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Articoli filtrati per data: Dicembre 2013

#LACULTURANONSIFERMA. "Babylon Caffè - Amiata, Kurdistan" di Riccardo Putti con la comunità curda del Monte Amiata

Oggi, per la rubrica "Italia dalle molte culture", incontriamo Riccardo Putti, professore di Antropologia visiva dell'Università degli Studi di Siena, che tra il 2013 e il 2015 ha realizzato una ricerca sulla comunità curda del Monte Amiata, nell'ambito del progetto PRIN - Migrare. Migrazioni, legami familiari, appartenenze politiche.

Uno degli esiti della ricerca è stato il  docufilm "Babylon Caffè - Amiata, Kurdistan", realizzato da Riccardo Putti con un gruppo di lavoro internazionale che si sviluppa sul Monte Amiata, nella zona appenninica della provincia Grossetana.

Il docufilm sarà visibile per tutta la settimana al link: https://vimeo.com/230894242

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Riccardo, da dove parte l'idea della ricerca?

Questa ricerca nasce nel contesto di un progetto PRIN di cui Cristina Papa era coordinatrice Nazionale; il progetto era dedicato a studiare le relazioni tra comunità migranti e religione. Per un periodo avevo lavorato nella Moschea di Colle Val d’Elsa con il suo Imam Abdel Qader. Tuttavia più mi addentravo in questa dimensione e più mi sembrava che le pratiche religiose in realtà fossero intimamente legate ad un sistema politico e quindi avrei voluto verificare più approfonditamente il nesso che legava la forma di comunità con l’aspetto religioso. Ciò in altri termini voleva dire verificare se vi fossero comunità migranti che non basavano la loro coesione sul fattore religioso. Sempre in quel periodo avevo contatti con il mondo curdo e in particolare mi interessava l’esperienza del Rojava di cui si iniziava a parlare molto diffusamente anche in Italia. In questo contesto ho dunque conosciuto l’esistenza di un gruppo consistetene di famiglie curde che vivevano nella zona del Monte Amiata. Il gruppo era consistente perché formato da più di duecento individui e composto da intere famiglie e non solo da uomini. Si palesò dunque l’occasione di verificare se e come una cospicua massa di persone avesse al suo interno legami diversi da quelli religiosi come forma di collante strategico con cui sia mantenere una forma di unità interna sia entrare in relazione con il territorio sociale in cui vivono lavorano.

Puoi inquadrarci la situazione curda e la condizioni di migrazione.

La questione curda in Italia ha radici profonde e complesse. Per estrema sintesi ricordo come l’affaire Ocalan scosse la politica Italiana tra la fine del 1998 e i primi mesi del 1999 e che se pur in maniera molto contraddittoria con i fatti a Ocalan venne concesso asilo politico. Ancor prima però si era già concretizzata la vicenda di Badolato e della nave Ararat, siamo nel 1997 e il piccolo borgo di Badolato in Calabria accoglie i curdi giunti con la nave Ararat incagliatasi sulla costa prospiciente, si trattava di circa 800 persone. Se analizziamo questi fatti possiamo comprendere vari elementi in primo la provenienza dall’area turca della migrazione curda verso l'Italia, l’esistenza di una organizzazione politica, difficile condurre una nave verso l’Italia dalla Turchia senza una organizzazione, inoltre anche dall’analisi delle presenze ad esempio sulla nave Ararat prevalentemente di uomini ma anche di famiglie che questa forma di migrazioni ha un carattere sociale strutturato e che rappresenta un progetto collettivo. Il Centro Ararat di Roma nasce nel maggio del 1999 e coagula intorno a se varie esperienze di rapporti tra il mondo curdo (sopratutto turco) e gli attivismo sociale italiano, in questo va ricordata la figura di Dino Frisullo, che già nel 97 aveva preso parte al “Treno della pace”. Sempre nel 1999 nasce anche l’Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia (UIKI-Onlus) come in altre parte di Europa. Quest’ultimo ha una valenza molto più politica rispetto al Centro Ararat che invece ha un profilo culturale e di mutualismo.

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Il tuo lavoro mette in evidenza uno spazio pubblico locale dinamicamente utilizzato dalle famiglie curde che hai incontrato, come si inserisce la presenza di una piccola ma importante comunità curda nel territorio?

In effetti quando iniziai a girare il Babylon non esisteva e Metin era un operaio agricolo e Sevda seguiva la casa e i due figli piccoli. Tuttavia per comprendere la vicenda del Bablylon Cafè e di come si inserisce nella dinamica sociale della comunità curda del monte Amiata bisogna risalire appunto ai periodi precedenti. La comunità curda si era organizzata in una associazione e aveva dato vita ad una sorta di circolo di ritrovo ad Arcidosso. Il locale era situato in una zona periferica del paese in prossimità di un grande giardino pubblico e in una zona dove risiedevano alcune famiglie curde. Quando iniziai a far ricerca il circolo/bar era stato chiuso da poco per difficoltà economiche nel gestirlo. In sostanza era un ritrovo solamente frequentato da curdi e questo in parte costituiva almeno secondo l’opinione di alcuni una delle difficoltà. Tuttavia l’area del giardino pubblico che era prospiciente al locale era ancora area di ritrovo soprattutto delle donne curde con i figli piccoli; a volte ho sostato in quella zona per alcune conversazioni e capitava anche che arrivasse un vassoio di bicchieri e una cuccuma di té portato da case vicine. In quella fase Metin era comunque un punto di riferimento della comunità in quanto svolgeva anche attività di traduttore ufficiale. Inoltre sebbene prevalentemente dediti ai lavori agricoli vi erano anche alcune esperienze di commercio e di negozi gestiti da curdi ma che avevano una clientela più ampia. Ad esempio nel centro di Castel del Piano era attivo un negozio di frutta e verdura a cui si rifornivano anche italiani. In questo contesto e anche molto legato alla personalità di Metin nacque il Babylon la cui storia è presentata nel docufilm. Insomma mi sembrava una buona occasione per dare una scenografia alla narrazione. 

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Il titolo del docufilm è dedicato al locale Babylon Café aperto a Castel del Piano, che avete seguito nel lavoro sin dalla sua apertura. Che ruolo ha avuto questo nella costruzione di reti sociali all'interno delle famiglie curde e tra questa e la più ampia cittadinanza del territorio? Che ruolo ha questo luogo per la ricerca che avete svolto e per la narrazione che avete scelto di sviluppare nel docufilm?

La narrazione filmica ha delle sue caratteristiche particolari soprattutto quando si tratta di lavorare su una comunità, un gruppo sociale. E’ difficile infatti creare una narrazione sociale soprattutto lavorando con le modalità dell’antropologia visiva e non della fiction. Quando si tratta di mettere in scena una comunità nel suo complesso occorre infatti partire da elementi fondamentalmente già presenti nell’accadere sociale. Lo si può fare ad esempio usando una festa o un rito più complesso questo permette di mettere in scena una comunità nel suo complesso, ma questo lega all’accadimento specifico tutta la narrazione limitandola in un certo senso. Una formula possibile è scegliere alcuni elementi/persone paradigmatiche le cui vicende possono essere esemplificative di una più generale esperienza di vita. Tuttavia in questo caso si perde la coralità. Il caso del Babylon a me è apparso come una sorta di risoluzione a queste problematiche. Da un lato la storia di Sevda e Metin e del loro impegno per far nascere il Babylon Caffè tracciava la storia di una coppia giovane di curdi delle loro speranze e al tempo stesso della loro volontà di aprirsi alle interazioni sociali con il tessuto in cui erano inseriti. Dall’altro lato il luogo Babylon creava una scenografia naturale in cui poter mettere in scena altre narrazioni di singoli, che con le loro storie di vita rendevano conto di una più ampia realtà sociale rispetto alla sola esperienza della coppia Sevda Metin, e mostrava il locale nella sua caratteristica di sistema di connessione. Insomma offriva un centro alla narrazione e al contempo il luogo di propagazione da cui partire anche visivamente per entrare nelle varie e articolate esperienze di vita che compongono la dimensione della comunità curda del Monte Amiata.

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All'interno del progetto IMC Italia dalle Molte Culture dell'ICPi sarà avviata una nuova ricerca etnografica, condotta insieme alla comunità curda del Monte Amiata grazie anche alla collaborazione delle associazioni UIKI e ARARAT. La ricerca sarà centrata sullo studio del sistema di trasmissione dell'“eredità culturale” e le sue forme di osmosi con l'ambiente culturale di inserimento, sul rapporto con le istituzioni e con la popolazione locale sia nel quadro delle attività lavorative che nel quadro di quelle ricreative. In particolare un focus del lavoro di ricerca sarà rivolto alle giovani generazioni, il rapporto con la scuola con i coetanei e le problematiche di genere, rintracciando attraverso le immagini i segni della presenza dei componenti della comunità rispetto allo spazio pubblico e privato.

