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Articoli filtrati per data: Dicembre 2013

#LACULTURANONSIFERMA. Quarantena di parole. Note dal taccuino nero di Letizia Bindi (Università degli Studi del Molise)

Il primo decreto mi ha colto in Molise, facendo sì che per ragioni complesse vi rimanessi, nonostante il blocco delle attività in presenza e la possibilità di rientrare alla mia residenza. Così, nella mia dislocazione strutturale, tra i tre poli di vita rappresentati dal Molise, la Toscana e la Lombardia, il tempo della mobilità forsennata si è bruscamente arrestato, congelando i diversi pezzi della mia famiglia in luoghi diversi e consegnandoci un tempo di lavoro a distanza e affetti in videochiamata. La campagna dove mi trovo a vivere è quella di un territorio che conosco bene, un mio 'campo etnografico', divenuto col tempo un luogo di vita, di amicizie e famiglia. 

Per diverso tempo il virus è rimasto sullo sfondo, per certi versi lontano, nonostante qualche allarme, dal contagio più prossimo. Solo, di tanto in tanto, il timore di qualche quarantena. Eppure questo osservatorio appartato mi pare fornire qualche spunto per una osservazione dell'epidemia da un'area per certi versi periferica, riposta, lontana rispetto alle grandi mobilità e ai poli più a rischio, con le sue dinamiche difensive e simboliche.
Come in tutto il Paese, il tappeto informativo è stato e resta imperversante, ad alimentare quel contagio secondo cui “le informazioni ed emozioni si trasmettono da una persona all’altra come si trattasse di un virus”, rilevate e analizzate nelle loro interne dinamiche dagli studiosi della Scuola di Chicago e dai teorici della folla e del condizionamento delle masse (Park-Burgess 1921, ad esempio.) Tuttavia, ciò che qui colpisce è un diffondersi accanto alla comune paura del contagio di un timore del controllo, una osservanza impaurita delle regole sulla mobilità che sembra più dettata dal rischio delle sanzioni che da quello della malattia (Cohen 1971). Si diffondono racconti elaborati, storie esemplari, ribattute in infinite conversazioni telefoniche su persone bloccate sulla via dell'orto o denunciate per aver cercato di andare a prendere il pane per la madre. Un tema frequente è legato alla privacy circa i casi di contagio, rispetto ai quali si scatenano polemiche, perché qualcuno avrebbe fatto i nomi dei contagiati, come se fosse un marchio e non una pratica utile al contrasto dell'epidemia. Si riattiva rispetto al virus quello stigma verso l'untore che prescinde dalla natura della malattia e dalle forme del suo passaggio, ma anche quell’omertà rispetto alla morsa del controllo sociale che fu già oggetto della riflessione degli studiosi degli anni Cinquanta che notavano come vi fosse nelle società contadine “una sfiducia quasi patologica nell’«altro mondo» (quello del governo e della nobiltà paesana che, essi credono, cerca continuamente di ingannarli)” (Friedmann 1952). Un senso diffuso del controllo e della repressione si affaccia, memoria relativamente recente di una condizione subalterna e piena di paura, per molti. Rispetto al rischio di essere bloccati dalle forze di polizia, prevale una rappresentazione sconveniente, criminalizzata. Un'evenienza da evitare con ogni cura, come fosse cosa prossima all'incorrere in comportamenti criminali gravi. Si racconta, ad esempio, che tizio o caio hanno incontrato una pattuglia che ha loro chiesto generalità e motivi dello spostamento. Lo si fa abbassando un poco la voce, come quando nei paesi si narra qualcosa di sapido e sconveniente a carico di una persona. Prevale l'idea che non lo si debba dire, come una vergogna e di fronte a ognuno di questi avvenimenti si rafforza l'idea di dover rimanere a casa per non incorrere in sanzioni.
Si infittiscono le comunicazioni telefoniche, un continuo circuito di chiamate di rassicurazione sullo stato di salute specie all'indirizzo dei parenti trasferiti nel Nord Italia o all'estero. Rispetto a questi prevale preoccupazione e compassione, a rafforzare il senso già persistente di un doloroso e inesorabile destino migrante, di che ha dovuto rinunciare alla vicinanza della famiglia e alla propria terra "pe fatjà". Le relazioni si strutturano in quell’intreccio emozionale e di negoziazioni tra aspettative e negazioni, tipico delle famiglie dislocate a causa delle diaspore (Baldassar 2007, 2014).
La consistenza dell’epidemia appare vaga: le notizie, che pure si ascoltano con una certa attenzione, sembrano non essere comprese a fondo. Soprattutto circa le modalità del contagio non c'è chiarezza, tendendo a pensare a una diffusione aerea del virus e non da prossimità e contatto con superfici, allargando con ciò enormemente l'area della paura e del sospetto. Anche il rapporto ai cibi è soggetto a modifiche. In alcuni di coloro che vivono in campagna cresce la diffidenza verso i prodotti esterni, che già è piuttosto alta in genere, una ricerca se possibile ancora maggiore di autonomia alimentare come a difendersi dal contagio attraverso la non ingestione o contatto con nulla che sia stato prodotto fuori.
Le categorie di contaminato e incontaminato si ispessiscono e complessificano. Cresce il senso di un bisogno di “immunità” che è in primo luogo condizione separata, possibilità di non mescolarsi e di poter stare a casa in sicurezza. Una condizione immune che se è per altri forma del privilegio – come Roberto Esposito ci ha ben mostrato (Esposito 2002) -, nelle aree rurali e periferiche sembra tingersi di una volontà esplicita di evitazione. Si riconferma, nei minuti gesti di ogni giorno, una volontà di protezione del proprio, del sé - contenuto e delimitato corporalmente dal nostro limite, dalla pelle, dalle mucose da proteggere, una sindrome della protezione dei confini del nostro corpo (Canetti 1992) che è metafora della nostra identità personale e traslatamente dell’intero gruppo cui si appartiene (famiglia, località, ceto). Una “regola della purezza” (Douglas 1966, 1970) che non a caso tiene insieme controllo fisico e sociale insieme con un complesso reticolato di evitazioni e continenze che dovrebbero preservarci fisicamente, così come distanziarci socialmente.
Rispetto al fluire delle informazioni si alterna la compulsiva lettura e ascolto di notizie (tra tv e il chiacchiericcio dei social) e un certo rifiuto, ciò per evitare di riceverne messaggi troppo inquietanti e che sembra quasi non si sappiano gestire. 
Diffusamente si affaccia un timore dell'incontro, la condanna di comportamenti troppo sociali, un continuo raccomandare di stare a casa e di evitare ogni forma di contatto. Ogni forma di socialità innovata e di riorganizzazione delle relazioni conseguente all'isolamento viene bollata come frivola o destituita di senso, come nel caso delle chiacchiere di vicinato o dei flashmob o ancora i meeting virtuali che vengono giudicate come leggere e un po' superficiali.
C'è compassione verso i lutti e la solitudine dei malati deceduti senza l'affetto dei loro cari, ma prevale anche una distanza che implode non appena il racconto o le notizie provengono da qualche parente lontano, portando la crisi della presenza e l’angoscia irrelata della perdita nella sfera stessa del familiare (De Martino 1958). Grande è la preoccupazione verso i propri anziani e la responsabilità estrema del garantire loro cure e immunità. In ragione di questo l'osservanza delle regole di esclusione è molto ligia, intrecciata com'è anche a un timore costante delle sanzioni e dell'incontro con le forze dell'ordine impegnate nei blocchi. In molti prevalgono preoccupazioni per il raccolto, essendosi cumulate queste settimane con una prolungata siccità. Si vive questo aspetto e l'impossibilità di collaborare con persone esterne al nucleo familiare in campagna come una grave conseguenza del virus e con la percezione acuta del rischio di una cattiva annata.
In molti hanno visto nella prima sospensione sopraggiunta, quella delle celebrazioni di San Giuseppe, momento alto in molte di queste comunità di incontro e socialità, è come segno di un tempo irrimediabilmente cambiato. “È la fine du munn’”, ho sentito esclamare a più di una persona e subito dopo: “vedrai, quest’anno non esce neanche il Santo”. Nell'intimo delle famiglie si sono conservate alcune pratiche - pasta con la mollica e zeppole di San Giuseppe, osservanza del venerdì di magro per la Quaresima. Ci si telefona, per ricordarsi della festa. Qualcuno porta le zeppole ai genitori anziani, le consegna a distanza, perché lavora fuori e “non vuole rischiare”. Così si mangiano le zeppole da soli e la mollica farcita è sempre troppa, pensata com’era per i pasti familiari e sociali di ‘prima’. Altri insistono sull’anno bisestile come 'annus terribilis' e sfortunato.
Eppure più forte ancora è la preoccupazione circa il rischio di una sanità già fragile e smantellata da progressive e recenti chiusure dei presidi ospedalieri: dal racconto di medici distratti alla preoccupazione per un sistema impreparato all'ordinario prima ancora che all'emergenza. Dalle periferie di una sanità eccellente, dove lo smantellamento del sistema ospedaliero e della sanità pubblica ha toccato livelli profondi di destrutturazione (chiusura di ospedali, sanità commissariata, ritardi colpevoli nell’acquisto anche dei minimi presidi), la percezione unica e sola è che se dovesse arrivare il contagio con prepotenza, qui si sarebbe spacciati. Consapevolezza acuta di una fragilità e distanza che è in primo luogo negazione di piena cittadinanza, marginalità politica e invito implicito, ma neanche tanto, ad abbandonare. 
In molti in queste settimane stanno iniziando a riflettere sull’effetto rivelatore che questa epidemia porta al cuore stesso del sistema neo-liberista, al suo nient’affatto sottile baratto tra massimizzazione dei profitti e rinuncia alla salute che oggi ci si ritorce pericolosamente contro. Ma dai margini dei sistemi economici e con essi anche sanitari, dalle periferie dei “biopoteri” questa percezione diventa una sorta di mesto lamento, una rassegnata presa di coscienza del fallimento “del contratto implicito tra gli Stati moderni e cittadini” che consisterebbe nel “garantire la sicurezza e la salute fisica” o per lo meno adeguata assistenza sanitaria (Illouz 2020). Sale, così, l'insofferenza verso la politica locale tra disillusione e convinzione di insufficienza delle decisioni e azioni intraprese. Eppure, impotente, cresce una sensazione di isolamento e abbandono che è già presente diffusamente nei discorsi e nei sentimenti quotidiani delle persone: senso di essere dimenticati, tralasciati, irrilevanti. “Ch’emm a fá, chess’è”, come in un trito ritornello.
Non ho alcuna pretesa, né intenzione di dire cose definitive su ciò che sta accadendo, rispetto a cui sento, forte, la necessità di riflettere, annotare, studiare. È difficile, infatti, farsi un’idea in queste poche, concitate, seppur immobili settimane, circa le misure adottate – simboliche, pratiche – dalle comunità e dagli individui per gestire e maneggiare la paura e lo straniamento, il contenimento forzato e la percezione di una necessaria rinuncia alle nostre libertà in cambio della nostra incolumità. Dal campo che implicitamente mi trovo ad osservare non mi pare emergere con la forza, a tratti retorica, evocata dai media, un particolare afflato collettivo, uno speciale senso di comunità e di solidarietà. ‘The places left behind’ (Wuthnow 2018) sembrano sentire acutamente la precarietà e il pericolo che potrebbero derivare dalla pandemia. Consapevoli di un destino minore, di una maggiore fragilità dell’assistenza e del sistema dei servizi sembrano sfiduciati sulle possibilità di tenuta nel caso il contagio dovesse loro avvicinarsi maggiormente.
Al contempo incorporano la regola, la rielaborano nelle forme di un potere lontano e vessatorio che segna con le sue pratiche di contenimento i tracciati dei corpi, contenendone le esigenze e i desideri. Allontana i nipoti e i figli dagli anziani, consegnandoli a una cura di sostentamento, in molti casi, fatta di distanze regolamentari e di spese lasciate sulla porta. Toglie la certezza di certi momenti corali di ritrovo: le feste comandate in cui i giovani trasferiti altrove tornano, in cui si è di nuovo in molti intorno alla tavola, che oggi resta vuota. Allontana i vivi dai loro morti, toglie – lo hanno rilevato in molti – la pietas del cordoglio a società che ne hanno fatto il loro modo di non passare con ciò che passa, di non essere travolti e inghiottiti dalla negazione della morte (De Martino 1958). Nell’incertezza e nella paura che attraversa questi giorni, sembra ravvivare sistemi di credenza e di pregiudizio verso i potenziali portatori di contagio, di paura del controllo da parte dell’ordine costituito. La ferita portata al cuore delle comunità delle aree interne, la paura e il disagio, il senso di abbandono, ha scavato in molti un senso di rinuncia e di impotenza. Questo non apre il cuore, al contrario fa temere ancora di più che il poco che resta ne risulti minacciato. Serra le porte.

