzato da una tipica formazione musicale chuida, comunemente usata in questa area per i rituali propiziatori e per i rituali funebri. Chuida significa letteralmente soffiare e percuotere, e fa quindi riferimento a fiati e percussioni in relazione agli strumenti musicali. Se il set di percussioni è presente anche in Italia durante la sfilata del drago, lo strumento a fiato principale di questa formazione musicale, che è un oboe tradizionale chiamato suona, risulta assente a Milano e invece fondamentale in Cina.

Durante la sfilata del drago i cittadini di Xikeng preparano nelle loro case degli altari propiziatori, sui quali vengono posizionati oltre a cibi e oggetti sacrificali anche degli hongbao ovvero delle buste rosse contenenti delle somme di denaro, che verranno benedette al passaggio del drago e poi messe sotto il cuscino dei bambini della famiglia. Così le famiglie attendono il passaggio del drago da casa loro, e al suo arrivo accedono delle batterie di fuochi di artificio, invitando poi i musicisti e il drago ad entrare nelle case per la benedizione. Il suonatore di suona deve sempre suonare quando il drago entra nelle case, mentre non è obbligato a farlo quando il drago percorre le vie del paese, e questo ne enfatizza la sua importanza all'interno dei rituali religiosi.

In questi termini, lo stesso insieme di significati che la processione del drago contiene variano: a Wencheng la figura del drago è strettamente legata alle divinità della religione popolare e alle credenze e auspici del mondo contadino. Il drago è inteso come quella creatura sovrannaturale che porta il buon auspicio, regola la pioggia e favorisce un buon raccolto.

La sua matrice divina emerge dal suo legame con il tempio locale, dagli altari propiziatori che vengono appositamente allestiti in attesa del passaggio del drago e, ad esempio, dagli hongbao che vengono posizionati su questi altari per essere benedetti e poi donati ai bambini.

A Milano il drago seppur è un elemento di buon auspicio, rappresenta la Cina come stato e il potere, il drago è messo in mostra più come simbolo dell’’impero cinese’ che come atto rituale. Non vi sono altarini, né tantomeno vi è un tempio al quale fare riferimento.

Le pratiche musicali che accompagnano il drago simboleggiano di fatto questo dualismo. A Milano le percussioni vengono utilizzate per creare enfasi alla sfilata del drago e per sostenere ritmicamente i movimenti degli acrobati. A Wencheng, vi è la presenza del suona, che suona solamente all’ingresso delle abitazioni, a voler ristabilire l’ordine dopo la confusione creata dai fuochi d’artificio e dalle percussioni che suonano in modo irregolare.

Bibliografia

Cologna, Daniele

2002 La Cina sotto casa: convivenza e conflitti tra cinesi e italiani in due quartieri di Milano, Milano: Franco Angeli.

Hood, Marlowe

1998 "Les communautés d'émigrants du Zhejiang", Enciclopédie de la diaspora chinoise. A cura di Lynn Pann, 39-42. Paris: Les Éditions du Pacifique.

Serratore, Francesco

2016 “Musica e identità transnazionale: un viaggio nella comunità cinese di Milano Identità di luogo, pluralità di pratiche. Componenti sonore e modalità partecipative nel contesto urbano milanese. A cura di Malatesta, C. e Giovannini, O., 169-89. Milano: Mimesis.

Serratore, Francesco

2018 “Funeral Music in Wencheng and its Transnational Application in the Chinese Community of Milan”, AEMR-EJ, 2: 65-79.

Wong, Wai Yip

2011 “Defining Chinese Folk Religion: A Methodological Interpretation”, Asian Philosophy,
XXI/2: 153-170.

Yang, Lihui, Deming An, e Jessica Anderson Turner.

2005. Handbook of Chinese Mythology. Oxford: Oxford University Press

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#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle stampe: giochi di sorte e di fortuna di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza e Leandro Ventura

Il tema del gioco governato dalla sorte è raccontato oggi attraverso la selezione di alcune incisioni rappresentative che vanno dalla tombola al lotto; le tavole scelte fanno parte della più ampia raccolta del Gabinetto delle Stampe, la cui cura è affidata all’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.

Cartellatombola sitoICPI

Cartella per il gioco della tombola, secolo XVIII, dipinta a mano su cartone con collage di incisioni ritagliate (ICPI, Gabinetto delle stampe)

La tombola resta uno dei giochi tradizionali più noti e diffusi nel nostro Paese, in particolare durante le festività natalizie. Presso il Gabinetto delle stampe è conservato un raro esemplare settecentesco, con cartelle dipinte a mano, insieme a figurine appositamente ritagliate e incollate come nel moderno decoupage. Al centro di ogni cartella, la fascia con i numeri rimanda al gioco della tombola, mentre le figurine in alto e in basso, così come l’alternarsi dei colori (giallo, violetto, verde e olivastro) riguardano altre meno note funzioni del gioco: forse i colori potrebbero ricondurre a una sorta di roulette e le figure al mercante in fiera. Più recenti cartelle della tombola, risalenti all’inizio del Novecento, sono invece contraddistinte da proverbi in dialetto siciliano, da rime curiose, oppure da graziosi giochi figurati sul dorso.