 

Intervista realizzata da Rosa Anna Di Lella e Cinzia Marchesini. Si ringrazia il prof. Riccardo Putti per la disponiblità e collaborazione. 

 

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#LACULTURANONSIFERMA la rubrica #VisioniDaiTerritori, Il culto dei defunti: pratiche e luoghi simbolici

Per la rubrica #VISIONIDAITERRITORI Alessandro D'amato (Demoetnoantropologo, MiBACT) ci guida alla scoperta del culto dei defunti e alle recenti azioni di patrimonializzazione del Cimitero dei Cappuccini di Tricase (Le) e del Nuovo Cimitero Monumentale di Parabita (Le).Le immagini d’archivio sono tratte dal libro: E. de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 2000 (1958). Le immagini del Cimitero dei Cappuccini di Tricase (Le) e del Nuovo Cimitero Monumentale di Parabita (Le) sono di Vincenzo Giuliano (SABAP Lecce). Montaggio video a cura di Vincenzo Giuliano (SABAP Lecce)

Riferimenti bibliografici

Ariès 1979

Ariés P., L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari 1979.

de Martino 1958

de Martino E., Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino 1958.

Faeta 2015

Faeta F., Dalla memoria collettiva alla patrimonializzazione familiare della memoria. Riflessioni sulle trasformazioni delle pratiche del lutto nel Mezzogiorno italiano contemporaneo, in Buttitta I.E. – Mannia S. (a cura di), La morte e i morti nelle società euromediterranee, Atti del Convegno Internazionale (Palermo 7-8 novembre 2013), Palermo 2015, pp. 113-128.

Faeta – Malabotti 1980

Faeta, F. – Malabotti, M., Imago mortis. Simboli e rituali della morte nella cultura popolare dell’Italia meridionale, Roma 1980.

Hertz 1978

Hertz R. Sulla rappresentazione collettiva della morte, Roma 1978.

Leschiutta 2009

Leschiutta P. Luoghi e spazi della morte. Nuove immagini di cimiteri, in «Nuovi Argomenti», 45, gennaio 2009, pp. 30-49.

Lombardi Satriani – Meligrana 1989

Lombardi Satriani L. M. – Meligrana M., Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Palermo 1989.

Mauss 1923-1924

Mauss M., Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les sociétés archaïques, in «L’Année Sociologique», seconde série, 1923-1924.

 

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#LACULTURANONSIFERMA #COVID-19/FASE-2 DALLA PARTE DELLE COMUNITÀ': CHI SI STA PRENDENDO CURA DEL PATRIMONIO IM-MATERIALE? RIFLESSIONI A MARGINE, AL DI LA' DEI SOGNI. Di Alessandra Broccolini con illustrazioni grafiche di Aino Garcia Vainio

IMG-20200418-WA0006E' notizia di qualche giorno fa. E per definire quello che il governo sta pianificando per la Fase 2 di uscita dall'emergenza sono stati scomodati i sogni. Dream Team, così è stata chiamata la "task force" (sempre la lingua inglese per le grandi occasioni), la squadra di mega-esperti che Vittorio Colao sta già guidando per indicare al governo le migliori strade per tornare alla normalità. Già, la normalità, quella che per alcuni già "prima" era un problema. 17 componenti, tutti esperti nel loro settore. Ma chi sono questi esperti ? Nella lista abbiamo diversi economisti e top manager, che occupano un terzo del gruppo, un fisico, uno specialista di lavoro, un avvocato, un commercialista, un esperto di disabilità, un sociologo (economico), una psicologa e uno psichiatra. Pochissime le donne (vabbè, si dirà, non sottilizziamo). Molti componenti di questa squadra -la maggioranzasono rappresentanti dei settori "forti" della società, di quelli che contano. Tutte persone con grandi curriculum alle spalle, che certamente faranno bene per il bene di tutti. Non è ovviamente questa la sede per entrare nel merito di questioni che vanno oltre delle semplici riflessioni domenicali.

IMG-20200418-WA0007Ciò che tuttavia, più sorprende è la totale assenza dai "sogni" delle cosiddette humanities, che sono forse proprio quelle discipline più attente ai sogni della gente, che più guardano alla "condizione" umana vista nella sua globalità. Perché al di là degli aspetti materiali, che sono sacrosanti, è evidente che questa pandemia sta intaccando pesantemente proprio quella qualità della vita, quei sogni, quelle aspettative di futuro già parecchio in difficoltà e in bilico prima, ma che ora con le restrizioni alla libertà personale, la paura, lo stress, il distanziamento sociale, la caccia alle streghe, la criminalizzazione del nulla, rischiano di naufragare. Certo, si dirà che quando c'è la salute c'è tutto; oppure che quando le tasche sono piene (un proverbio popolare dice che "quello che non strozza ingrassa") tout va bien se passer. E che è quindi qui che si deve più agire. Poi c'è la resilienza, ci sono gli effetti sorprendenti della solidarietà, ci sono quelle risorse sociali nascoste che riaffiorano, le creatività "culturali", la capacità di resistere. Sarebbe troppo facile in questa sede lamentare la totale assenza dell'antropologia da questi sogni da "task force"; l'antropologia, che come dice la stessa etimologia, alla condizione umana guarda da sempre con attenzione, che le relazioni umane le studia nelle loro diversità storicamente fondate, tra singolarità e comunità, tra agire pratico e memoria, creatività e identità. D'accordo, non è questo il luogo.

IMG-20200418-WA0008Tuttavia, per la vocazione che abbiamo, in verità sempre poco riconosciuta dai più, è nostro dovere fare sentire la nostra voce iniziando proprio con una piccola riflessione che parte da qualcosa che proprio ai "più" potrà sembrare sconosciuto, se non poco rilevante, ma che invece riguarda molto da vicino proprio quel sognare che tanto sta a cuore in questo momento al governo, parliamo del cosiddetto patrimonio culturale immateriale. Qual è quindi il nesso di tutto ciò con il titolo che ho voluto dare a questa riflessione ? Con il patrimonio culturale immateriale ? Qualche giorno fa l'UNESCO, l'Organizzazione delle Nazioni 2 Unite nata più di 70 anni fa per promuovere pace e dialogo tra le nazioni attraverso la cultura, ha pubblicato un comunicato stampa nel quale pone -a dire il vero un po' troppo sinteticamente- la questione degli effetti della crisi su piani diversi da quelli riportati giornalmente nei media, sottolineando che "we are also seeing the ways in which the impact of this crisis goes beyond our physical health"*. Non sono le singole humanities a dirlo per rivendicare chissà quale posto al sole, è un organismo globale come l'UNESCO. Entrando nel merito il comunicato prosegue ancora sottolineando come "Festivals and cultural events are being cancelled or postponed, and cultural practices and rituals are being restricted, causing disruptions in the lives of many people". "Disruption", che significa "spaccatura". Quindi la cancellazione di pratiche festive, rituali, collettive, espressive, può essere fonte di una "distruzione", di rottura negli equilibri vitali della gente e delle collettività. Quindi forse le humanities non sono così inutili. "At the same time - prosegue il comunicato- we are seeing how living heritage can be a source of resilience in such difficult circumstances, as people continue to draw inspiration, joy and solidarity from practising their living heritage". La pandemia, come sappiamo, ha reso necessarie misure di distanziamento sociale che sono misure di distanziamento esclusivamente fisiche.