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Transumanza. Amatrice, 17.09.19 (Ph. L. Bindi)

Pascolamenti-Amatrice-25.01.19-L.-Bindi

Pascolamenti. Amatrice, 25.01.19 (Ph. L. Bindi)

Nel contempo dai territori e dalle comunità con cui lavoro mi giungono ogni giorno telefonate, post, messaggi privati. Con alcuni di loro ho parlato a lungo. Con i pastori, ad esempio, che mi hanno raccontato una loro speciale insofferenza verso l'epidemia: la ridotta mobilità, il crollo del mercato delle carni (c'era la Pasqua alle porte, che ci piaccia o meno), la riduzione drastica degli acquisti caseari in azienda. Solo chi si era già organizzato da tempo con i gruppi di acquisto e la distribuzione di piccolo e medio calibro sta conoscendo un momento di relativa crescita o stabilità delle vendite. Quelli che si erano anche organizzati e ripensati come agriturismi assistono impotenti, come tutto il comparto turistico, a una crisi drammatica di presenze, alla cancellazione delle prenotazioni per la stagione alle porte. Alcuni artigiani, connessi alle attività pastorali, così come alcune aziende agricole, abituate a una discreta vivacità del mercato urbano circostante grazie alla vendita dei loro prodotti biologici e di qualità, mi raccontano la diminuzione degli acquisti a distanza e, ovviamente, l’isolamento totale di queste settimane. Non è detto che questa epidemia porti automaticamente a una nuova consapevolezza in tema di produzioni a filiera corta e a basso impatto ambientale. Ho ascoltato molte conversazioni nei supermercati di paese che inneggiavano ai maggiori controlli della grande distribuzione come una garanzia di maggiore 'pulizia' dei generi alimentari.
E poi c’è la paura di non poter celebrare le feste: la chiamerei – parafrasando Erri De Luca – “il giorno prima della fine della fine della felicità” (De Luca 2017). Una paura che in molti casi si è già trasformata in certezza. Il virus ha spazzato via le calche che in tante occorrenze cerimoniali sono al cuore stesso di quel sentirsi uniti, accalorati ed entusiasti accanto agli altri devoti e partecipanti, quella ostentazione di saper fare e senso della fede che è al cuore stesso di tante pratiche rituali. Ho parlato con gli uomini che corrono sui carri, presi come sono già a difendersi dagli attacchi animalisti e dai problemi inerenti la sicurezza negli eventi pubblici, che oggi più che mai patiscono il blocco imposto dall’epidemia alle loro celebrazioni. Ho parlato con le famiglie che camminano in processione con i loro carri infiorati per le feste di maggio che hanno sospeso dolorosamente la preparazione dei fiori e l’allegra pratica della doma nelle strade di campagna.

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Carrese di San Pardo. Larino, 27.05.19 (Ph. L. Bindi)

Ci siamo confrontati con i colleghi con cui collaboro a progetti comuni: i colleghi sudamericani, con i quali eravamo insieme pochi mesi orsono. Quelli delle fattorie sostenibili e inclusive delle aree amazzoniche e delle terre alte, preoccupati che il virus interrompa i progetti appena avviati dalle loro comunità rurali; quelli delle comunità pastorali della Patagonia che temono più la miseria e l’esproprio giornaliero di terre e risorse da parte delle grandi multinazionali delle carni e della lana che la pandemia virale. Mi chiamano dall'Albania i colleghi e i pastori del Kelmend che sperano strenuamente nelle prospettive della transumanza, nel freddo tardivo di aprile e nella più dura povertà. Non ignari del coronavirus, ma come intirizziti da un altro freddo, quello della marginalità economica e sociale delle aree montuose dell'Europa orientale.

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Agricoltori. Neuquén - Argentina, 13.05.19 (Ph. F. Pilla)

Mi chiama e mi scrive, quasi ogni mattina Edoardo, dal Venezuela, che non ho mai visto e dovevo incontrare a maggio prossimo sulla strada di Sanare, nello Stato di Lara, per percorrere insieme con i buoi aggiogati e infiorati la via processionale di San Isidro Labrador, il santo contadino. Mi dice che inizia a temere, che nel pueblo i contagi sono 77 e i postivi 15 e non sanno che potrà succedere se dovessero aumentare, che la crisi ha messo fuori uso i già lontanissimi ospedali e hanno paura. Poi mi dice che spera che San Isidro ci protegga insieme con “los ancestros guardianes de la tradición” (Pollak – Elz 1994; Vargas 1987) e che io possa essere con loro a festeggiare quest'anno, che ha tante cose e persone importanti da mostrarmi e farmi incontrare.

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San Isidro Labrador: Aspettando la processione. Sanare - Venezuela, 15.05.19 (Ph. E. J. Torrealba)

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San Isidro Labrador: Immagine sacra. Sanare - Venezuela, 15.05.19 (Ph. E.J. Torrealba)

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San Isidro Labrador: Processione. Sanare - Venezuela, 15.05.18 (Ph. E. J. Torrealba)

Alcuni mi chiedono quasi per scaramanzia se penso che avremo o meno superato la crisi per questa o quest’altra data. Molti già sanno che non sarà così.
Io non so rispondere e con loro, nell'imbarazzo storto della mia laicità piena di rispetto per le devozioni, mi convinco di quanto quelle pratiche siano cruciali per loro e per me e come tutti noi, anche chi ne vive lontano, senza saperne o quasi, beneficiamo di quelle pratiche, seppur indirettamente. Archivi di memoria e di senso, varianti del vivere insieme, cangiante repertorio del mondo. Forse, se non veniamo travolti dalla disperazione e dal senso di abbandono, è anche perché c'è questo fondo generativo di speranza e di aspettative che giace ai piedi di ogni assembramento che non sia pura casualità, ma abbia deciso di organizzarsi intorno a un racconto fondativo o a una pratica condivisa. E ogni giorno, tristemente, ricevo sconsolati messaggi che le occasioni festive sono state annullate, a colpi di decreti e di delibere. “Frasi d’amore scritte a macchina” – scriveva anni fa Paolo Conte, per raccontare la freddezza del linguaggio istituzionale applicato a ciò per cui si ha e si è avuto cura e affetto.
Infine penso a ciò che questo tempo mi insegna etnograficamente: alla pausa che mi concede da un compulsivo viaggiare, al tempo che mi da per scrivere note e riflessioni che si sovrappongono al cadenzario usato di consegne accademiche ed editoriali, solo parzialmente modificate dal tempo del “lavoro a distanza”. Nel distanziamento sociale e nella sua ricezione c’è una sfida cruciale per l’etnografia che va ben oltre la dicotomia generativa degli sguardi “da lontano” e “da vicino”. Sfida il cuore stesso dell’incontro etnografico, rendendo ancor più radicale la riflessione metodologica.
Al tempo stesso rifletto sull’insofferenza che provo per tutti gli scritti che parlano di questo tempo come opportunità. Non riesco a pensare al lutto e la morte come occasione per riflettere. Non voglio averne bisogno. Questo tempo non mi piace e non mi appartiene. Sono calma eppure riottosa. Infastidita dal quasi sottile compiacimento che in molti percepisco per l’obbedienza e la conformità alle regole. Resto a casa per responsabilità, ma non ci trovo niente di speciale. Preferisco il tempo della strada e del camminare con gli altri spalla a spalla, fianco a fianco. Il tempo delle mescole e degli assembramenti. Non saprei dire se, come da molte parti ci viene detto e ripetuto, questa pandemia ci lascerà migliori. Al contrario penso che questo continuo riferirsi al cambiamento radicale che essa porterà nelle nostre vite, al senso nuovo di comunità che dovrà veicolare, sia una nuova grande narrazione, una retorica.
Di cambiamenti ve ne saranno, certo. Si è modificata e si cristallizzerà una disponibilità al controllo barattata con una presunzione di maggiore sicurezza che in realtà già serpeggiava in precedenza. Al di là delle promesse, dei ”nessuno resterà escluso” si amplieranno i divari economici e sociali tra lavoratori strutturati e lavoratori precari, tra piccolo commercio fragile e aziende capaci di reggere e riconvertirsi. Non so se cambierà e si farà più inclusivo il nostro sguardo verso il mondo, se davvero vedremo crescere, così come si dice, il “senso di comunità”. Nei paesi, nelle piazze del parlottio leggero, ora vuote e private dello scambio minuto di informazioni e pettegolezzi, ma anche di quel mutuo rincorrersi di rassegnata condivisione delle fatiche e dei dolori sembrano crescere sospetto e difesa, distanza e silenzi.

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Ponte delle Stecche. Lago di Campotosto, 25.01.19 (Ph. L. Bindi)

Nel sommesso scrivere di un pomeriggio di quarantena mi giunge un messaggio da Amatrice, terra sofferente e densa, campo etnografico solo apparentemente sospeso in queste settimane. So quanto il senso di perdita e la sofferenza per ciò che sta accadendo, per l’impermanenza che ci indica possa amplificarsi in una terra in cui i crateri hanno inghiottito le vite e gli affetti, il rapporto al passato e persino la fiducia nel futuro. Tra un messaggio e una voce, tra una registrazione e una fotografia mi inviano i versi severi di Antonio Cannavicci, poeta pastore di Campotosto. Quattro versi in cammino, asciutti e fulminanti.

Nén ci circà.
Nèn ci circà: ci séme fatti véntu,
séme gliu fiatu ca manté la fiara;
ci séme fatti acqua de pianàra,
séme le scuru digliu firmaméntu.

Nelle strade senza più pastori né animali, dove oggi non camminano e non corrono i santi, dove non si festeggia la renovatio annuale della festa non so se troveremo più paese, non so se saremo meno soli, quando, come nell’adagio formulare che chiude questa favola nera, “tutto questo sarà passato”.

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 Carrese di San Pardo. Larino, 26.05.19 (Ph. L. Bindi)

Bibliografia

Baldassar, L. – Merla L. (eds). 2014. Transnational Families, Migration and the Circulation of Care: Understanding Mobility and Absence in Family Life. London: Routledge.
Baldassar, L. 2007. “Transnational Families and the Provision of Moral and Emotional Support: The Relationship between Truth and Distance.” Identities 14(4): 385–409.
Canetti, E. 1992 [1960]. Massa e potere. Milano, Adelphi.
Cohen S. 1985 [1971]. Visions of Social Control. Cambridge: Polity Press.
De Martino E. 1975 [1958]. Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino: Boringhieri.
Esposito, R. 2002. Immunitas. Torino: Einaudi.
Illouz E. 2020. Storie virali. L’insostenibile leggerezza del capitalismo per la nostra salute in “Atlante Treccani”. Fonte Internet: http://www.treccani.it
Park R.E. - Burgess E.W. 1969 [1921]. Introduction to the Science of Sociology. Chicago: The University of Chicago Press.
Pollak-Eltz, A. 1994. La Religiosidad Popular en Venezuela. Un estudio fenomenológico de la Religiosidad en Venezuela. Caracas-Venezuela. San Pablo.
Vargas, C. 1987. Estudio Etnográfico del Comportamiento Mágico Religioso en la Venezuela Contemporánea. Maracaibo-Venezuela: Ediciones Astro Data S. A.
Wuthnow R. 2018. The Left Behind: Decline and Rage in rural America. Princeton: Princeton University Press.

 

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#LACULTURANONSIFERMA: LA NUOVA RUBRICA DI ETNOMUSICOLOGIA A CURA DI CLAUDIO RIZZONI (MiBACT)

Con questo spazio di approfondimento sui riti per la Madonna dell’Arco si inaugura la nuova rubrica dedicata all’etnomusicologia, con la quale si intende mettere in valore i fenomeni etnomusicali come elementi pienamente appartenenti al patrimonio culturale immateriale. La rubrica proporrà documenti audiovisivi corredati da presentazioni a cura di studiosi ed esperti, nonché testi di approfondimento e bibliografie di riferimento relative ai temi trattati.