L’antenato comune non solo a molti noti giochi di fortuna ma al concetto stesso del gioco di estrazione può essere considerato il biribissi, come viene specificato nelle istruzioni di fine Settecento: “Il banchiere, in ogni sorta di Lotto, o Biribisso, pagherà il denaro”. Si trattava di un gioco d’azzardo dalle moltissime varianti, forse il più popolare e diffuso nell’Europa del XVII secolo. Nel Gabinetto delle stampe è conservato ad esempio Il nuovo et piacevole giuoco del Biribisse, una stampa seicentesca del noto editore romano Giovanni Giacomo De’ Rossi. La tavola non venne mai adoperata realmente perché, come si evince dalle istruzioni, si sarebbero dovuti tagliare “li 42 bolettini piccolini” in basso in modo da utilizzarli per l’estrazione all’interno di un cappello.

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Il nuovo et piacevole giuoco del Biribisse, secolo XVII, stampa calcografica, editore Giovanni Giacomo De Rossi, Roma (ICPI, Gabinetto delle stampe)

È prevista una vincita in denaro anche nel gioco della barca, di cui l’Istituto conserva la stessa litografia di primo Novecento presente presso la raccolta milanese di stampe “Achille Bertarelli”. Al centro della tavola sono raffigurati due bambini in barca, su un lago. Lo scopo del gioco è vincere le monete che, di mano in mano, vengono messe sul piano secondo il lancio di due dadi. Il giocatore sembra subire il verdetto della sorte, sperando con trepidazione nell’arrivo della fortuna, rappresentata dal doppio sei dei dadi, che regala al giocatore l’intera posta accumulata nel corso del gioco.

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Nuovo giuoco della barca, 1902-1906, litografia colorata, editore Eliseo Macchi, Milano (ICPI, Gabinetto delle stampe)

Un approfondimento a parte meriterebbe il lotto, nato come gioco clandestino nella Genova di fine Cinquecento e che ebbe presto una larga diffusione in tutti gli stati preunitari della penisola italiana, i quali lo resero legale spinti dall’enorme apporto economico dato dai suoi introiti. Presso il Gabinetto delle stampe, un botteghino per il lotto è ben rappresentato da un’acquaforte di Bartolomeo Pinelli del 1831. Interessante è infine una Lotteria dei fanciulli che risale agli anni Venti del Novecento. Espressamente rivolta ai ragazzi, è composta di 64 biglietti da ritagliare. La posta in gioco prevista consiste in soldatini, confetti o altri piccoli oggetti.

I giochi fin qui descritti sono accomunati dalla fortuna, favorevole o avversa, dall’estrazione di un numero e da una posta in gioco, spesso in denaro. Siamo in un campo del giocare nel quale si tratta di vincere non tanto su un avversario quanto sul destino; il giocatore partecipa con le proprie puntate al lotto, aspettando che la buona sorte si fermi sui propri numeri.

Nei giochi di fortuna, la destrezza o l’abilità strategica non sono doti richieste: le azioni del giocatore si concentrano sulla scelta iniziale e sulla disponibilità economica, per un risultato finale che dipende dalla sorte. Ne conseguono l’ebbrezza di puntare su un numero e il divertimento di sfidare la fortuna con gli altri partecipanti nelle giocate casalinghe, mentre nelle partite d’azzardo si mettono in gioco anche la posizione economica e il conseguente status e prestigio sociale. L’attualità dei giochi di sorte, discussa per i suoi rischi e le sue ricadute finanziarie, è indubbia. Cogliamone oggi il messaggio ludico positivo nonché il legame con la storia e la tradizione in essi presente.
Vi diamo appuntamento a giovedì prossimo per i giochi di strategia conservati presso le raccolte dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.

 

Bibliografia

Come giocavamo: giochi e giocattoli 1750-1960, catalago della mostra (Milano, Rotonda della Besana, primavera 1984), a cura di P. Bonato, P. Franzini e M. Tosa, Milano 1984

M. Ceresa alla voce De’ Rossi, Giovanni Giacomo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Roma 1991, vol. 39, pp. 218-220

Fabbrica d’immagini, gioco e litografia nei fogli della Raccolta Bertarelli, catalogo della mostra (Milano, Spazio Baj-Palazzo Dugnani, 13 maggio-13 luglio 1993), a cura di A. Milano, Milano 1993

Gioco voce in Dizionario di antropologia, a cura di U. Fabietti e F. Remotti , Zanichelli, Bologna, 2001
R. Callois, I giochi e gli uomini, Milano 2014

Lotterie, lotto, slot machines. L’azzardo del sorteggio: storia dei giochi di fortuna, n. 13, a cura di Gherardo Ortalli, Fondazione Benetton Studi Ricerche/Viella, Borgoriccio (Padova) 2019

 

Sitografia

http://graficheincomune.comune.milano.it/ 

 

Elaborato e video di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza, con la preziosa collaborazione di Marco Marcotulli e Leandro Ventura.

 


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Orario ICPI
Dal lunedi al venerdi
9.00-17.00
Metro Linea B (EUR Fermi) Bus 30 Express, 170, 671, 703, 707, 714, 762, 765, 791
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