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Per la strada si deve camminare disaggregati, tutti, anche mogli e mariti, padri e figli (che in casa mangiano e dormono vicini); il metro e mezzo di distanza è diventata una nostra ossessione; tutte le forme di vita sociale fondate in uno spazio fisico sono rimandate a data da destinarsi, anche una semplice passeggiata in solitaria (?). Che sia giusto o meno, ciò vuol dire che anche e soprattutto gli eventi collettivi, quelle occasioni speciali, rituali, calendariali nelle quali le persone si calano "dentro" la vita sociale "fisicamente" (e non solo tramite i social che semmai ne rappresentano una estensione non un sostituto), quegli eventi in cui si partecipa con il corpo, tutto questo è sospeso per ragioni di salute pubblica. Eventi che sono spesso quelle forme di espressioni collettive che collochiamo nella sfera del patrimonio culturale immateriale, esperienze collettive, religiose e non religiose, che esprimono valori, vicinanza, senso di appartenenza, creatività, memoria, affettività, partecipazione, come anche interessi di vario tipo e conflitti. La stessa UNESCO con l'adozione della Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003 aveva inteso veicolare in questa definizione una concezione diversa dell'heritage, intesa non più come prodotto di un'elite, nelle sue espressioni materiali e monumentali, ma come parte della vita sociale e culturale delle comunità umane, paesi, villaggi, piccoli gruppi, in tutte le forme ed espressioni, anche quelle più marginali. Nel paradigma patrimoniale è stato usato il termine "living heritage" e di certo non è questo il luogo per entrare in dibattiti e definizioni "di scuola". Ma sta di fatto che ciò che il patrimonio immateriale definisce (nel bene e nel male) è ciò che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui, definiscono come parte importante delle loro pratiche di vita, ciò a cui le comunità danno valore e che danno senso all'esistenza. Già prima dell'emergenza sanitaria molte dimensioni collettive del vivere sociale e culturale erano state sottoposte a vincoli e restrizioni di vario genere, via via sempre più pressanti. Prima era stato il fuoco nelle feste a fare paura, che ha portato a regolamentarne l'uso (vedi la regolamentazione dei fantocci e dei falò rituali, alcuni dei quali sono scomparsi dalle pratiche anche per questo motivo). Poi era stato l'imprevedibile comportamento della folla e i suoi rischi, o il rischio incidenti di vario tipo (allora sono state introdotte transenne e sono state aumentate le distanze) e si è 3 compiuta la trasformazione dei rituali in spettacoli disciplinati. Ora è la volta della dimensione sanitaria. Questo ingresso della dimensione "sanitaria" nelle pratiche sociali e culturali ci riguarda molto da vicino e su questo si dovrà riflettere. Certo, si dirà che è l'emergenza ad aver provocato la cancellazione di tutte le feste ed i rituali dal mese di marzo a chissà quando ed è giusto così. Ma in che modo la sicurezza sanitaria, divenuta oggi un imperativo globale, si rifletterà nelle pratiche del futuro ? Quanto e in che profondità le mascherine e il metro e oltre di distanza entreranno strutturalmente anche in questi ambiti della "prossimità" e della condivisione rituale e quali pratiche di "resistenza" verranno messe in atto ? Ce li vedete i "passanti" della Madonna del Monte, festa sulle rive del lago di Bolsena nel Lazio, cantare "Evviva Maria" tutti insieme con le mascherine ? Di esempi come questi se ne possono fare a migliaia. In diverse città e paesi già pochi giorni fa accendere i falò per S. Giuseppe è stato dichiarato un atto "da delinquenti" (vedi nota 1). Ma il fuoco una volta non era purificatore ? Ciò che dico è chiaramente una provocazione, ma vuole esprimere un problema di fondo molto serio, soprattutto un disagio e uno scenario di cambiamento.

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L'Unesco parla nel comunicato di "resilienza", resilienza come una capacità del patrimonio immateriale a continuare a vivere continuando a far vivere le comunità, anche nel dramma della pandemia. E indirettamente accenna ad un fenomeno assolutamente nuovo che stiamo vivendo e che abbiamo ad esempio vissuto pochissimi giorni fa, quando abbiamo visto i riti della Settimana Santa, in tutto il mondo cristiano trasformarsi in riti social: processioni in solitaria delle sfere ecclesiastiche e "partecipazione" virtuale di cittadini che hanno partecipato in solitudine, senza conoscersi e vedersi; trasformazioni di "living rituals" in riti della memoria "a distanza", tramite condivisione di immagini. Riti della solitudine social, si potrebbe dire, un ossimoro al quale eravamo già abituati dopo anni di esperienze a distanza, ma che ora va intaccando anche la partecipazione ad uno dei pochissimi ambiti della vita sociale non mercificati che si era conservato nello spazio pubblico, nel quale il coinvolgimento dei sensi, l'esperienza del "corpo" nel rituale (il sudare, il guardarsi negli occhi, il ballare, il cantare, il camminare insieme) erano centrali. Sicuramente si tratta di un fenomeno nuovo e per noi interessante, già anticipato da molti anni di feste in diretta streaming e di partecipazione a distanza grazie alle nuove tecnologie. Ma in che misura -mi domando- al di là della disruption attuale che stanno vivendo molte comunità e alla quale queste stanno rispondendo con resilienza e speranza- in che misura tutto questo non lascerà delle tracce profonde nelle forme della partecipazione sociale e comunitaria, che costituiva la "carne e il sangue" del patrimonio immateriale? Conosco alcuni paesi e città dove si sta vivendo come un vero e proprio "dramma sociale" il rischio di vedere cancellata la "loro" festa. Ma soprattutto, al di là dell'emergenza, siamo sicuri che la paura del contatto fisico, che in questi giorni ci viene comunicata in forme e modi spesso confusi e contraddittori, non lascerà delle tracce profonde nella vita di relazione, al di là dei facili entusiasmi per le tecnologie a distanza ? Nello stesso comunicato, al quale di certo ne seguiranno altri, con nuove iniziative, il sito UNESCO invita le comunità a condividere esperienze di salvaguardia durante la pandemia e incoraggia queste a condividerle, a scambiarle per poter dare spunto ad altre comunità a fare altrettanto. Il comunicato UNESCO parte in pratica dal bicchiere mezzo pieno e cioè dalla possibilità di guardare alla pandemia come una occasione per poter sperimentare delle pratiche nuove di salvaguardia del patrimonio immateriale e per guardare ad esso come una risorsa cui attingere, in forme e modi diversi, anche in un'epoca di distanziamento sociale e di paura. Quindi una finalità pedagogica del patrimonio se vogliamo. Una prospettiva nobile, che è inscritta nella mission dell'UNESCO fin dalla su fondazione. Tuttavia -bicchiere mezzo vuoto, anzi completamente vuototutto questo non è sufficiente e cela una dimensione nascosta che è nostro dovere far emergere, sulla quale occorrerà vigilare in futuro. Le pratiche espressive che vediamo spesso rappresentate da feste e rituali, non solo sono a volte fragili, basandosi proprio sui legami tra le persone (a volte poche persone), sulla loro vicinanza, che è anche fisica, fatta di sguardi, di famiglie coinvolte, di intenti comuni, di serate passate a realizzare un carro votivo, o a preparare insieme un piatto, o fare una questua per finanziare la festa. Ma anche quando possono contare su apparati più istituzionalizzati di finanziamenti o di organizzazione, si sostanziano proprio di azioni volontarie che fondano il senso stesso della partecipazione.

Che ne sarà dunque della partecipazione dei cittadini al patrimonio quando questa, anche quando le disposizioni governative saranno ammorbidite, continuerà ad essere vista come un assembramento pericoloso per la salute?

 

 

note:

1. Per esempio a Taranto: https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/taranto/1212789/coronavirus-taranto-accendere-i-fuochi-di-s-giuseppe-e-da-delinquenti.html

Oppure a Bari: http://www.baritoday.it/cronaca/coronavirus-sporcaccioni-rifiuti-decaro.html

O ancora sulle "vampe" per S. Giuseppe a Palermo: https://palermo.repubblica.it/cronaca/2020/03/18/news/il_virus_non_ferma_le_vampe_sette_falo_spenti_a_palermo-251639837/

 

* https://ich.unesco.org/en/news/living-heritage-experiences-in-the-context-of-the-covid-19- pandemic-13261

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#LACULTURANONSIFERMA. #VISIONIDAITERRITORI. Le feste del fuoco: il Cavallo di Fuoco di Ripatransone (AP)

Molto spesso nelle occasioni festive elementi naturali trasformano e arricchiscono il paesaggio: sono spesso icone connesse a cicli produttivi, a cicli dell’anno e/o a particolari forme devozionali, che vengono ricreate per l’occasione, fra queste il fuoco. Il simbolo oggi visibile, che sia fuoco o altro, è il prodotto di nessi stratificati e densi, esito di trasformazioni storiche, visibili nelle sintesi creative delle espressioni artistiche e artigianali, che ri-disegnano anno dopo anno i paesaggi locali grazie a “portatori” patrimoniali. Il fuoco come elemento e simbolo di processi rituali diffusi su tutto il territorio nazionale potrebbe essere denominatore comune di potenziali reti. Tali tratti culturali im-materiali qualificati anche per modalità di trasmissione, che rimandano all’oralità e al rapporto diretto fra le generazioni e al rispetto delle diversità culturali sono meritevoli di attenzione, necessitano di prime forme di inventariazione, azioni di salvaguardia e di particolari forme di tutela.