Fra i riti che si praticano nel periodo della Settimana Santa, quelli a cui è dedicato questo spazio presentano alcune singolarità, la più evidente delle quali è che il momento e la figura intorno a cui si articolano non sono il Cristo e la Pasqua, ma la Madonna e il Lunedì dell’Angelo. Non si tratta, dunque, di veri e propri riti della Settimana Santa, ma di pratiche dotate di una sostanziale autonomia che si sovrappongono a questi ultimi.

Quella della Madonna dell’Arco è una devozione mariana originatasi nel XV secolo e tuttora ampiamente diffusa a Napoli e nei paesi circostanti: i devoti alla Madonna dell’Arco – la cui icona è custodita nell’omonimo Santuario a Sant’Anastasia, paese situato alle pendici del Vesuvio, in provincia di Napoli – si recano in pellegrinaggio al Santuario per onorare la propria fede ogni Lunedì dell’Angelo. Fra loro, sono conosciuti con l’appellativo di “battenti” o “fujenti” coloro che, per voto, estendono la pratica devozionale a una complessa attività rituale collettiva che si svolge nel periodo compreso tra l’Epifania e la prima domenica successiva alla Pasqua, con una notevole intensificazione a partire dal Venerdì Santo. Facilmente riconoscibili grazie all’abito rituale bianco che li contraddistingue, i circa 30.000 battenti, appartenenti generalmente ai ceti sociali più modesti, sono organizzati in più di trecento associazioni sparse nel territorio della provincia di Napoli e della città stessa; il culto, le credenze e le pratiche su cui esso si fonda sono il risultato della stratificazione di diversi elementi (alcuni dei quali di probabile origine precristiana), elaborati nei secoli prima dai bassi ceti rurali dell’agro nolano e in seguito dal proletariato e dal sottoproletariato urbano, in parziale autonomia dalle prassi liturgiche: questa distanza si traduce tuttora in un rapporto tendenzialmente conflittuale tra le gerarchie ecclesiastiche locali e i battenti, che pretendono di gestire autonomamente attività rituali a volte incompatibili con norme e prassi post-conciliari.

Le associazioni dei battenti della Madonna dell’Arco sono espressione di comunità strettamente locali – seppur in ambito urbano – caratterizzate da forti vincoli sociali. L’affiliazione al culto e la conseguente frequentazione di un’associazione riflettono quasi sempre il coinvolgimento degli attori in relazioni sociali – attive soprattutto a livello locale, ovvero nei confini del quartiere – che si strutturano in reti familiari e di vicinato.

Tra le diverse pratiche devozionali che ogni associazione mette in atto, il video che proponiamo documenta il rito della funzione, così chiamato dai devoti perché assimilato a una funzione religiosa: esso consiste in un omaggio o saluto rituale effettuato dall’associazione all’indirizzo un’edicola contenente una statua o un dipinto della Madonna (o di un santo), posta in un luogo pubblico – una piazza o una strada – del quartiere di appartenenza dell’associazione. Il rito, che si svolge in presenza di un pubblico composto dai devoti residenti nel quartiere, prevede che la squadra (così è denominato il gruppo di battenti) metta in atto il saluto all’icona attraverso l’esecuzione di specifici atti coreutici che rispondono a codici e convenzioni sviluppatisi nell’ambito del culto: l’azione coreutica, che prevede il movimento con passo coordinato di gruppi di battenti e il vero e proprio saluto – effettuato facendo oscillare pesanti labari detti “bandiere” e imprimendo un movimento ondulatorio a una macchina a spalla, il tosello – è scandita dalla pulsazione regolare fornita dalla musica suonata da una piccola banda di strumenti a fiato e percussioni (la divisione musicale), che accompagna la cerimonia per la sua intera durata. La centralità delle pratiche musicali nel dispositivo rituale, già evidente nel ruolo di sostegno funzionale all’azione rituale che svolgono i brani suonati dalle divisioni musicali, non è peraltro limitata a questo aspetto: la fase apicale della funzione è infatti caratterizzata dall’esecuzione di canti monodici, tra cui un richiamo di questua (voce) di tradizione orale, a cui i battenti attribuiscono la valenza di un atto attraverso il quale esprimere e trasmettere ai devoti e alla Madonna il turbamento emozionale che connota (o che dovrebbe connotare, secondo gli orientamenti e le aspettative dei battenti) l’esperienza religiosa; gli stessi brani suonati dalle divisioni musicali, poi, non rispondono a una logica puramente funzionale, né meramente estetica, ma anche ad associazioni di carattere simbolico tra la musica e le azioni rituali eseguite.

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Proprio questo tipo di associazioni costituisce uno degli elementi sui quali gli attori possono intervenire per adattare il sistema di “costruzione di significati”, che prende forma attraverso la messa in atto del rito, a istanze specifiche, manipolandolo e integrandolo con altri elementi della cultura storicamente dati. La capacità del rito di costruirsi attraverso continue stratificazioni di elementi che rafforzano il rito stesso – attraverso riferimenti a domini simbolici anche estranei a quello propriamente devozionale – è particolarmente evidente se si prende in considerazione, accanto alla presenza di sequenze che prevedono l’esecuzione di inni religiosi comunemente utilizzati per accompagnare le processioni in Italia, quella che caratterizza l’ultima fase del rito, in cui il saluto all’icona della Madonna viene ripetuto, accompagnato questa volta da una versione strumentale de La leggenda del Piave.

Come è noto, il brano è uno fra quelli più eseguiti nel corso di cerimonie istituzionali, in particolare per accompagnare parate militari; ed è proprio quello della parata un modello che, seppur non riconosciuto esplicitamente dagli attori locali, appare avere evidenti influenze sull’azione coreutica messa in atto in questa fase, durante la quale sembrano accentuarsi nel rito i caratteri di un dispositivo funzionale alla auto-rappresentazione della squadra – e per metonimia dell’intera comunità di vicinato – come gruppo coeso, dotato di articolazioni e gerarchie, in grado di esprimere un proprio apparato cerimoniale che in piccolo riproduce i simboli del potere dello Stato.

Alcuni degli elementi che caratterizzano i riti per la Madonna dell’Arco li ritroviamo di frequente in Italia e in area euro-mediterranea. La performance coreutica con la presenza di labari e crocifissi ricorre spesso in ambito processionale (ad esempio in alcune processioni liguri è tuttora diffuso l’uso di far “ballare” i crocifissi); il trasporto di macchine a spalla nell’ambito di feste e processioni è poi talmente diffuso da costituire un elemento altamente caratterizzante dell’intero ambito festivo-rituale italiano. La peculiarità dei riti qui descritti sta piuttosto nel loro carattere proliferante e decentrato che li rende più difficilmente controllabili dalle istituzioni civili e religiose, e più facilmente “risignificabili” dalle comunità che li praticano; un elemento, quest’ultimo, che contribuisce fortemente al mantenimento del capitale simbolico ad esse associato.

Nel video allegato: funzione di Pasqua davanti alla casa di una devota, Ponticelli, 31-3-2013.

Bibliografia

De Matteis, Stefano

2011     La Madonna degli esclusi, M. D’Auria, Napoli.

De Simone, Roberto

2010     Son sei sorelle: rituali e canti della tradizione in Campania, 7 CDs included, Squilibri, Roma [1st ed. 1979].

De Simone, Roberto and Mimmo Jodice

1974     Chi è devoto: feste popolari in Campania, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.

De Simone, Roberto, Annabella Rossi and Marialba Russo

1974     Immagini della Madonna dell’Arco, De Luca Editore, Roma.

Rizzoni, Claudio

2017a“Tradition and Refraiming Processes in the Madonna dell’Arco Rituals in Naples”, in Francesco Giannattasio and Giovanni Giuriati (eds.), Perspectives on a 21st Century Comparative Musicology: Ethnomusicology or Transcultural Musicology?, Nota, Udine: 158-175.

2017b“From the Piazza to the Screen. Observations on the Spread of YouTube and its Use among the Madonna dell’Arco Battenti in Naples”, Philomusica on-line, Nota, XVI, 1: 199-223.

 

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#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle Stampe: il gioco dell’oca di Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza e Leandro Ventura

Tra le quattordicimila incisioni conservate nel Gabinetto delle Stampe dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, una cospicua sezione è dedicata al gioco. Oggi ci avvicineremo, in particolare, a una selezione di tavole relative al “gioco dell’oca”.

Presente già nell’antica Cina, il gioco dell’oca è menzionato in Italia presso la corte dei Medici fin dal XVI secolo, quando si trova diffuso in due versioni: con 63 o con 90 caselle.
In generale il gioco è organizzato su una tavola di caselle numerate e differenziate dalla presenza di figure simboliche, e necessita di due dadi e di pedine che rappresentano i partecipanti. È prevista una posta in gioco ed il numero di giocatori è libero.
Il giocare è un percorso di balzi e di retrocessioni affidati alla sorte del lancio dei dadi. Caselle di azione, per lo più rischiose, sono: i ponti, i pozzi, le osterie, i labirinti, le prigioni e la morte con la sua falce; meno minacciosa è la fontana la quale decreta il retrocedere del giocatore di qualche posizione. In alcune varianti il ponte offre uno scivolamento positivo, dal quale si avanza se si paga una posta, mentre in altri esemplari il pozzo e l’osteria impongono soste forzate, fin quando non si viene liberati dall’arrivo di un altro partecipante, che i dadi hanno portato su questi numeri. Anche le caselle delle oche rispecchiano lo stesso schema e possono essere vantaggiose o meno.
Nella tavola che presentiamo oggi, una variante per bambini della casa editrice Piccoli di Milano, risalente agli anni Quaranta del Novecento, rischi e aiuti sono collocati lungo il percorso, nelle caselle della volpe, del leone, dell’orso e dell’elefante. Infauste sono le cadute nei numeri del fucile, della rivoltella e del fuoco. Il vero portafortuna in questa tavola per i più piccoli è il numero 13.

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Stampa Gioco dell'oca (© Gabinetto delle Stampe - ICPi)

Le più antiche stampe del gioco dell’oca conservate nella raccolta dell’Istituto risalgono alla metà del Seicento; altrettanto rari sono alcuni giochi dell’oca settecenteschi, uno dei quali dell’editore modenese Bartolomeo Soliani, specializzato nella produzione di xilografie di larga diffusione: non solo giochi, ma anche almanacchi, calendari ed ex libris.
La maggior parte delle stampe, che risalgono alla fine dell’Ottocento o all’inizio del Novecento, consiste in litografie; furono raccolte da Achille Bertarelli per la mostra di Etnografia Italiana che si tenne a Roma nel 1911, in occasione dei cinquant’anni dell’unità d’Italia. Si tratta dello stesso Bertarelli da cui prende nome la nota raccolta civica di stampe milanese ed è proprio questo il motivo per cui le affinità tra le due collezioni sono fortissime.
Risale invece agli anni quaranta del Novecento una litografia sui toni del blu. Si alternano in tal caso le tradizionali figure dell’oca con altre immagini che rimandano a tempi più moderni: il telefono, la radio, la cinepresa. La stampa, insieme ad altri oggetti legati al tema del gioco, fa parte di una donazione dell’antropologa Annabella Rossi.

Il gioco dell’oca, pur se ancora conosciuto e praticato, si è trasformato nel tempo nelle tante varianti dei giochi da tavolo, nei quali i giocatori muovono pedine all’interno di labirinti o serie di caselle; e dunque, se la scorsa settimana avevamo proposto giochi che sperimentavano le competenze manuali attraverso le sagome da ritagliare e da assemblare, questa settimana siamo in un campo di gioco differente. Affrontare il rischio e creare una nuova socialità possono essere gli obiettivi di azione della tipologia di gioco da tavolo di cui abbiamo parlato oggi. Provate e ci saprete dire. Vi invitiamo a stampare e giocare due diverse versioni del gioco dell’oca, l’una più classica di primo Novecento, l’altra degli anni Quaranta, con gli animali nelle caselle. Vi diamo appuntamento a giovedì prossimo per viaggiare all’interno del nostro patrimonio ludico e scoprire altri giochi di percorso conservati presso il Gabinetto delle Stampe dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.