Tra le tante feste del fuoco diffuse nel territorio nazionale oggi approfondiamo quella del cavallo di fuoco di Ripatransone, che si sarebbe dovuta celebrare in data odierna, nell'Ottava di Pasqua. 

Dal 1682 a Ripatransone (AP) prende vita una fra le manifestazioni folkloristiche più antiche e singolari d'Italia, il Cavallo di Fuoco. In ricordo di quanto successe, per la prima volta, il 10 maggio di quell'anno, i Ripani si ritrovano tutti gli anni nella sera dell’Ottava di Pasqua, a rievocare un evento che è molto più di un semplice fuoco d’artificio.

L'episodio si lega indissolubilmente alla profonda devozione dei Ripani nei confronti del Simulacro della Madonna di San Giovanni, realizzato a Recanati da Sebastiano Sebastiani e giunto in Città la Domenica in Albis del 1620. La venerazione nei confronti dell’immagine spinse i fedeli a richiederne l'incoronazione al Capitolo di San Pietro, ottenuta il 30 giugno 1681 e celebrata solennemente proprio il 10 maggio dell’anno successivo.

“Poscia (dopo la processione e i fuochi) il maestro che lavorò i fuochi, che fu chiamato da Atri, cavalcò un cavallo, che era tutto ripieno di fuochi artificiali con il quale girò più volte la piazza buttando sempre raggi ed altre bizzarrie composte di bitume ed altre simili materie incendiarie. Pareva giusto un Plutone quando sopra un cavallo di fuoco uscì dal monte Vesuvio a rapire la figlia di Cerere”.
Il Marchese Filippo Bruti Liberati in un suo scritto descrisse così l'evento che cambiò definitivamente la storia della Città divenendone nei secoli il suo emblema.
L’abile fuochista chiamato per i festeggiamenti, dopo aver concluso il suo lavoro, con tutto ciò che gli rimaneva, improvvisò uno spettacolo in sella al suo cavallo; la gente radunata in piazza gradì a tal punto che seguì un lungo ed intenso applauso che accompagnò l’uscita dal paese di questo anonimo fuochista. Ciò che accadde entusiasmò molto i Ripani al punto da spingere alcuni cittadini, memori del fatto, a rievocare l'accaduto fin dall'anno successivo. Nei secoli, quella che in origine era una figura equina vivente fu sostituita dapprima da sagome portate a spalla da forzuti cittadini, poi da riproduzioni a grandezza naturale in legno (e attualmente in ferro) a traino.

La manifestazione viene oggi curata dalla Confraternita della Madonna di San Giovanni che ha in carico l'organizzazione dei festeggiamenti dell'Ottava di Pasqua, perpetuando la memoria dell’arrivo del simulacro di cui nel 2020 sarebbe stato celebrato il 400° Anniversario. Il Cavallo di Fuoco è stato insignito nel 2011 del riconoscimento di Patrimonio d’Italia per la Tradizione; è motivo di richiamo per migliaia di spettatori e rappresenta per tutti i Ripani, residenti ed emigrati, il simbolo concreto dell’immutabilità delle tradizioni.

Presentazione a cura della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche

 

 

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#LACULTURANONSIFERMA #LAFESTANONSIFERMA. Rievocazioni Storiche: i progetti in corso.

Testo di Rosa Anna Di Lella, Valeria Trupiano, Leandro Ventura, Alessia Villanucci 
Foto di Roberto Galasso, Anna Maria Pasquali

Le rievocazioni storiche in Italia costituiscono un panorama di eventi e manifestazioni vario e vitale, che sta suscitando un crescente interesse da parte di studiosi, accademici ed enti a livello locale e nazionale, nonché del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (MiBACT). Il Servizio VI della Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio (DG ABAP) e l’Istituto centrale per il patrimonio immateriale (ICPI), dal 2017 ad oggi, hanno promosso diverse iniziative di studio, valorizzazione, tutela e salvaguardia degli aspetti materiali e immateriali ritenuti rilevanti dalla prospettiva demoetnoantropologica.

Rievocazioni storiche tra cultura popolare, consumo di massa e processi di folklorizzazione.
Come nota l’antropologo culturale Fabio Dei ad introduzione del volume “Rievocare il passato: memoria culturale e identità territoriali”, con il concetto di rievocazione storica possiamo intendere “quella sempre più ampia gamma di eventi e pratiche pubbliche ac¬comunate dalla volontà di rivivere o mettere in scena momenti del passato storico, attraverso performances di massa caratterizzate dall’uso di costumi e di ricostruzioni di ambienti e manufatti ‘d’epoca’” (F. Dei – C. Di Pasquale 2017, p. 7). Il fenomeno ha avuto una grande proliferazione negli ultimi decenni diffondendosi in maniera capillare sui territori, specialmente nel centro-nord Italia, ad opera di gruppi, associazioni, enti locali, o comuni di piccole, medie o grandi dimensioni, mettendo in scena le più varie tipologie di manifestazione: momenti festivi legati a una località specifica, con componenti agonistiche, scenografie e costumi storici; sfilate, cortei, esibizioni, giochi, spettacoli di ambientazione storica e performance musicali; ricostruzioni di battaglie di ogni epoca; ricostruzioni d’ambiente e di vita quotidiana del passato; attività di living history o di “archeologia applicata”; eventi religiosi in costume, presepi viventi; giochi di ruolo e forme di cosplay ispirate a generi fantasy, ecc.
Per lungo tempo ignorate dagli studiosi di antropologia culturale in Italia in quanto ritenute delle forme di spettacolo inventate a scopo turistico ed economico, prive di quei parametri di “autenticità” e “tradizione” per lungo tempo ricondotti ai beni demoetnoantropologici, le rievocazioni e ricostruzioni storiche sono divenute solo in tempi recentissimi oggetto di riflessione della disciplina. In questo panorama, un posto di primo piano è occupato senza dubbio dal pioneristico progetto interdisciplinare dell’Università di Pisa, Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere che, a partire da un censimento delle realtà presenti sul territorio toscano, costituisce un primo tentativo di riflessione analitica e sistematica sul fenomeno:

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http://rievocareilpassato.cfs.unipi.it/

Da una prospettiva scientifica aggiornata, i risultati del progetto mettono in luce gli elementi di interesse di queste pratiche sociali quali espressioni contemporanee della “cultura popolare”, caratterizzate, tra le altre cose, anche dal consumo di massa e dai processi di “folklorizzazione” a scopo turistico ed economico.
L’osservazione etnografica mostra come tale fenomeno divenga, in molti contesti, veicolo di produzione di universi simbolici e morali complessi e stratificati, nonché di processi di costruzione di località e di appartenenza. Rievocando un momento storico del proprio passato – reale o immaginato – individui, gruppi e comunità si riappropriano degli spazi cittadini, costruiscono relazioni e legami sociali, inventano identità fittizie con cui “giocano” - investendo in modo significativo tempo, energie e risorse individuali e comunitarie - durante tutto il corso dell’anno, in occasioni pubbliche, così come intime e private. Per la demoetnoantropologia, l’interesse delle rievocazioni non risiede nella loro presunta correttezza filologica quanto nel legame tra le manifestazioni, i territori e la storia locale e nei modi in cui individui e comunità di “rievocatori” si appropriano degli eventi del passato risignificandoli nel presente. Le rievocazioni storiche risultano dunque significative più per quello che ci dicono del presente delle comunità e dei gruppi che le mettono in scena, che del loro passato.

 

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Sede del Calcio Storico Fiorentino. Palagio di Parte Guelfa. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

I progetti

1. Salvaguardia del patrimonio demoetnoantropologico del Corteo Storico della Repubblica Fiorentina e del Calcio Storico

Uno dei principali progetti avviati nel 2019 dal Servizio VI e dall’ICPI, su iniziativa della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e per le province di Pistoia e Prato, è finalizzato all’ideazione e sperimentazione di prassi di salvaguardia del patrimonio materiale e immateriale del Corteo Storico della Repubblica Fiorentina e del Calcio Storico. Il progetto vede la collaborazione del Comune di Firenze, del Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo dell’Università di Firenze, del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, del Corteo Storico della Repubblica Fiorentina. Si tratta di soggetti che, da diverse prospettive, ruoli e competenze, lavorano in costante dialogo al fine di restituire una visione complessa del fenomeno culturale e dei suoi elementi d’interesse – come sarà approfondito nello specifico contributo di prossima pubblicazione nella nostra rubrica “Visioni dai territori”.

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 Sede del Calcio Storico Fiorentino. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

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Corteo Storico della Repubblica Fiorentina. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

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Corteo Storico della Repubblica Fiorentina. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

Il progetto ha previsto la catalogazione e documentazione fotografica dei modelli dei costumi del Corteo e del Calcio storico fiorentino, ad opera di due storiche dell’arte, e lo svolgimento di un’indagine etnografica in profondità finalizzata all’individuazione degli aspetti materiali e immateriali di interesse etnoantropologico dell’insieme costituito dal Corteo e dal Calcio storico fiorentino, condotta da un antropologo culturale.

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 Calcio Storico Fiorentino. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

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Calcio Storico Fiorentino. Firenze, 2019 (Ph. R. Galasso - © ICPi)

Il processo partecipato e sperimentale si sta rivelando prezioso nella strutturazione di adeguate prassi di salvaguardia che hanno ad oggetto una tipologia di beni materiali e immateriali vitali, in uso e in mutamento, e che rappresentano un ambito complesso e nuovo per l’azione del Ministero. Centrale e imprescindibile, in questo come negli altri progetti in corso, è infatti il coinvolgimento dei protagonisti delle manifestazioni, nella convinzione dell’importanza di ampliare la partecipazione della società civile nelle azioni amministrative di tutela e valorizzazione dei beni e delle attività culturali.

2. Mappatura nazionale delle rievocazioni storiche

In ragione della vivacità del panorama nazionale delle rievocazioni storiche e dei molteplici aspetti rilevanti dal punto di vista demoetnoantropologico, il Servizio VI – DG ABAP e l’ICPI hanno ideato un ampio progetto di ricerca, in collaborazione con SIMBDEA, la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici. L’obiettivo – appena lo consentirà l’emergenza sanitaria in corso – è realizzare una prima ricognizione volta a individuare e documentare la varietà di tali espressioni culturali contemporanee. A questo scopo, saranno svolte indagini sul campo specifiche e approfondite da parte di ricercatori antropologi che, a partire da una mappatura generale, documenteranno nel corso di un anno intero casi di particolare interesse anche mediante l’ausilio di strumenti di catalogazione e inventariazione partecipata. Oltre a soggetti istituzionali quali le Proloco e le Soprintendenze, coerentemente al prevalente interesse per il vissuto e le percezioni locali dei fenomeni culturali della prospettiva dalla quale operiamo, l’indagine sul terreno coinvolgerà le comunità locali con attenzione agli attori sociali che non rivestono un ruolo istituzionale, ma che saranno intercettati come significativi per una adeguata comprensione della complessità del processo culturale.
Questo lavoro di mappatura intende rappresentare un passo importante dal punto di vista scientifico, nella direzione di una più ampia e dettagliata comprensione del fenomeno emergente rappresentato dalle rievocazioni storiche; dal punto di vista della salvaguardia del patrimonio demoetnoantropologico, andando a documentare gli elementi di interesse materiali e immateriali; dal punto di vista della valorizzazione, attraverso la diffusione dei risultati e dei materiali prodotti dell’indagine e il contributo alla costruzione del dibattito pubblico sul tema.

3. Attività espositive

Nel più ampio panorama delle attività, nel corso del 2019, l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale ha promosso due mostre dedicate al tema delle rievocazioni storiche – “Del maneggiar l’insegna Il maneggio della bandiera nei secoli” e “Le Rievocazioni Storiche al Museo” – realizzate in sinergia con il Museo delle Civiltà e con la collaborazione della Federazione Italiana Giochi Storici.

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Inaugurazione mostra "Le Rievocazioni Storiche al Museo". Museo delle Civiltà - museo delle arti e tradizioni popolari "L. Loria". Roma, 2019 (Ph. Anna Maria Pasquali)

In particolare, la mostra “Le Rievocazioni Storiche al Museo” (21 settembre 2019 – 6 gennaio 2020) ha presentato al pubblico il ricco e multiforme panorama delle rievocazioni storiche italiane attraverso una selezione di oltre settanta costumi e decine di accessori e oggetti contemporanei, ispirati a diverse epoche del passato riferiti a trenta diverse manifestazioni ”rievocative” che si svolgono in altrettanti Comuni disseminati in gran parte del territorio nazionale. L’esposizione è realizzata con la diretta partecipazione di queste comunità locali, che hanno collaborato attivamente selezionando e mettendo a disposizione i materiali esposti e fornendo le presentazioni delle diverse manifestazioni: una prospettiva “dall’interno”, una lettura delle rievocazioni storiche come elementi di autorappresentazione delle comunità locali.
Una delle prerogative della mostra temporanea è stata, inoltre, la realizzazione di percorsi di visita accessibili, pensati per un pubblico di persone con disabilità, attività progettate dalla CoopAcai Phoenix, l’ENS-Ente Nazionale Sordi, il Museo Tattile Statale Omero di Ancona, la Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi, L’Anffas-Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/ o Relazionale tutte organizzazioni di livello nazionale senza finalità di lucro ed operanti nei vari settori nella progettazione e realizzazione di processi per l’accessibilità degli spazi pubblici e per garantire accesso alle persone con disabilità.

 

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#LACULTURANONSIFERMA. #VISIONIDAITERRITORI. Il progetto Co-Heritage e la piattaforma partecipativa

Per la rubrica #VISIONIDAITERRITORI vi presentiamo le attività e la piattaforma partecipativa che l'Ecomuseo Casilino ad duas lauros ha recentemente avviato per attivare un ampio coinvolgimento finalizzato alla costruzione del catalogo dei patrimoni locali e dei percorsi di fruizione. 

ecomuseo piattaforma

 

"Come Ecomuseo Casilino", scrive Stefania Ficacci, "avevamo già in cantiere la realizzazione di una sezione all’interno del nostro portale che consentisse a chiunque di inserire e condividere una risorsa culturale ritenuta elemento di un patrimonio comune. Gli eventi di queste ultime settimane hanno solo accelerato il processo, portando il nostro progetto Co.Heritage ad una fase 2.0, che ha l’obiettivo di utilizzare il web per consentire a tutti di partecipare all’individuazione dei patrimoni locali e alla creazione di percorsi di fruizione dei paesaggi archeologici, storici, antropologici, urbanistici e artistici. Sono 4 gli strumenti che consentono ali utenti di diventari soggetti e attori del progetto Co.Heritage tramite il web:

1. La piattaforma di partecipazione e narrazione – aperta a tutti i singoli utenti con l’obiettivo di catalogare e condividere risorse e realizzare un percorso tematico;

2. Lo sportello della memoria – una “cassetta della posta” alla quale spedire tramite form documenti fotografici e audiovisivi;

3. Il gruppo facebook di Co.Heritage – piazza virtuale in cui condividere storie e ricordi;

4: La piattaforma di catalogazione collettiva – struttura ambiziosa e in corso di sviluppo, che ha l’obiettivo di consentire la catalogazione e la condivisione delle risorse mediante un sistema specifico e secondo standard internazionali e aperto a studiosi, ricercatori e organizzazioni".

Link alla piattaforma:

http://www.ecomuseocasilino.it/partecipa-anche-tu-alla-costruzione-dellecomuseo-casilino/?fbclid=IwAR1J8ReNzepst5RrNXaSIYerQQiuM-2viD5YKaNDiIuV200YF5-6lMzE4KM

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#LACULTURANONSIFERMA LA RUBRICA DI ETNOMUSICOLOGIA: IL TRALLALERO

 

 

 

Testo di presentazione: Claudio Rizzoni

Presentazione video: Paolo Besagno, canterino e studioso di trallalero, direttore artistico dei Giovani Canterini di Sant’Olcese.

Video su YouTube: performances dei Giovani Canterini di Sant’Olcese.

  1. Baccicin, vatten’ a ca’,

trallalero di congedo

 

 

  1. 2)Mamma dimmi perché

https://youtu.be/YxcA5sLcmo4

 

Trallalero, appartiene al repertorio più antico e consolidato.

  1. 3)O trallalero canson de na vitta

https://youtu.be/RM24vPqkOBk

 

La "canzone della squadra" di Sant'olcese.

La tradizione vuole che spesso le squadre di canto abbiano la loro canzone-manifesto.

É il caso di questo brano, composto da Paolo Besagno nel 1996.

  1. 4)Trallalero de Sangianbattista

https://youtu.be/sD7WfhPmgPU

 

Trallalero-canzone, scritto da Paolo Besagno.

  1. .