Bibliografia

Stampe popolari italiane dal XV al XX secolo, a cura di P. Toschi, Milano 1968
Fabbrica d’immagini, gioco e litografia nei fogli della Raccolta Bertarelli, a cura di A. Milano, Milano 1993
R. Callois, I giochi e gli uomini, Milano 2014

 

Sitografia

Archivio di Stato di Chieti. Rinvenuta stampa del gioco risalente al 1748, pubblicata online su agcult.it il 12 dicembre 2019

https://archivio.fototeca-gilardi.com/home

http://www.giochidelloca.it/

http://graficheincomune.comune.milano.it/

http://xilografiemodenesi.beniculturali.it/collezioni/la-raccolta-soliani-barelli/

 

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Testo e video di Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza, con la preziosa collaborazione di Stefania Baldinotti, Massimo Cutrupi, Marco Marcotulli e Leandro Ventura. Un ringraziamento alla dott.ssa Maria Ludovica Piazzi, studiosa di grafica.

 

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#LACULTURANONSIFERMA. #Visionidaiterritori: Le feste del Molise. Dalle mappe tematiche alla Settimana Santa di Isernia di Lia Montereale

La chiusura dei luoghi della cultura a causa del COVID-19 e la sospensione di feste ed eventi, non ferma la fruizione della cultura. Anzi, è in questo momento che vogliamo rafforzare l’offerta culturale attraverso una serie di proposte digitali. Anche la conoscenza del patrimonio culturale immateriale, con le sue feste tradizionali, i suoi riti e costumi, con i suoi giochi di ieri e di oggi, con la sua musica popolare e le sue rievocazioni storiche, prosegue con una serie di iniziative per ripercorrere e riscoprire insieme, anche solo idealmente, la varietà delle realtà territoriali.

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I vicoli di Isernia

Allora iniziamo da una regione tanto piccola quanto vitale come il Molise nel centro-sud Italia. Il Segretariato Regionale per il Molise, articolazione periferica del MiBACT, ha creato nove mappe tematiche interattive per divulgare la conoscenza del patrimonio culturale presente nella regione.

Le mappe raccolgono su un'unica piattaforma digitale le informazioni che riguardano il territorio, fornendo al visitatore uno strumento semplice da usare che, attraverso testi, ipertesti ed immagini, racconta e facilita la conoscenza del Molise.

Sono interattive, sono costruite su piattaforma Google, sono utilizzabili sia da dispositivo fisso che mobile e sono dedicate ognuna ad uno specifico tema del patrimonio culturale del Molise. Una mappa è dedicata anche alle feste e alle tradizioni molisane ed è consultabile a questo link:
mappa feste e tradizioni

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Cliccando sul luogo di interesse (tramite menù laterale o direttamente sulla mappa) possiamo sfruttare le potenzialità di google per ricevere le indicazioni stradali, o per ottenere la vista da satellite della località o per sfruttare l' opzione della condivisione, etc. Inoltre, cliccando sul link che troviamo all'interno della maschera di apertura, possiamo approfondire i contenuti che riguardano la festa o la tradizione legata alla località scelta.

Quindi, come si festeggia tradizionalmente in Molise l’attesa della Pasqua? Cosa si mangia? Partiamo da Isernia, città molisana dalle origini antichissime, che dedica ancora particolare attenzione alla Settimana Santa.

Il venerdì Santo ricorda la crocefissione di Gesù e, la processione del Cristo Morto di Isernia, si arricchisce di elementi suggestivi e coinvolgenti attraverso la partecipazione di uomini e donne che indossano una tunica bianca, un cordone rosso intorno alla vita e un cappuccio che non permette di essere riconosciuti.
Alcuni sono scalzi. Sono i penitenti che portano croci e simulacri raffiguranti la passione e la morte di Gesù: le statue del Cristo Morto e della Mater Dolorosa, i busti degli Ecce Homo e le croci. Isernia è molto attenta alla preparazione delle statue grazie alla dedizione e alla devozione delle signore anziane.

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Penitenti, 14 aprile 2006 (Ph. Emilia De Simoni, ICPi)

Sembra di assistere ad una rappresentazione teatrale con i suoi personaggi e la sua scenografia. I colori (nero, rosso, giallo etc.) che ricordano il martirio e la passione di Cristo, i fiori, le vesti e le immagini creano un’atmosfera di intenso raccoglimento e di condivisione della sofferenza. Per saperne di più, è possibile consultare i seguenti link Settimana Santa ad Isernia e significati e simbologie del Venerdì Santo a Isernia.

La festa è anche legata al cibo, e quando arriva la Pasqua un piatto tipico della tradizione è dato dalle Cancelle o Pizzelle conosciute anche come Ferratelle, cialde generalmente a forma di rombo. Questi dolci venivano preparati durante la settimana pasquale, l’epifania o in occasione delle celebrazioni del Santo Patrono, in segno di devozione. Nei paesi dell’Alto Molise venivano utilizzate anche come dolce da offrire ai matrimoni.
Per approfondimenti sui sapori locali molisani clicca su mappa enogastronomia del Segretariato Regionale MiBACT per il Molise.

 

#laculturanonsiferma #lafestanonsiferma #ilpatrimonioimmaterialedelmolise

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#LACULTURANONSIFERMA. Narrazioni da "Italia dalle molte culture" - Sultana Fashion. Un negozio di vestiti e gioielli a Torpignattara (Roma) di Claudia Campisano e Rosa Anna Di Lella

 

Anche con la narrazione di oggi vi proponiamo alcuni frammenti di una ricerca in corso: estratti di interviste etnografiche e di reportage fotografici realizzati nell’ambito della ricerca su “Migrazione e imprenditorialità femminile” a Roma. Più nello specifico, ci addentreremo nel quartiere di Torpingattara, situato nel quadrante orientale della “periferia” romana.

La storia di questo luogo, che fu anche un importante teatro della Resistenza, è caratterizzata da uno sviluppo urbanistico peculiare e da una fase di svuotamento demografico seguita, in tempi più recenti, da una fase di ripopolamento che ha visto protagonisti cittadini provenienti in gran parte dal continente asiatico (vedi: Pompeo 2011, Ficacci 2017, Broccolini 2010, 2017) e, in particolare, dal Bangladesh. Questi processi hanno dato luogo ad un contesto che potrebbe essere definito di “superdiversità” (Vertovec 2007).

In tempi di normalità, passeggiando per le strade di Torpignattara, si viene immediatamente colpiti dalla forte presenza di cittadini provenienti dal Bangladesh i quali, nel corso degli anni, hanno aperto una serie di attività in quella che è stata ribattezzata la “Banglatown” romana. La preponderanza di uomini e donne bangladesi, che si sono qui specializzati nel settore della ristorazione e del commercio, era stata evidenziata, già nel 2009, da una precedente ricerca sul territorio condotta da Alessandra Broccolini (2009), la quale ha mappato e riflettuto sulla grande “vitalità commerciale” del quartiere e incontrato proprietari e gestori di attività commerciali di diverse “comunità” di più o meno recente migrazione.

Nel quadro derivante da questo complesso intreccio di provenienze, ibridazioni e conflittualità abbiamo voluto seguire il tema specifico dell’imprenditorialità femminile, che ci ha portato a osservare più da vicino quelle attività commerciali – soprattutto negozi di abbigliamento – gestiti da donne di origine bangladese. Muovendo dall’esempio delle attività gestite da donne bangladesi nel quartiere di Torpignattara, e seguendo le persone, gli oggetti e la manifestazioni immateriali che li attraversano e vi ruotano attorno, la ricerca vuole restituire un’immagine, seppur parziale, delle geometrie variabili che lo spazio urbano può assumere per queste donne nel processo di renderlo in un certo senso “casa”.

Uno degli obiettivi della ricerca è infatti quello di mostrare come le attività commerciali gestite da imprenditrici straniere rappresentino densi spazi di socialità percorsi da processi di affermazione della propria presenza all’interno del tessuto sociale e territoriale del contesto romano. In contesti di migrazione, i negozi divengono in molti casi importanti nodi sociali, dove gli individui possono trovare risorse, sostegno e informazioni, senza dover necessariamente passare per i canali istituzionali. All’occasione i retrobottega diventano anche spazi abitativi, dove alcuni bangladesi trascorrono parte delle loro vite a Roma, e spazi all’interno dei quali portare avanti iniziative sociali e politiche (Priori 2012). Proprio quest’ultimo aspetto, tuttavia, offre anche uno spunto per riflettere sulle tensioni e i conflitti presenti all’interno della “comunità”, evitando così di cadere nell’errore di immaginarla come un tutto unico e uniforme.

Sebbene il panorama dell’imprenditoria bangladese a Torpignattara veda una netta prevalenza di attività a proprietà e conduzione maschile, le attività di proprietà e/o gestite da donne svolgono un ruolo fondamentale nei processi di integrazione e di affermazione della propria presenza all’interno del tessuto sociale e urbano della Capitale che hanno come protagoniste le donne di origine bangladese. Rintracciare la presenza femminile, più rara e defilata rispetto alla componente maschile nel panorama delle attività commerciali di Torpignattara, ci ha portato a conoscere e a incrociare percorsi di vita di alcune donne probashi (1) che vivono o lavorano a Torpignattara.

Oggi vi presentiamo alcuni estratti dalle interviste realizzate nel negozio di Sultana nei mesi tra giugno e settembre 2019. 

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana è nata in Bangladesh nel 1972 e, nel 1996, all’età di ventiquattro anni, si trasferisce a Roma, a Torpignattara, dove vive tutt’oggi con il marito, in Italia già prima del suo arrivo, e i due figli. Da circa vent’anni Sultana gestisce un negozio di vestiti e gioielli in via Bordoni 25, a Roma.

La scelta di aprire un negozio di vestiti è stata il culmine di un lungo percorso:

"Quando sono venuta in Italia ho visto che la lingua era troppo diversa, non potevo impararla subito. In Bangladesh ho studiato all’università, psicologia, però qui non potevo lavorare con quello che avevo studiato. Ho pensato a tante cose […] piano piano ho imparato la lingua, e ho lavorato un po’ dentro casa, ho studiato, ho aiutato dei signori italiani. Però tutto il tempo, quando i miei figli andavano a scuola, io mi sentivo morire dentro, cosa potevo fare tutto il giorno? Non ero felice, poi mio marito e io abbiamo pensato a qualche lavoro, qualche negozio. Mio marito prima aveva pensato ad un piccolo alimentari, però dopo no, perché dovevamo vendere per forza l’alcool e non volevamo. Allora io ho pensato di portare quel tipo di vestiti. Abbiamo girato in questa zona di Torpignattara e abbiamo visto tanti paesani, anche pakistani, egiziani, tanti musulmani. Poi abbiamo trovato questo negozio, lo abbiamo comprato. Però non è stato facile, perché serviva la garanzia di un italiano, un prestito in banca, non è facile […]. Abbiamo comprato il negozio nel 2001. Dopo 5-6 mesi avevamo tanti clienti e servivano tanti vestiti, e il commercialista ha detto di fare una cosa grande, ho fatto un carico con l’aereo, mi ha dato una mano con la dogana, poi piano piano, adesso è così […] si lavora bene".

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana ci ha raccontato di come l’abito tradizionale rivestisse per lei una grande importanza, descrivendolo come un elemento capace di comunicare la propria appartenenza a un paese, a una cultura, a una società e a una religione; un modo di conoscere il prossimo:

"I vestiti sono molto importanti. I vestiti io penso sono un conoscimento: io sono bangladeshi, io sono musulmana. Questi vestiti dicono “sono musulmana”, mi piace il conoscimento di ognuno dai vestiti. Voi mettete pantaloni e maglietta, questi li mettono in tutto il mondo, solo la faccia dice lei è italiana, lei è peruviana, lei è filippina… però il mio vestito dice no, lei non è italiana, lei è musulmana, lei è bangladeshi [sorride]. Un giorno sono andata a un museo, a Via Nazionale, al Palazzo delle Esposizioni, ho messo il shari, e subito 2 o 3 persone mi hanno detto: “tu sei indiana, bangladeshi?”, io ho detto “sì” [sorride]. Ecco, sono contenta quando mi dicono tu sei bangladeshi tu sei indiana, questo è il mio conoscimento, mi piace questa cosa".