Le pratiche musicali di tradizione orale sono spesso state associate, nell’immaginario comune, ai contesti rurali (musiche dei contadini, musiche dei pastori) e a volte condannate, dallo sguardo estetizzante ed esotizzante che caratterizza la fruizione borghese, a un appiattimento in una dimensione di alterità astorica che ne appanna le dinamiche e i legami con i mutamenti che caratterizzano la società nel suo complesso.

È invece interessante come alcune di queste abbiano preso forma in contesti e in periodi – tutto sommato abbastanza recenti – caratterizzati da fenomeni che si tenderebbe a non associare alla musica “tradizionale”. Il trallalero genovese, il cui periodo di maggior sviluppo va dalla seconda metà del XIX secolo alla prima metà del XX, ha queste caratteristiche: è figlio dell’inurbamento della manodopera rurale proveniente dai borghi montani delle “Quattro province”; della riorganizzazione della vita collettiva in un panorama urbano – quello di Genova – in cui le forme del lavoro si adeguano al fortissimo sviluppo delle infrastrutture produttive e commerciali (le industrie, il Porto); dell’incontro dei sistemi musicali di matrice folklorica con le forme colte e semi-colte della canzone e dell’opera.

Tuttora praticato a Genova e in altre località della Liguria (dove si è diffuso dal capoluogo), il trallalero è un genere di canto polivocale privo di accompagnamento strumentale, che prende il proprio nome dal ritornello nonsense che costituisce l’apice virtuosistico e improvvisativo nelle performances. Basato su progressioni accordali di impianto marcatamente tonale, il trallalero prevede l’interazione di cinque parti: cuntrétu, primmu, chitarra, cuntrabassu e bassu. Le prime quattro sono eseguite da singoli cantori, mentre l’ultima viene eseguita all’unisono da un numero variabile di elementi. La presenza del cuntrétu e della chitarra costituisce un elemento fortemente distintivo nell’ambito delle pratiche polivocali di tradizione orale: La parte del cuntrétu viene esguita da un uomo che canta in falsetto muovendosi in un ambito di altezze paragonabile a quello di un contralto (o meglio, di un controtenore). La chitarra è invece una parte caratterizzata da una forte libertà di fraseggio – articolato in arpeggi – su sillabe onomatopeiche a imitazione, appunto, di una chitarra di accompagnamento.

Del proprio retroterra rurale, le cui probabili radici vanno rintracciate ameno in parte nei canti alla bujasca dell’appennino piacentino, la pratica del trallalero conserva alcuni caratteri fondamentali. Innanzitutto si mantiene il carattere conviviale e ludico delle performances, che dalle osterie dei paesi si spostano nei luoghi di aggregazione cittadini (osterie, bar, latterie, circoli dopolavoristici). In città la pratica del canto mantiene anche la netta connotazione di genere che la caratterizza come un modo di passare il tempo insieme fra uomini,[1] legato a routine quotidiane prettamente maschili che si radicano nell’appartenenza alla nascente classe lavoratrice (si lavora in fabbrica, al porto o in ufficio, e poi si va al bar a cantare e a bere con gli amici). La composizione delle squadre (così sono denominati gli ensemble) riflette però le articolate geografie sociali della città articolandosi secondo appartenenze a comunità di quartiere fortemente interconnesse: le squadre formano una rete di canterini (cantori) caratterizzata da dense interazioni che, dai primi anni del XX secolo, si sostanziano anche in vere e proprie gare di canto che hanno luogo nelle osterie o in altri luoghi di ritrovo. Si tratta di reti aperte, la cui porosità e dinamicità trova riscontro nelle feconde interazioni con professionisti della musica di ambito borghese (maestri di coro, compositori, cantanti). È questo un dato particolarmente importante da rimarcare, perché la forte permeabilità che caratterizza le relazioni fra il trallalero e le pratiche di ambito colto e semi-colto (opera, canzone) determina un rilevante mutamento nelle estetiche, negli stili e in parte nei modi di produzione e circolazione della musica. Ciò avviene in modi diversi: attraverso l’ascolto, prima con il grammofono e poi con la radio, delle performances dei grandi cantanti d’opera; attraverso la frequentazione diretta (alcune squadre, nei primi decenni del Novecento, sono dirette da maestri di coro; tra i canterini, inoltre, vi sono appassionati che praticano il canto operistico a livello amatoriale). Infine, fra gli anni Venti e gli anni Trenta, le squadre di trallalero diventano uno dei terreni di sperimentazione in cui innestare un nuovo genere di canzone regionale popolaresca: anche con il favore del Regime Fascista, che tramite l’Opera Nazionale Dopolavoro favorisce l’inserimento di alcune squadre nei circuiti performativi frequentati dalle borghesie locali, diversi autori iniziano a comporre canzoni appositamente per le squadre. È in questo contesto che va letta anche la precocissima mediatizzazione delle performances delle squadre di canto: nel periodo compreso fra il 1928 e il 1954 vengono incisi centinaia di brani (su 78 giri e poi su 45 giri). I dischi, prodotti anche dalle più importanti case discografiche dell’epoca e destinati almeno in parte ai mercati esteri (un largo bacino di potenziali acquirenti era costituito dalle comunità diasporiche italiane presenti soprattutto nei paesi dell’America meridionale), contenevano soprattutto canzoni riarrangiate per l’esecuzione polivocale o specificamente composte per i canterini.

Questo tipo di dinamiche lascia tracce evidenti nell’appropriazione di terminologie e nomenclature di matrice colta (cuntrétu, chitarra, cuntrubassu, bassu) – pur assimilate con slittamenti semantici –, nonché nei repertori cantati oggi dalle squadre che possono essere letti attraverso un’articolazione tripartita a seconda della loro derivazione: folklorica (le forme propriamente denominate trallaleri), popolaresca (le canzoni), colta (le arie d’opera). Questa tripartizione si riflette in alcune differenze stilistiche di un certo rilievo leggibili anche a distanza di tempo nella condotta delle parti e nella struttura dei brani, ad esempio con la tendenziale esclusione nelle canzoni e nelle arie d’opera dei ritornelli costruiti su testo nonsense che costituiscono uno degli elementi maggiormente caratterizzanti di questa pratica vocale.

L’assimilazione di tratti colti non si traduce tuttavia nella perdita di una sostanziale autonomia che si declina in una solida articolazione di estetiche di riferimento. Vi è anzi una fortissima rielaborazione e risignificazione che determina l’accentuarsi di peculiarità stilistiche significative: basti pensare alla presenza del contralto maschile o della chitarra, che non hanno equivalenti né in ambito colto e semi-colto, né in ambito folklorico, e che costituiscono certamente uno dei frutti di tale rielaborazione. Inoltre, nonostante vi sia negli anni fra le due guerre una maggior tendenza di alcune squadre a preparare performances “studiate” in occasione di gare ed esibizioni nei luoghi dotati di maggior prestigio sociale, il contesto di riferimento principale rimane quello dell’osteria, del bar, della latteria, dove il canto mantiene aspetti marcatamente ludici che si traducono in una certa libertà nella conduzione delle parti e in ampi margini improvvisativi nell’uso degli abbellimenti, con una conseguente variabilità tra esecuzione ed esecuzione. In sostanza, il trallalero non si trasforma in un genere popolaresco, ma rimane una pratica in grado di generare nuovi modi di cantare insieme, sia rispetto agli antecedenti folklorici, sia rispetto ai modelli colti: rimane cioè espressione di una classe lavoratrice i cui modi di stare insieme e produrre musica non sono pienamente assimilabili alle logiche dei modelli colti e popolareschi.

I brani proposti nei link sono stati eseguiti dai Giovani Canterini di Sant’Olcese, che, attivi dal 1993, sono attualmente una delle squadre di canto più note a Genova. Diretti da Paolo Besagno, i Giovani Canterini di Sant’Olcese, oltre a conoscere e a eseguire regolarmente i repertori consolidati del trallalero, propongono anche brani composti da Besagno nello stile tradizionale. Uno di questi, O trallalero canson de na vitta, è stato portato nel 1996 dalla scquadra al Festival Musicultura (allora Premio Città di Recanati), ed è stato premiato come vincitore. Negli ultimi anni hanno collaborato a diverse iniziative con gli istituti liguri del MiBACT.

Bibliografia essenziale

BALMA, Mauro

1984   ‘Il trallallero genovese: trascrizione e analisi del repertorio di tradizione orale’, Culture musicali, 5-6.

2001   Nel cerchio del canto. Storia del trallalero genovese, Genova, Editore De Ferrari.

BALMA, Mauro e Giuliano D’Angiolini

1984   ‘Il trallallero genovese: trascrizione e analisi del repertorio di tradizione orale’, Culture musicali, 5-6.