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana ritiene infatti che il negozio sia nato proprio per rispondere a un bisogno di riconoscersi in un contesto di diaspora, alle necessità di esprimere quelli che ha definito “i bisogni della nostra cultura”:

“Questo negozio ha aperto nel 2002 per i bisogni della nostra cultura. I vestiti proprio non c’erano a Roma, quando siamo arrivati noi non c'era niente. Per le nostre feste, il Capodanno o il Ramadan, per esempio, dovevamo mettere i vestiti e qui non c’erano vestiti di tipo indiano […]. Prima ognuno quando andava al nostro paese portava due, tre vestiti. Però non bastava per noi. All’inizio c’era solo poca roba però chi entrava comprava subito, perché erano felici di vedere che i nostri vestiti si trovavano qui in Italia”.

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

I diversi tipi di vestiti che Sultana vende rispecchiano non solo le diverse tradizioni culturali e religiose del suo paese, ma raccontano anche lo scandire dei tempi festivi, rituali e quotidiani e i processi di cambiamento sociale avvenuti nel corso degli anni dovuti a diversi fattori tra cui, ad esempio, le abitudini lavorative:

"Il salwar kamiz, è proprio tradizionale dell’India e del Bangladesh, sono tre pezzi, pantaloni, camicia e foulard, lo mettono proprio tutti. Il shari questa generazione lo mette poco perché è un po’ difficile camminare e lavorare, però pure questo è tradizionale dell’India e del Bangladesh, lo mettono le nostre mamme, le nostre zie, le nostre nonne. Noi lo mettiamo poco perché non posso lavorare, non posso camminarci tutto il giorno, però loro lo mettono tutto il giorno … camminano; pure mia sorella mette il shari tutto il giorno, però qui in Italia è difficile. Pure nel nostro paese adesso è difficile perché tantissime donne sono fuori casa, lavorano, vanno con i bambini a scuola. Mia mamma non veniva a scuola noi, no. Però noi sì, andiamo a scuola con i bambini, però è difficile con il shari, perché c’è la gonna, la blouse, devi girare la stoffa, è difficile. Poi ce n’è un altro, il lehenga, lo mettiamo per le feste, è più elegante. C’è il sharara, pure lo mettiamo per le feste,e pure il gharara, un vestito lungo, lo mettiamo quando ci sono feste grandi, il capodanno, i matrimoni. Poi adesso vendiamo anche questi [indicando quello che indossava], si chiamano abaya. Li vendiamo da tre anni, sono i vestiti dei musulmani, prima non lo vendeva nessuno. Io ho cominciato perché nel 2014 ho fatto il pellegrinaggio in Arabia Saudita, e poi ho pensato posso vendere questo tipo di vestiti […] perché li devo mettere anche io e perché è bello. Non ci sono dal Bangladesh, adesso si vendono bene pure questo tipo di vestiti, vengono tantissime ragazze per comprarli".

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Oltre alla vendita di vestiti, tuttavia, il negozio rappresenta per Sultana uno spazio a metà tra il pubblico e privato, che garantisce un punto di riferimento per la sua “comunità” (sebbene non solo) e soprattutto per le donne:

"Qui vengono tantissime persone per parlare, non solo per comprare i vestiti […] è un punto, come si dice, di ritrovo, sì. Tantissime persone insieme, parliamo, facciamo l’iftar (2), badiamo la casa, mangiamo insieme, portiamo qualcosa dentro il negozio, è una cosa, come si dice, un tipo di festa qualche volta! Più per le donne, perché le nostre donne sono dentro casa, non sanno la lingua, e non sanno dove andare, non conoscono niente. Perché i mariti spesso lavorano mattina e tornano la sera, durante la settimana escono solo una volta col marito […] però questo negozio, se vieni qui trovi altre persone, parliamo insieme, è una cosa bella. Ci diamo consigli, perché qui non c'è la nostra famiglia no? Non conosciamo le persone, anche di altri paesi, è diversa pure la cultura, però quando siamo insieme parliamo la nostra lingua, questo è importante, la lingua è importante. Ecco, sono felice perché vengono tantissime persone e parliamo insieme, e pure loro sono felici".

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Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Sultana ritiene inoltre che il negozio la abbia aiutata ad integrarsi meglio nel tessuto sociale di Torpignattara, in particolare, e italiano, più in generale:

"Da due, tre anni i nostri figli sposano gli italiani e gli italiani sposano i nostri figli, è una cosa bellissima! Io do sempre una mano agli italiani, cosa mettere per essere belli, i gioielli, come ci si deve vestire. Per un’ora o due li aiuto a metterli, e pure loro sono felici. Perché io penso che non devo solo vendere, do una mano perché è un po’ difficile da mettere un shari lehenga. Anche ogni volta che vado alle feste do una mano, devi camminare così, stare così, perché è un po’ difficile… non tutti sono abituati, anche i nostri figli, li hanno messi solo due o tre volte. Prima era difficile lavorare nella zona perché tantissimi italiani non ci capivano, non capivano questi vestiti. Poi piano piano adesso li mettono pure gli italiani […]. Adesso vengono tantissime persone, tantissimi italiani, e questo è importante per noi".

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 Roma, 2019 (Ph. Massimo Cutrupi, © ICPi)

Da questi brevi estratti emerge come il negozio venga a costituirsi come uno spazio denso, nel quale processi di integrazione e affermazione della presenza di intrecciano con percorsi di cambiamento e soggettivazione individuali. Seguendo gli oggetti e le persone che vi transitano all’interno, è infatti possibile tracciare quelle relazioni e interazioni che, lungi dall’essere limitate allo spazio fisico del negozio, legano, seppur non senza conflitti, gli abitanti del quartiere – con le loro diverse storie e origini – tra loro e con i luoghi del vivere quotidiano di Torpignattara.

 

(1). Probashi è il termine generalmente utilizzato in riferimento a coloro i quali lasciano il Bangladesh per stabilirsi all’estero.

(2). L’Iftar è il pasto serale che i musulmani consumano per interrompere il digiuno quotidiano durante il mese di Ramadan.

 

Fonti e approfondimenti

Broccolini, A. (2009) "Lavorare a Banglatown. Attività commerciali e relazioni interculturali nella periferia romana di Torpignattara" in M. R. Carli, G. Di Cristoforo Longo, I. Fusco (a cura di) Identità mediterranea ed Europa. Mobilità, migrazioni, relazioni interculturali, Napoli: CNR-ISSM;

Broccolini, A. (2017) “Patrimonio e mutamento a Tor Pignattara/Banglatown. Voci dai nuovi e vecchi abitanti”, in A. Broccolini, V. Padiglione (a cura di) Ripensare i margini. L’ecomuseo Casilino per la periferia di Roma, Roma: Aracne editrice;

Ficacci, S. (2017) “Da periferia a quartieri: la costruzione di una comunità urbana. Raccontare la storia e la memoria dell’area orientale di Roma nel Novecento”, in A. Broccolini, V. Padiglione (a cura di) Ripensare i margini. L’ecomuseo Casilino per la periferia di Roma, Roma: Aracne editrice;

Pompeo, F. (2011) “Introduzione”, in F. Pompeo (a cura di) Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana, Roma: Meti;

Priori, A. (2012) Romer Probashira. Reti sociali e itinerari transnazionali di bangladesi a Roma, Roma: Meti;

Vertovec, S. (2007) “Super-diversity and its implications”, Ethnic and Racial Studies, 30(6): 1024-1054.

 

  • * * * *     * * * *     * * * *      * * * *
  • Gruppo di ricerca: Rosa Anna Di Lella (funzionario demoetnoantropologo dell’ICPi, coordinamento), Massimo Cutrupi (Fotografo dell'ICPi), Claudia Campisano (Dottoranda in antropologia culturale - Dipartimento Beni culturali e ambientali, Università degli Studi di Bologna).

  • La ricerca è realizzata in collaborazione con il gruppo di lavoro Co.Heritage dell'Ecomuseo Casilino ad duas lauros: 

  • http://www.ecomuseocasilino.it/coheritage/2018/02/20/il-progetto-co-heritage-2018/

 

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#LACULTURANONSIFERMA #VISIONIDAITERRITORI. CO.HERITAGE 2020. Il patrimonio culturale per lo sviluppo, il dialogo e l'integrazione

Oggi inauguriamo una nuova rubrica: #VISIONIDAITERRITORI, un percorso attraverso progetti di tutela, ricerca e valorizzazione sui beni demoetnoantropologici e immateriali, promossi da musei ed ecomusei, soprintendenze e poli museali. Un modo per aprire una finestra sulle tante e diversificate attività che popolano il nostro territorio nazionale. Iniziamo con un progetto dell'Ecomuseo Casilino ad duas lauros di Roma. 

CO.HERITAGE 2020. Il patrimonio culturale per lo sviluppo, il dialogo e l'integrazione

Progetto a cura di: Ecomuseo Casilino ad duas lauros. Team di ricerca Alessandra Broccolini, Stefania Favorito, Stefania Ficacci, Claudio Gnessi, Romina Peritore, Carmelo Russo. Con la collaborazione di Giulia Papa, Giorgio Silvestrelli, Carla Ottoni, Flavio Lorenzoni, Daniele Quadraccia, Cristina Pantellaro e Francesca Castano, Vega Guerrieri.

Premessa
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo afferma che “tutte le persone hanno diritto alla piena partecipazione alla vita culturale” di un territorio. Una partecipazione, come chiarisce poi la Convenzione di Faro, da intendersi non solo come diritto alla fruizione del patrimonio culturale disponibile (sia esso materiale o immateriale), ma anche come necessità di partecipare al suo arricchimento.


Il progetto
Ricerca, partecipazione, innovazione, sostenibilità, formazione, intercultura, governance sono parole che hanno accompagnato la nostra associazione fin dai primi momenti della sua costituzione. Nel 2011 l’idea di realizzare un ecomuseo urbano, nel comprensorio territoriale di Roma-Est, quello Casilino (che comprende i quartieri Pigneto, Tor Pignattara, Marranella, Quadraro, Centocelle, Villa Gordiani) ritenuto dalle istituzioni socialmente ed economicamente marginale, è nata dall’incontro sul territorio di due attori - un team di studiosi di differenti discipline e la cittadinanza attiva – che si trovavano di fronte all’esigenza di costituire un fronte comune per resistere, principalmente, a quell’attacco al diritto di ogni cittadino di godere la piena partecipazione al patrimonio culturale che rappresenta il suo habitus. I progetti che ne sono seguiti hanno sempre mantenuto lo sguardo su questo obiettivo di tutela, ma hanno anche posto numerose domande sugli strumenti di ricerca e di restituzione da adottare, sulle tematiche da affrontare, sui generi e sulle generazioni da coinvolgere.
Domande che si sono tramutate in princìpi guida, che oggi costituiscono gli elementi di narrazione del macroprogetto “Co.Heritage” che, partendo dall’idea che nessuno è ospite del territorio che abita, si pone l’obiettivo di fare in modo che tutte le comunità presenti (senza distinzione alcuna) abbiano la possibilità di salvaguardare, fruire, implementare e promuovere il patrimonio culturale locale. Non quindi una posizione difensiva della ricerca, con l’esclusivo obiettivo di tutelare “ingabbiando” gli elementi costituenti il patrimonio, bensì una funzione attiva, capace di agire nella quotidianità delle comunità. Ci sembra così di accogliere l’invito espresso dalla Convenzione di Faro, ad intendere il patrimonio culturale non come uno spazio di difesa di una presunta identità immutabile, ma come ambito in cui realizzare il dialogo interculturale e intergenerazionale, strumento di valorizzazione delle differenze, mezzo attraverso cui coinvolgere gli attori locali in processi di co-creazione di nuovi modelli di interpretazione, narrazione, governance, pianificazione e sviluppo del territorio.
Questo perché, coerentemente ai documenti sopra citati, la conoscenza del patrimonio culturale è un reale strumento di crescita personale dell’individuo e, di conseguenza, un mezzo concreto per costruire società più inclusive, giuste e democratiche. Questo ragionamento è ancora più importante nei contesti marginali e periferici, laddove purtroppo assistiamo quotidianamente a fenomeni di disgregazione sociale, conflitto e sfilacciamento dei principi democratici basilari. In queste realtà di frontiera, diventa cruciale la ricostruzione di un tessuto culturale comune, proprio a partire da quel complesso stratificato di valori culturali e storici che possono costituire la piattaforma da cui procedere alla costruzione di una nuovo orizzonte sociale democratico e inclusivo.
Attraverso il progetto Co.Heritage, dal 2017 abbiamo avviato una serie di azioni finalizzate a migliorare l’accesso al patrimonio culturale locale, accompagnando le diverse comunità (in particolare anziani, bambini/e e migranti) a scoprire, studiare e a raccontare il territorio, profilando l’attività a seconda delle tematiche che annualmente affiorano dal confronto con le esigenze dei destinatari coinvolti. I luoghi del quotidiano diventano così non solo spazi da attraversare, ma anche luoghi su cui agire, cornice e contenuto di una nuova narrazione al contempo personale e collettiva.
La conoscenza, lo studio e il racconto del patrimonio culturale diventano quindi il motore di un vero e proprio percorso di cittadinanza, che parte proprio dalla riconquista del diritto di essere parte attiva nello sviluppo del territorio. Non più oggetto delle narrazioni altrui, ma soggetti narranti della propria identità, attori del territorio capaci di formulare visioni sullo sviluppo del proprio spazio urbano e quindi orientati a impattare positivamente le policy locali. Attraverso le nostri azioni, quindi, ci poniamo l’obiettivo di costruire comunità più consapevoli e dialoganti, aumentando il senso di appartenenza al proprio territorio e il desiderio di partecipare attivamente alla sua vita civile, culturale e democratica.