2019   Alle origini del trallalero genovese, Udine, Nota.

LEYDI, Roberto

1984   ‘Saggio di discografia delle squadre di canto liguri’, Culture musicali, 5-6.

NEILL, Edward

1984   ‘Il trallallero genovese: storia e caratteri essenziali’, Culture musicali, 5-6.

Parodi, Laura

2018   Trallalero! Il canto di Genova: Storie e testi, Savona, Pentàgora.

 


[1]La composizione esclusivamente maschile delle squadre di trallalero ha finora conosciuto rarissime eccezioni. Attualmente l’unica donna che canta in una squadra di trallalero è Laura Parodi, canterina e autrice di ----- che hanno luogo nelle osterie

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#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle Stampe: i giochi di percorso di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza e Leandro Ventura

Il Gabinetto delle Stampe dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale conserva tra i giochi di percorso una raccolta molto ampia di giochi dell’oca, che vi abbiamo già raccontato nell’appuntamento del 9 aprile. La giornata di oggi è dedicata alle mille varianti che dal gioco dell’oca traggono le loro origini. Percorsi immaginari che ci portano a scoprire il mondo, le rivoluzioni tecnico-scientifiche, gli sport più in voga e gli intenti pedagogici del tempo.
Le tipologie più antiche conservate presso l’Istituto spaziano dalla stampa settecentesca del Pela il chiu a un Gioco del pellegrino ottocentesco, molto originale nel suo genere, fino al Gioco del barone, di cui la raccolta romana conserva alcuni esemplari più recenti.

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Su e giù per Milano, fine XIX secolo, cromolitografia, casa editrice G. Sassi e c., Milano (ICPI, Gabinetto delle stampe)


Dalla fine del XIX secolo si affermano una serie di giochi legati alla tematica del viaggio, dal giro intorno al mondo ispirato all’omonimo romanzo di avventure di Verne, alla scoperta delle “bellezze italiane”, come nel Gioco dei castelli o in Su e giù per Milano, città che compare anche nel Gioco del tramway. Quest’ultima litografia, di fine Ottocento, non è solamente la celebrazione di una conquista tecnica, ma è l’intera città che offre la sua immagine attraverso il tram che della modernità costituiva il simbolo in voga.
Il tema del viaggio si conclude con il Gioco dell’autostrada del sole, che, inaugurata nel 1964 con due mesi di anticipo, racconta una pagina di storia italiana.
Altri giochi di percorso sono invece dedicati allo sport, dalle corse dei cavalli a quelle degli uomini, con corridori di inizio Novecento che si affrontano in una gara di resistenza a piedi. La relazione fra gioco e sport testimonia il legame di continuità fra i due temi. Il giocare è un fenomeno dai confini indefiniti che va dallo sport alle abilità manuali, dalle attitudini logiche fino all’apprendimento didattico.

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Giuoco sport. Gara di resistenza a piedi, 1902-1906, litografia colorata, editore Eliseo Macchi, Milano (ICPI, Gabinetto delle stampe)


Nel gabinetto delle stampe, infatti, una sezione dei giochi da tavolo è rivolta ai bambini con un chiaro fine pedagogico, come si evince già dal titolo Il nuovo giuoco istruttivo del canestro. Lo stesso fine didattico si può cogliere tanto nel Giuoco di Pinocchio quanto in quello del giardino zoologico.
Un ulteriore spazio di azione è quello della trasmissione di messaggi pubblicitari, di cui un chiaro esempio è il gioco di percorso della Bayer, che incornicia i margini della tavola con le immagini delle medicine di sua produzione, dall’aspirina a un emolliente per le vie respiratorie. Il titolo della stampa, mai così attuale come in questi giorni è, ironicamente, Tutti a casa.
L’homo ludens affronta il gioco come un’attività seria, nella quale la formula di introduzione “vuoi giocare?” dispone i partecipanti a rispettare regole precise e condivise. Ancora oggi molti tra i più diffusi i giochi di società riprendono, in nuove attuali varianti, percorsi a caselle che si snodano tra abilità individuali e pura fortuna, capacità di creare e ricreare ogni volta terreni di gioco sempre diversi. Che siano i grandi o i piccoli a fare conto sulle proprie abilità, a misurarsi con il rischio e con la sorte, perdersi in una dimensione diversa dalla realtà attraverso i giochi di percorso è una sfida sempre attuale.

Per provare, potrete stampare e ri-usare due tavole della nostra collezione: avrete la possibilità di viaggiare con la fantasia, affrontando avventure e pericoli inattesi, attraverso un giro del mondo di fine Ottocento; oppure potrete percorrere il mondo fantastico di Collodi, grazie a un Giuoco di Pinocchio della prima metà del Novecento.
Vi diamo appuntamento a giovedì prossimo per la tombola, la dama, gli scacchi e altri giochi conservati presso le raccolte dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.

 

Bibliografia
Stampe popolari italiane dal XV al XX secolo, a cura di P. Toschi, Milano 1968
S. Mascheroni, B. Tinti, Il gioco dell’oca: un libro da leggere, da guardare, da giocare, Milano 1981
Fabbrica d’immagini, gioco e litografia nei fogli della Raccolta Bertarelli, a cura di A. Milano, Milano 1993
R. Callois, I giochi e gli uomini, Milano 2014

Sitografia
http://www.giochidelloca.it/ 
http://graficheincomune.comune.milano.it/ 


Testo e video di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza, con la preziosa collaborazione di Massimo Cutrupi, Marco Marcotulli e Leandro Ventura.

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#LACULTURANONSIFERMA Le parole chiave del patrimonio im-materiale: il Pellegrinaggio (a cura di Simone Valitutto)

Simone Valitutto (Antropologo, Università di Salerno) ci introduce al tema del Pellegrinaggio. 

Di seguito una bibliografia essenziale a cura dell'autore con “classici” dell’antropologia e riflessioni recenti che tratteggiano metodologie d’indagine differenti:

Albera D., Blanchard M. (a cura di), Pellegrini del nuovo millennio. Aspetti economici e politici delle mobilità religiose, Mesogea, Messina 2015

Apolito P., Il tramonto del totem. Osservazioni per una etnografia delle feste, Franco Angeli, Milano 1993

Buttitta I., I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa, Meltemi, Roma 2006

Dupront A., Crociate e pellegrinaggi, Bollati Boringhieri, Torino, 2006 [1993]

Eberhart H., Simonicca A. (2005), Pellegrinaggio e ricerca: tendenze e approcci attuali, in «Lares»71(1), pp. 73-98 2005. 

Faeta F., La madre di fuori. Un pellegrinaggio, l’antropologia e la storia,in Id.,«Questioni italiane. Demologia, antropologia, critica culturale», Bollati Boringhieri, Torino, pp. 171-208 2005

Galasso G., L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Guida, Napoli 2009 [1982]

Gallini C., Il consumo del sacro. Feste lunghe in Sardegna, ILISSO, Nuoro 2003 [1971]

Mazzacane L., Lombardi Satriani L. M., Perché le feste. Un’interpretazione culturale e politica del folklore meridionale, Savelli, Roma 1974

Rossi A., Le feste dei poveri, Laterza, Bari 1971 [1969]

Turner V, Turner E., Image and pilgrimage in Christian culture, Columbia University Press, New York 2011 [1978]

Turner V, Turner E., Il pellegrinaggio, Argo, Lecce 1997

Van Gennep A., I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1981 [1909]

Per orientarsi tra i numerosissimi documentari etnografici che affrontano il tema dei pellegrinaggi nell’Italia centro-meridionale, seguendo prospettive e approcci diversi (Pozzi Bellini: considerato il primo documentario sul tema; Di Gianni: una selezione sull’argomento di uno dei più importanti documentaristi italiani; Mangini: ricerca cinematografica che si slega dal genere documentaristico tout court; Teti: ricerca audiovisiva di un antropologo; Celesia: approccio contemporaneo tra documentario e fiction), segnalo questo elenco:

materiali audio-visivi nel video

Alessandra Celesia

Anatomia del miracolo (2017)

Luigi Di Gianni

La Madonna di Pierno (1965)

Il male di San Donato (1965)

I fujenti (1966)

Il culto delle pietre (1967)

La nascita di un culto (1968)

La Madonna del Pollino (1971)

Montevergine (1971)

Morte di Padre Pio (1971)

Cecilia Mangini

Divino Amore (1964)


Giacomo Pozzi Bellini

Il pianto delle zitelle (1939)

Vito Teti

Polsi (1980)

SS. Cosma e Damiano (1980)

La Madonna del Pettoruto (1981)

La Madonna del Pollino (1981)

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#LACULTURANONSIFERMA. MusichEmigranti. Un archivio e un progetto editoriale dell’Università di Roma “Tor Vergata” di Serena Facci

Quando nel 2013 ho cominciato una ricerca su musica e migrazione a Roma pensavo di essere arrivata in un momento di stabilità rispetto a un processo avviato nei precedenti venti anni.