Le nostre attività
Chiunque partecipi alle attività promosse dal progetto Co.Heritage accoglie l’idea che un ecomuseo trovi il pieno adempimento nella partecipazione alla vita intima e pubblica delle comunità a cui appartiene, legato da un patto di solidarietà i soggetti che lo compongono, un accordo che consente ad ogni attore di partecipare e promuovere le attività di ricerca, di tutela, di fruizione, di arricchimento e di valorizzazione. Non si promuovono quindi solo attività dirette, ma si accolgono tutte quelle azioni che altri soggetti – singoli cittadini, organizzazioni, imprese artistiche e culturali – esercitano sui territori e nelle comunità che appartengono all’orizzonte dell’Ecomuseo Casilino. Potremmo dire che il progetto Co.Heritage sia nato per promuovere una narrazione corale, in parole più semplici, una condivisione partecipata attraverso la quale ogni attività rappresenta uno scambio di risorse culturali paritario.

Nei tre anni di attività abbiamo incontrato qualche migliaio di persone. Il numero così indefinito sembra enorme, ma ci muoviamo in uno spazio urbano che accoglie circa 170.000 persone (se guardiamo solo ai residenti) e così ci convinciamo che il lavoro fatto fin qui sia solo una parte, solo l’inizio di un progetto molto più lungo e complesso. Tre anni ci sono però serviti per comprendere meglio quali azioni siano sentite come più urgenti dalle comunità: la ricerca di un tessuto culturale che possa diventare un mosaico di identità; la salvaguardia del patrimonio materiale e immateriale artistico, storico e paesaggistico del comprensorio Casilino; la partecipazione della cittadinanza in azioni di rigenerazione urbana e sociale; la narrazione secondo prospettive di storytelling che vengono dal basso e che ridefiniscono le identità imposte da soggetti esterni; la formazione nella ricerca e nella valorizzazione del patrimonio culturale, per il necessario passaggio di testimone fra generazioni. 

Tutte queste azioni si concretizzano in attività svolte sul territorio. Ogni anno Co.Heritage muta a seconda delle necessità e degli stimoli che emergono da tutti i partecipanti, ma restano eventi di riferimento costanti, come le Domeniche dell’Ecomuseo – percorsi guidati che consentono la conoscenza delle risorse culturali presenti nel territorio e la restituzione delle attività di ricerca dei singoli gruppi – le Giornate del Territorio – evento annuale che promuove tavoli di confronto con altre realtà similari presenti in Italia e in Europa – il progetto Inciampi nella memoria – evento annuale promosso in collaborazione con l’Associazione Arte in Memoria per la posa delle “pietre d’inciampo” a ricordo dei deportati dal nazifascismo. Su queste attività si innestano poi i tanti progetti che singoli ricercatori o gruppi di studio portano avanti per singole discipline scegliendo di pari passo le modalità di restituzione e fruizione dei risultati.
Tutte le attività di ricerca possono essere approfondite tramite il web, attraverso il sito www.ecomuseocasilino.it, la pagina facebook Ecomuseo Casilino ad duas lauros, Il canale You Tube Ecomuseo Casilino.


I due documentari – realizzati dai filmakers Greca Campus e Piero Tacconi - sono il resoconto audiovisivo del lavoro svolto dal progetto Co.Heritage nel 2018 e 2019.

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#LACULTURANONSIFERMA Le parole chiave del patrimonio im-materiale: Conservazione e restauro dei beni demoetnoantropologici (a cura di Anna Sicurezza)

 

 

Preservare la testimonianza delle culture popolari europee ed extra-europee presenta in parte dei punti di affinità con le problematiche conservative delle altre tipologie di beni culturali, e in particolare dell’arte contemporanea: i materiali tangibili costitutivi dei beni DEA sono estremamente vari, e richiedono quindi approfondite competenze in più ambiti specialistici del restauro. Si spazia dal tessuto alla ceramica, dal legno alla cartapesta, dal metallo alla plastica, dai materiali lapidei a quelli organici, spesso compresenti a un livello di complessa polimatericità. Si pensi ad esempio ai costumi popolari, agli attrezzi da lavoro, agli arredi domestici, agli strumenti musicali, alle oreficerie, agli ex-voto in cera o dipinti, ai burattini, alle figure presepiali, alle maschere rituali, ai pali totemici. La tipologia di beni DEA materiali che si possono incontrare tanto nella ricerca sul campo quanto in un museo etnografico è vastissima.

Come per ogni altro settore dei beni culturali, la conservazione preventiva e la manutenzione programmata sono i valori primari cui far riferimento prima di giungere a un vero e proprio restauro.

L’ambito DEA richiede la costruzione di una precisa metodologia, che tenga conto della specifica natura di tali beni. L’inserimento del patrimonio culturale etnografico nel campo della tutela costringe ad ampliare la teoria e la prassi del restauro critico. In un bene DEA l’aspetto estetico non è prevalente; oltre alla materia e alla forma dell’oggetto, si deve tenere principalmente conto della sua funzione, del suo significato simbolico e delle tecniche corporali che vi vengono applicate nel suo contesto culturale. La preminenza della funzione sulla materia e sulla forma è un elemento essenziale della cultura materiale ed è testimoniata dall’uso reale degli oggetti rilevati sul campo; è alla luce di tale presupposto che si deve agire anche nel momento di un intervento conservativo.

Bisogna inoltre sottolineare il ruolo di fondo degli aspetti immateriali, che concorrono a definire l’interesse culturale di un bene DEA e che non possono venire né conservati né restaurati, ma documentati e valorizzati. Come preservare dunque i beni DEA immateriali nella loro complessa varietà di danze, musiche, canti, rituali, feste, tradizioni orali narrative? La salvaguardia del patrimonio culturale immateriale può avvenire in primo luogo attraverso la ricerca sul campo, la realizzazione di documentazioni audiovisive e la loro corretta archiviazione, catalogazione e, di nuovo, opportuna conservazione grazie a restauratori specializzati.

In secondo luogo, un modo per preservare un bene immateriale è quello di tutelare e valorizzare i beni materiali ad esso correlati (ad esempio le bandiere di Siena adoperate dagli sbandieratori durante il Palio). Anche in quest’ultimo ambito il restauratore è chiamato ad intervenire.

Un caso interessante da richiamare è quello della corsa dei Ceri che si tiene a Gubbio ogni 15 di maggio e che vede una forte partecipazione corale da parte della comunità eugubina. I Ceri rappresentano lo strumento tangibile di una più ampia cultura immateriale e come tali vanno tutelati.

Gli stessi Ceri di fine Ottocento che ancora oggi corrono durante la festa sono stati oggetto di un intervento locale di restauro. Si tratta di beni in uso, che spesso durante la corsa cadono e si danneggiano. Le macchine a spalla, sorrette dai Ceraioli, vengono usate e usurate nella festa; per quanto si voglia preservarne la materia e la forma, questa è la loro funzione. Il restauro, promosso nel 2011 dal Comune di Gubbio con la supervisione della Soprintendenza territoriale, ha dovuto tener conto di tutti questi aspetti nella ricerca di una soluzione di equilibrio.

L’intervento conservativo sul bene materiale “Cero” ha preservato indirettamente il bene immateriale “Festa dei Ceri”. Una volta alla settimana, inoltre, il cantiere di restauro è stato aperto al pubblico, con una grande partecipazione della comunità locale. Questa condivisione di saperi fra tecnici ed eugubini ha permesso a sua volta la salvaguardia, nel senso antropologico del termine, di un’intera tradizione in sé intangibile.

Il Cero, in quanto strumento d’uso della festa, è sicuramente un bene demoetnoantropologico, e come tale è anche un’opera che riveste senza dubbio un forte valore simbolico, artigianale, religioso, storico-artistico. Non si deve dunque cadere nell’errore di una rigida separazione settoriale degli oggetti della tutela, poiché segnare confini tra le differenti discipline e tipologie di beni non permette di certo una corretta lettura dell’opera nella sua complessità. In generale, è quindi auspicabile e necessario il confronto tra più figure interdisciplinari: il restauratore, l’antropologo culturale, lo storico dell’arte, gli artigiani e i portatori dei saperi locali. Consistono anche in questo le frontiere e le sfide della conservazione dei beni DEA.

 

Bibliografia

-          Anna Luce Sicurezza, I beni culturali demoetnoantropologici. Spunti di riflessione sulla conservazione e il restauro, in «Kermes», n. 100, 2017, pp. 159-160.

-          Daniel Fabre, Il duro desiderio di durare, in «Parole chiave», n. 49, 2013, pp. 31-51.

-          Lo stupore e la meraviglia: i ceri di Gubbio, cronaca di un restauro, a cura di Tiziana Biganti, Perugia 2011.

-          Marina Regni, Roberta Tucci, Le tambourin: instrument de musique populaire italien – utilisation, technologie, conservation, in «Coré. Conservation e restauration du patrimoine culturel», n. 4, 1998, pp. 33-36.

Con la collaborazione di Fabio Fichera, Valeria Trupiano e Leandro Ventura

Foto di Roberto Galasso, Sanio Panfili, Comune di Gubbio e Consorzio Aureo

Un ringraziamento particolare a Tiziana Biganti, Fabrizio Magnani, Matteo Morelli, Roberta Porfiri, Roberta Tucci, al Comune di Gubbio e alle ditte di restauro Ikuvium e Consorzio Aureo.

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Maschere e mascherine. Fenomenologia del distanziamento sociale. Di Alessandra Broccolini (SIMBDEA/Sapienza)

Maschere e mascherine. Fenomenologia del distanziamento sociale.

All'inizio sembrava uno scherzo. Mettere il naso fuori dalla porta di casa e vedere il paesaggio consueto del proprio quartiere deformato, improvvisamente vuoto come non lo si era visto. Niente macchine, niente negozi, quasi nessuno per la strada, niente rumore, niente smog, ma soprattutto il segno più straniante era vedere lo spazio dominato da questi strani oggetti alieni con i quali stiamo imparando a convivere, che sono divenuti strumento quotidiano del cosiddetto "distanziamento sociale": le mascherine. All'inizio mi sembrava uno scherzo, uscire e vedere che là fuori ero l'unica a non portarle, vedere i molti occhi uscire da queste "museruole" dalle forme e dai colori più disparati, a volte nere e pesanti, simili all'armamentario di un inquietante immaginario fetish sadomaso, a volte colorate, gialle, blu, verdi, oppure candide e "sanitarie", celesti, bianche, morbide. Altre volte ancora, "tecnologiche", con mirabolanti filtri colorati, rosso su bianco, azzurro su bianco, dalle forme appuntite come becchi di anatre o di cigni bianchi.

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Foto de "Il Corriere" del 04/04/2020

Volontari che hanno costruito l'ospedale da campo di Bergamo 

 

Un campionario ricco in un paesaggio umano inquietante, apparentemente dominato dalla paura e dalla precauzione di evitare gli altri a tutti i costi, più per non contagiarsi che per non contagiare. Ma sopratutto, oggetti introvabili, invidiati e ormai costosissimi, ordinati e mai arrivati, più spesso venduti sottobanco, oggetti del desiderio. Un giorno mentre facevo la mia consueta fila al supermercato (ormai le uniche occasioni per uscire) un signore di origine cinese (lo capisco dal taglio degli occhi perché è rigorosamente "mascherinato") ne ha regalate un pacchetto da dieci a ciascuno di noi nella fila. Ce le ha date ed è andato via di fretta, come mosso da una missione da compiere. Siamo tutti rimasti un po' sbalorditi con questi pacchetti in mano, un dono inatteso, una generosità mai vissuta in strada da uno sconosciuto.