Ormai diverse comunità si erano sedimentate nella città, avevano creato proprie associazioni, e proprie consuetudini. Avevano ottenuto e talvolta edificato spazi significativi di ritrovo e soprattutto di preghiera, tentato, grazie all’aiuto di molte associazioni, momenti di condivisione culturale con i “vecchi romani”. Le occasioni del fare musica erano molte, soprattutto nelle feste e nei riti.

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Coro della chiesa cattolica Ucraina di S. Sofia. Inaugurata a Roma nel 1969.

Pensavo che potesse essere interessante, e forse anche utile, avviare una ricerca etnomusicologica finalizzata alla realizzazione di un archivio audiovisivo in cui raccogliere un’ampia testimonianza di come il carattere musicale della città fosse cambiato e si fosse, a mio parere, profondamente arricchito.

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Giubileo dei Migranti e dei rifugiati. Piazza S. Pietro, Roma 2016.

Altri del resto avevano documentato diverse esperienze culturali dei “nuovi romani”, come Sandro Portelli con il Circolo Gianni Bosio, per il progetto “Roma Forestiera”, e aveva pubblicato una prima raccolta antologica in CD, Istaraniyeri. Musiche migranti a Roma.
La ricerca dell’Università di ”Tor Vergata” si è incentrata in particolare sulla musica sacra.

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Coro e strumentisti della comunità cattolica Nigeriana.
Festa dei popoli. Basilica di S. Giovanni in Laterano, Roma 2018.

In una città come Roma, così profondamente segnata dalla antica storia religiosa che ne ha fatto da secoli un luogo cosmopolita e abituato alla pluralità delle presenze, i repertori religiosi, e in particolare, cristiani, sono un buon punto di osservazione per comprendere le dinamiche migratorie.
I culti in genere prevedono, in qualunque religione, una organizzazione dei suoni (siano essi considerati musicali o meno) che è chiaramente caratterizzata in senso geo-culturale. Cantillazioni, inni, canti formulaici, musiche strumentali e anche danze inoltre devono essere eseguiti “dal vivo”, coinvolgendo necessariamente cantori o strumentisti, più o meno esperti ma comunque assolutamente necessari alla buona riuscita del rito stesso.

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Processione per la festa di San Michele. Chiesa eritrea ortodossa, Roma 2017.

Insieme ad altri più giovani studiosi siamo quindi saliti su un treno in corsa con l’idea di scattare un’istantanea di cosa stava avvenendo nelle chiese in cui si radunavano le comunità di immigrati per le loro celebrazioni liturgiche.
Insieme a me hanno lavorato dottori di ricerca e dottorandi: Alessandro Cosentino, Vanna Viola Crupi, Maria Rizzuto, Blanche Lacoste, Giuseppina Colicci e molti studenti. Anche una collega dell’Università “Sapienza”, Grazia Portoghesi Tuzi.

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Vanna Viola Crupi con il coro della chiesa Nigeriana.
Festa dei popoli. Piazza S. Giovanni in Laterano, Roma 2014.

Abbiamo verificato l’esistenza di una realtà molto dinamica e nel corso di questi sei anni abbiamo seguito le comunità e le loro attività musicali, esposte continuamente a mutamenti in gran parte caratteristici degli attuali movimenti diasporici (partenze, arrivi, momenti di crisi nei paesi di origine o in Italia, alternanza nella leadership e nella composizione dei cori, ecc.).

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Comunità Ucraina. Commemorazione delle vittime di Holodomor.
Piazza del Popolo, Roma 2017.

Il nostro lavoro è stato sempre confortato dalla disponibilità di tutte le comunità e, nel corso degli anni, abbiamo cercato la collaborazione di altre organizzazioni con le quali condividevamo finalità e idee. In particolare abbiamo stretto una Convenzione con l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del MIBACT e con l’Ufficio Migrantes del Vicariato di Roma.
Abbiamo documentato liturgie domenicali e momenti dell’anno liturgico. In particolare il Natale e la Settimana Santa.

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Chiesa Georgiana ortodossa.
Benedizione delle palme. Roma 2016.

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Comunità Malabarese. Via Crucis, Roma 2015.

Abbiamo seguito diverse comunità in occasione di celebrazioni dedicate a Santi da loro particolarmente venerati. 

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Coriste della chiesa Georgiana. Processione per la Pasqua, Roma 2018

Abbiamo documentato come i repertori musicali, di tradizione scritta o orale, che hanno alle spalle storie talvolta di lunghissima durata siano resi viventi nell’attuale quotidiana pratica religiosa. I vecchi codici e le loro trascrizioni, testimoni della complessa evoluzione delle musiche sacre, assieme a nuovissime composizioni costituiscono un patrimonio immenso e continuamente rimaneggiato, appreso spesso attraverso documenti o tutorial diffusi grazie a Internet, adattato alle capacità musicali dei sacerdoti e dei coristi.

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Lettura cantata delle preghiere. Chiesa rumena ortodossa.
Parrocchia dell’Assunzione di Maria, Roma 2014.

Queste esecuzioni musicali non devono essere valutate in base alla qualità tecnica ed estetica (talvolta peraltro di alto livello), ma piuttosto bisogna misurarne l’efficacia anche in termini sociali.
Spesso i fedeli ci hanno detto che ascoltando i canti in chiesa si sentivano “a casa” oltre che più vicini a Dio.

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Chiesa Georgiana ortodossa.
Saluti alla fine della Liturgia domenicale, Roma 2017.

Quei suoni risvegliano memorie ed emozioni per chi entra in sintonia con loro. Aiutano a riconoscersi, ma nello stesso tempo a dialogare laddove capita di incontrare interesse, come è stato nel nostro caso. Alcuni di noi sono stati direttamente coinvolti anche come musicisti e l’esperienza è stata sempre molto bella sia per noi sia per le comunità e soprattutto per i musicisti con i quali si è creato un rapporto di stima e di maggiore confidenza.

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Alessandro Cosentino e Alípio Carvalho Neto partecipano al concerto del gruppo Malaika, diretto da Cola Lubamba.
Sala Paolo VI, Città del Vaticano 2014.

I coristi e gli strumentisti, che spesso vengono ringraziati dai fedeli alla fine delle funzioni, sono consapevoli dell’importanza del loro ruolo. Pur tra molte difficoltà (svolgendo spesso lavori molto impegnativi) i direttori e le direttrici elaborano e preparano nuovi repertori e i coristi si esercitano, magari ripassando durante il lavoro la loro parte, con l’aiuto di registrazioni arrivate sul cellulare.

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Halena Hromeck e il coro della chiesa Ucraina durante le prove.
Chiesa dei SS Sergio e Bacco, Roma 2020.

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Angela Ndawuky Mayi dirige il coro della chiesa congolese.
Basilica di S. Lorenzo in Damaso, Roma 2015.

Dopo diversi anni abbiamo pensato di dare una visibilità concreta al nostro lavoro e all’importante contributo culturale dei musicisti con cui abbiamo lavorato. MusicEmigranti, per la casa editrice Neoclassica, è una collana di agili libri ai quali sono abbinati documenti audiovisivi che provengono dal nostro archivio, aperta però anche al contributo di altri studiosi.

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Presentazione del libro Esengo. Libreria Griot, Roma 2020.

I volumi sono dedicati a singole comunità o a singoli argomenti che riguardino il rapporto musica e migrazione. In questo modo vogliamo contribuire alla generale riflessione che su questo tema si è da tempo avviata a livello internazionale, ma anche restituire alle comunità, che con tanto interesse hanno collaborato al nostro progetto, i materiali, le narrazioni e le riflessioni che in questi anni abbiamo raccolto grazie al loro contributo. Il primo volume pubblicato è Esengo. Pratiche musicali liturgiche della chiesa Congolese di Roma, di Alessandro Cosentino, frutto di un complesso dialogo tra l’autore e diversi membri della comunità. 

 

Testo di Serena Facci.
Foto di Giuseppina Colicci, Alessandro Cosentino, Vanna Viola Crupi, Antonella Di Cuonzo, Serena Facci, Blanche Lacoste.

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Dal lunedi al venerdi
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