 

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foto dal web 

 

Ricostruire la "vita sociale" delle mascherine al tempo del "distanziamento sociale", parafrasando un noto lavoro dell'antropologo angloindiano Arjun Appadurai, sarà probabilmente l'esercizio che alcuni di noi faranno nei prossimi mesi. Da oggetto di nicchia lontano dalla vita quotidiana (solo in paesi lontani lo vedevamo usato saltuariamente nello spazio pubblico), oppure simbolo del mondo medico-sanitario, dove al più lo trovavi dal dentista o nei nail centers per la cura delle unghie, la mascherina è divenuto un dispositivo di uso quotidiano che si è guadagnato un suo spazio nella sfera domestica, come in quella pubblica, da appendere all'attaccapanni di casa, ad un angolo della sedia, o nascosto in luogo riparato della casa. Oggetto necessario, ma anche ironico, eccessivo, superaccessoriato. In brevissimo tempo il mercato (occidentale?) lo ha fagocitato, lo ha fatto proprio, ce lo ha restituito trasformato, rivisitato, reinterpretato, investito di significati, scelte, gusti e distinzioni sociali. Dal fai-da-te della sartoria casalinga, da distribuire entro i circuiti di dono vicinale, all'alta moda (la mascherina di Fendi venduta a 190 euro), dalla carta da forno o lo scottex spillato dietro le orecchie, o lo scampolo di una vecchia camicia, alle mascherine sartoriali, dalle mitiche e introvabili FFP3 a quelle colorate di stoffa, per bambini e non. Ci sono anche mascherine per cani e gatti. La mascherina è un oggetto quindi totale, che sta velocemente scalando la classifica del nostro quotidiano, tanto velocemente quanto veloce è la diffusione del virus che dovrebbe fermare.

Ma "mascherina" è diminutivo di "maschera" e la maschera per l'antropologo evoca ben altri scenari, tutt'altro che apocalittici e contaminati, anche se pur sempre eccessivi e finanche "diabolici" se pensiamo alle condanne della chiesa nei confronti del mascheramento, o all'ostilità dei poteri costituiti per la maschera nel mondo folklorico; evoca scenari rituali complessi, performativi, espressivi, creativi; evoca momenti calendariali precisi, i carnevali, scenari di possessione, di comunicazione con il sovrannaturale, ma anche il mascheramento diffuso che percorre il contemporaneo con la fuoriuscita dell'eccessivo nel tempo libero.

 

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Carnevale di Serino, foto di Alessandra Broccolini (2005)

 

Il diminuitivo nel quale questo oggetto è imprigionato esprime una sua collocazione semantica e di uso su un piano differente, ma non lo sottrae al gioco dell'eccesso della maschera e all'occultamento del volto, in una nuova fase di ridefinita identità per un manufatto non più condannato, non più diabolico o sinonimo di falsità, ma simbolo questa volta di ragione, di resistenza al "male", al contagio. Con la mascherina la maschera "si fa volto" ma quando ciò accade, come suggerisce Vincenzo Padiglione "la stagione del cambiamento appare alle porte: emergono ibridi, si rendono immaginabili mutazioni antropologiche. Segno che l’evoluzione procede verso orizzonti imprecisati".

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Il Diavolo di Tufara, foto di E. De Simoni e D. D'Alessandro 2005 ©ICPI

 

Ricordo il momento in cui ho dovuto fare la scelta di metterla, dopo un periodo di resistenza, la difficoltà di reperirle, il pellegrinaggio nelle farmacie a "chiedere" e la soddisfazione quando finalmente le ho trovate sottobanco in un negozio bangladese del mio quartiere. Ricordo la percezione di "sacralità" del primo giorno, la prima uscita, lo straniamento, ma anche la veloce abitudine che ho fatto al "mascherinamento". Cosa faccio: la metto ? Sentire il proprio respiro, sentirsi uguali agli altri con questa pseudo-protesi facciale. La maschera coincideva ormai con il mio volto pubblico.

Ma è legittimo domandarsi, al di là della creatività individuale o collettiva (come ad esempio le produzioni fai-da-te dei laboratori tessili donate al paese), se e in che modo cambiano o stanno cambiando le relazioni sociali e interpersonali con queste nuove protesi, oggetti ossimorici e paradossali delle politiche del distanziamento sociale ? Che ne è delle relazioni quando non si vedono i volti ? Possiamo considerare questi manufatti una forma di costrizione evitante e inibente delle relazioni, o uno spazio agentivo che rimodula e rimette in gioco le relazioni attraverso una diversa forma comunicativa ? Come si rimodulano le prossemiche, le cinesiche (per citare campi a noi cari) con l'entrata in scena di questa protesi facciale "mascherante" che diventa volto ? E come viene interpretata la scelta (quando non è assoluta necessità sanitaria) di non indossarle ? E ancora, in che modo stanno circolando i vari "modelli" tra la gente ? Quali reti di "approvvigionamento" si sono attivate a livello locale e familiare ? Ma più in generale, quali reti del mercato globale si sono attivate e chi ne sta usufruendo, chi ci sta guadagnando ?

La globalizzazione dei mercati ha reso possibile l'attivarsi rapido e simultaneo di diversi macroattori che hanno saturato una offerta (a fronte di una domanda esponenziale) che solo in parte è stata intercettata dai bisogni dell'approvvigionamento medico-sanitario, dando luogo ad una rete di possibilità di reperimento e di circolazione (e anche di dono), che "sulla strada" diventano spazio per l'esibizione di scelte, rivelatori di condizioni economiche, ma anche di reti di contatti personali (per trovarle sottobanco o riceverle in dono) che non sempre coincidono con i parametri classici delle condizioni economiche e sociali. Io stessa ho avvisato la mia rete di amici del quartiere quando le ho trovate.  

Un esercizio etnografico basato sull'osservazione del vissuto quotidiano riserva sorprese. Il primo elemento che si offre all'evidenza è la "normalità", la velocità con la quale l'umanità si adatta (ahinoi?) al nuovo volto delle relazioni sociali nell'era (sarà un'era ?) del distanziamento. Ma si aprono anche inedite dimensioni relazionali, laddove ciò che "prima" era considerato altro, discriminante, discusso e discutibile, diventa ora buona pratica dettata dalle norme (non sempre coerenti e lineari) medico-sanitarie. Diverse mie vicine di casa, in un quartiere con un alta componente di residenti di origine asiatica e mussulmana, sono solite coprirsi il volto con una sciarpa colorata dal colore variabile, una sciarpa spesso alla moda, molto curata, che lascia visibili solo gli occhi, di donne che per questo nella sfera pubblica delle pratiche quotidiane sono soggette a facili esposizioni, imbarazzi relazionali, sbuffi da parte degli "altri", di quelli che vanno "a viso scoperto". Tutti disagi e intolleranze che ora sono completamente saltati, ora che tutti (o quasi) mostriamo in pubblico solo i nostri occhi, ora che a chi non lo fa è forse riservata la stessa sorte di coloro che "prima" erano bersaglio di disagi e (pre)giudizi per il loro apparire in pubblico. Sono soprattutto gli occhi a beneficiare di questo nuovo corso del distanziamento, ora che sembra di essere stati catapultati in uno strano villaggio di alcuni secoli fa, quando il distanziamento tra i generi e le distanze sociali erano rigidi e dettati da regole morali e sociali. Occhi che tornano centrali nella comunicazione. Come si fa a vedere se una persona sta ridendo, per esempio, se non ne puoi vedere la bocca, ma solo gli occhi? E se invece si è alterati per qualche motivo, gli altri lo potranno capire dagli occhi, o da quelle piccole rughine della fronte? Ma non sono le stesse rughe che vengono fuori quando si ride ? Una competenze del genere ci è sconosciuta, dobbiamo fare ancora pratica e sviluppare dei codici condivisi che non lascino spazio a malintesi. Chi ci sarà dietro quella bellissima maschera a becco di cigno ? Chissà poi se si rimorchia di più o di meno dietro una mascherina, o se si viene trattati con più gentilezza in un luogo pubblico, in un negozio, all'ufficio postale, ora che il nostro nuovo volto è visibile solo parzialmente e lo si può solo immaginare dietro la garza. Anche la prossemica offre spunti interessanti. La strada si riconfigura sulla base di un distanziamento che cancella alcune pratiche ma ne definisce altre. Si parla a distanza, si accelera il passo per superare qualcuno per evitare di camminargli a fianco, si compiono con il corpo torsioni indescrivibili per evitare di entrare nel raggio di azione di chi ci viene incontro per la strada, ed è incredibile come sia facile invece riaggregarsi non appena ci si distrae un po', al supermercato, con la signora che ti passa vicino (ma quanto vicino?) per prendere il latte al bancone, mentre tu sei davanti a lei, o nel corridoio dello stesso supermercato, o al bancone del pane, del pesce. Ora che siamo tutti più attenti ai corpi degli altri, che forse "prima" avevamo ignorato, siamo tutti più vigili alle nostre come alle altrui traiettorie, come api alla ricerca del volo perfetto.

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A. Appadurai, The social life of things: commodities in cultural perspective, Cambridge University Press, 1986.

V. Padiglione, "Della maschera. Tracce da un'etnografia della cultura giovanile", in Archivio di Etnografia, n. 1-2, 2016, pp. 29-33.

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#LACULTURANONSIFERMA: LA RUBRICA #LAFESTANONSIFERMA OGGI SUL PALIO DI SIENA

Etnografia del Palio di Siena al tempo del distanziamento sociale

Katia Ballacchino

Nell’Agosto del 2019 il MIBACT ha avviato un progetto volto alla salvaguardia del Palio di Siena strutturando un’azione collaborativa con le comunità e le istituzioni locali, proponendosi di contribuire alla cura del Palio, quale patrimonio culturale locale e nazionale allo stesso tempo, a partire da una comprensione del dispositivo festivo dalla prospettiva degli attori sociali coinvolti. Il progetto, promosso dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo, dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale e dal Servizio VI – tutela del patrimonio demoetnoantropologico e immateriale del Mibact, è condotto in collaborazione con un Comitato Scientifico composto dal Comune di Siena, il Magistrato delle Contrade, l’Università per Stranieri di Siena, l’Università degli Studi di Siena, l’Archivio di Stato di Siena, con la consulenza di esperti esterni.

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Siena, 2019 (ph. Katia Ballacchino)

In questo progetto ambizioso, come antropologa che da tempo si occupa in diverse regioni di sistemi festivi tradizionali e di comunità patrimoniali, sono stata incaricata di condurre la ricerca etnografica ai fini della individuazione degli elementi che costituiscono il patrimonio culturale demoetnoantropologico materiale e immateriale relativo al Palio e alle sue 17 realtà contradaiole. Con la consapevolezza che la densità culturale del Palio di Siena culmina, ma non si esaurisce affatto, nei giorni delle due feste annuali, il periodo di svolgimento della ricerca è stato individuato in un anno (novembre 2019 – ottobre 2020). Si tratta di un’indagine sul campo di tipo immersivo, volta a documentare e interpretare il vissuto e le rappresentazioni del Palio in ambito locale attraverso la produzione di interviste, l’osservazione e la partecipazione alle attività quotidiane delle contrade e nei luoghi e nei momenti socialmente e culturalmente più significativi per i numerosi protagonisti.

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Siena, 2019 - Riunione del Magistrato. I priori delle Contrade (ph. Katia Ballacchino) 

La ricerca, che mi ha vista impegnata con costanza sul territorio senese dallo scorso Novembre – intervistando, documentando e partecipando a rituali quotidiani sia intimi che pubblici di diverse contrade – si è però dovuta interrompere bruscamente i primi giorni di Marzo, per via dell’emergenza sanitaria che la pandemia di Covid-19 ha prodotto con effetti inediti e disarmanti sul nostro paese, come altrove. Ovunque la vita sociale si è arrestata, in un certo senso, e con essa prepotente è arrivata anche l’interruzione della ricerca etnografica che è radicalmente basata sull’incontro con i soggetti interlocutori. Quindi, innanzitutto, la casa che per vivere la quotidianità di contrada avevo preso in affitto nel cuore di Siena – abitazione che prima ancora di avere una via e un numero civico è sita nel territorio di una delle 17 Contrade che segnano profondamente la mappa del centro storico – da allora è rimasta vuota e chissà per quanto lo sarà.

E, con la casa, anche le riflessioni etnografiche si sarebbero svuotate – mi sono subito preoccupata di pensare fin dai primi giorni di isolamento – . E, invece, in tempi di pandemie globali l’etnografia svolta attraverso l’analisi dei media viene in soccorso agli antropologi e sollecita comunque il nostro osservare la contemporaneità, seppure a distanza. Infatti, sorprendentemente nell’ultimo mese molti contradaioli incontrati, le istituzioni con cui ho collaborato e i gruppi frequentati mi hanno spronata a riflettere a distanza sui significati quotidiani delle vite recluse nella città del Palio. Messaggi, mail, post e comunicazioni sui social network, richieste di interviste, etc. hanno occupato parte del mio tempo sospeso di quarantena. È stato come se Siena entrasse a casa mia, nel mio piccolo e intimo mondo che, per un’antropologa abituata a spostarsi da una città all’altra ogni due giorni, non era mai stato più fermo di così.

Ed è stato emozionante vedere catapultare quotidianamente fin dentro le mie mura domestiche romane – e senza averne fatto richiesta – fotografie e video prodotti dagli stessi protagonisti tra le strade deserte e spaesanti di una Siena abituata troppo spesso al turismo, alla movida rumorosa o alla vivace vita associativa rionale. Prima ancora che i media nazionali trasmettessero i canti delle ore 18 emessi dai vari balconi delle case di tutta Italia, quelle stesse strade senesi che stavo imparando a riconoscere – come si fa quando si entra in una fase della ricerca in cui il territorio diventa un po’ familiare – si sono immediatamente riempite dei canti di contrada intonati dalle finestre, senza volti. Non occorre, infatti, affacciarsi quando si canta, perché a Siena certi brani si conoscono a memoria, non servono spartiti o testi scritti, sono canti di uso quotidiano, di vita di contrada o di città come la marcia del Palio o il seguente, che in queste settimane è diventato virale arrivando persino ad essere trasmesso sul sito della BBC e della CNN: “Nella piazza del Campo / ci nasce la verbena / viva la nostra Siena / viva la nostra Siena”.

Ma oltre ai video e alle immagini ricevute da più parti, la mia improvvisata etnografia a distanza ha registrato diverse attività che testimoniano di una determinazione e di un sentimento di unità della città per eccellenza rappresentata come divisa in Contrade, manifestata attraverso le attività delle stesse, che non si fermano. Nei limiti profondi del distanziamento sociale, le Contrade infatti svolgono attività di solidarietà come donare un video laringoscopio per la terapia intensiva al policlinico delle Scotte, o impegnarsi per la consegna quotidiana di viveri ai più bisognosi, insistendo sulla dimensione di mutuo soccorso che le caratterizza. Alcune realtà hanno deciso di decurtare ai contradaioli la quota di sostegno mensile alla Contrada per venire incontro al periodo di crisi, anche economica, che li attende. Il “Comitato Amici del Palio” prendendo in prestito uno stornello senese che recita: Stasera mamma ‘un esco…perché so' in quarantena è triste tutta Siena…ma presto finirà, chiede ai bambini di realizzare degli elaborati “in casa” su Siena e le Contrade. Sui social impazza la condivisione quotidiana di documenti storici testuali, fotografici e video, sulle feste più celebri o la socializzazione di alcune “pillole” di storia senese e paliesca. Persino per il 25 Marzo, data dell’antico “Capodanno Senese” che rappresenta l’apertura ufficiale del periodo paliesco in città, le campane dei 17 Oratori di Contrada a mezzogiorno hanno suonato tutte insieme e il Magistrato delle Contrade ha proposto per l’occasione di “manifestare il proprio attaccamento a Siena esponendo, per l’intera giornata, alla finestra od al balcone di casa la bandiera della propria Contrada, pur abitando nel territorio di una Consorella oppure extra-moenia”. La città si è riempita per un giorno di bandiere anche se qualcuno ha preso la decisione di non esporre la propria in quella giornata ventosa per non sgualcire una bandiera a cui si tiene particolarmente, un oggetto di affezione, spesso cucito a mano settimanalmente dalle donne delle contrade.

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Siena, 2019 - S. Ansano. Inizio anno contradaiolo (ph. Katia Ballacchino)

Ma se è difficile per l’antropologa adattarsi seriamente a un’etnografia senza l’incontro in presenza con gli interlocutori, ancora più difficile è per Siena – come per tutte le città e i paesi caratterizzati da una festa così profondamente innestata nel tessuto sociale – reagire al timore collettivo del rischio di non vedere per la prima volta nella storia recente “la terra in piazza”, come titolava l’antropologo senese Alessandro Falassi un suo noto lavoro sul Palio. Proprio mentre scrivo questo post, infatti, a Siena è stata presa la decisione di annullare tutte le 17 feste titolari delle contrade che si sarebbero dovute svolgere nei prossimi mesi, e di rimandare a metà maggio la scelta definitiva se annullare i due Palii previsti per Luglio e Agosto, posticipare entrambi di qualche mese o proporre entro fine anno l’alternativa di un Palio straordinario. Ma al dolore con cui i Senesi trasmettono la decisione presa all’unanimità dalle contrade e dall’istituzione locale, si aggiunge anche il sentimento di timore per un Palio che senza assembramenti, senza folla, senza la partecipazione di tutti non avrebbe ragione d’essere. “Il Palio è una festa nazional-popolare, Piazza del Campo è il simbolo della democrazia”, spiega il sindaco in un comunicato, specificando che il Palio è una festa per tutti e che sarebbe impensabile, quindi, celebrarlo a porte chiuse.

A Siena, come ovunque, si palesa forte la preoccupazione che per molto tempo la vita potrebbe non tornare ad essere vissuta nel pieno della libertà dello stare vicini, del condividere i momenti di passione comunitaria, quali sono spesso in senso totalizzante le feste. Il Palio è soprattutto questo, lo stare insieme quotidianamente in Contrada e il condividere le emozioni che fanno rivivere il passato e che ipotecano il futuro della comunità attraverso la ritualizzazione annuale della corsa. Il Palio è anche la corsa. Ma la corsa senza i senesi, non avrebbe senso.

In questo momento difficile crollano anche a Siena – che con le sue Contrade racconta in modo emblematico tutta la potenza straordinaria della vita comunitaria italiana – molte delle certezze sul futuro. Certezze che anche l’antropologa si augura di vedere tornare presto impresse sui volti degli interlocutori senesi, perché con una Piazza del Campo vuota anche la ricerca, davvero, rischierebbe di avere come oggetto di indagine più un lutto individuale e comunitario che una festa. Ma anche questo, a ben pensare, sarebbe un dato che evidenzia ancora una volta il valore patrimoniale che il Palio assume per la città e per i senesi.

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#LACULTURANONSIFERMA. #IOGIOCOACASA. Il Gabinetto delle Stampe: le sagome da ritagliare. Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini e Anna Sicurezza

Nell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, tra le varie tipologie dedicate al gioco e conservate presso il Gabinetto delle Stampe, sono ben rappresentate le sagome da ritagliare. Le figurine da scontornare iniziarono a diffondersi tra fine Ottocento e inizio Novecento, grazie all’impiego sempre più ampio della litografia, che permetteva di abbattere ulteriormente i costi di produzione delle stampe; l’acquisto di un gioco su carta era quindi alla portata economica di tutti.

  • Emblematica nelle nostre collezioni è ad esempio la “Bambola da vestire”, una vera e propria donna in miniatura da abbigliare, una volta ritagliata lungo i margini, secondo i canoni della moda di fine Ottocento. La stampa risente molto dell’influenza francese, poiché proviene dallo stabilimento litografico Lebrun-Boldetti, attivo a Milano tra il 1872 e il 1888. Va notato che la sagomina da ricoprire con l’abito non presenta parti nude, in base all’etica del tempo, ma è piuttosto già vestita di una ricca e abbondante lingerie.

  • Le sagome da ritagliare non si limitano alle più classiche bambole, ma spaziano all’interno di più ambiti. Interessante è ad esempio la figura del “Pagliaccio” che, insieme a quella del “Calabrese”, consiste in una marionetta composta di più parti mobili da montare. I colori vivaci della stampa sono quelli tipici dell’editore Eliseo Macchi, che rilevò lo stabilimento litografico di Lebrun e fu attivo a Milano dal 1902 al 1906. Si riconosce infatti il tipico marchio di fabbrica della stella a cinque punte sopra una mezzaluna.

  • A sua volta, l’attività di Eliseo Macchi cessò presto e venne sostituita nel 1925 dalla Marca Stella che prese il suo posto, modificando il marchio nella sola stella, ben riconoscibile ad esempio in due edifici da ritagliare: la “Villetta di campagna” e il “Mulino”. La prima con le arcate sull’atrio d’ingresso e i tipici alberi del paesaggio toscano, il secondo arricchito dai suoi buffi abitanti e dagli animali della fattoria.

  • All’editore Marca Stella rimandano anche alcune stampe legate al tema dei soldatini di carta. Sono presenti ad esempio gli intramontabili “Garibaldini”, così cari all’iconografia popolare, fino agli “Aeroplani” dell’esercito italiano. Dell’editore Nerbini e dello stabilimento litografico Alinari di Firenze sono invece diverse stampe legate al tema della guerra italo-turca (1911-1912). I soldati di entrambe le parti sono rappresentati in vari fogli, una testimonianza rara di un conflitto che la storia italiana ha in parte rimosso, perché ha comportato la conquista coloniale della Tripolitania e della Cirenaica (regioni storico-geografiche della Libia). Dell’editore De Castiglioni sono inoltre dei soldatini di carta che risalgono al primo quarto del XX secolo, molto simili ad altri presenti presso la nota raccolta di stampe “Achille Bertarelli” di Milano. La stessa incisione con la rappresentazione di una banda militare è infine conservata sia nella raccolta milanese che presso l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale: si tratta di una xilografia (incisione su matrice lignea) degli stampatori Remondini di Bassano e risale al 1840 circa, ultimo periodo della loro attività. Le forti analogie tra la raccolta milanese e quella dell’istituto romano dipendono dal fatto che in entrambi i casi fu Achille Bertarelli il principale artefice della scelta delle stampe che vi sono conservate.

  • Un ultimo nucleo di sagome su carta riguarda il presepe e gli elementi che lo compongono. In una serie di litografie in lingua tedesca, non solo si possono ritagliare i pastori, ma anche una fitta vegetazione arborea. Il foglio delle pecorelle, inoltre, risulta in parte ritagliato, perché è stato realmente utilizzato. Tornano infine col tema del presepe le litografie Marca Stella, caratterizzate nuovamente dalle loro colorazioni accese.

  • I giochi ci portano in un campo di competenze molto articolato. Quando parliamo del giocare ci vengono alla mente molte abilità: strategiche, competitive, di socializzazione, capacità di affrontare il rischio e l’azzardo.

  • Oggi vi proponiamo di riflettere su alcune particolari abilità esercitate inizialmente attraverso il ritagliare, ordinare e assemblare. Si tratta di operazioni che mettono in campo importanti competenze manuali, provate fin da bambini nella cornice del gioco. Innanzitutto ci misuriamo con l’uso di uno strumento della vita quotidiana adulta, che ha un grado di pericolo e di rischio: le forbici. Inoltre compiamo le operazioni di assemblare elementi, vestire la bambola, creare una maschera e/o comporre un edificio. Si tratta di azioni che imitano il prendersi cura di se stessi e degli altri, sublimano la realtà e ci proiettano nell’azione attraverso i nostri personaggi. Il giocare sta nella realizzazione del manufatto ma anche nell’azione immaginata con i manufatti.

  • Una volta formati gli “artefatti”, possiamo comporre immaginari di sagome che prendono vita e proiettano ogni giocatore in esercizi di socialità, ricreati ogni volta nei personali spazi di gioco. Inoltre se il giocatore ha la possibilità di sviluppare le azioni con compagni potremmo vedere campi negoziati nei quali le sagome divengono personaggi che collaborativamente e conflittualmente rafforzano e raffinano le qualità del singolo giocatore e i legami di gruppo.

  • Ancora oggi esistono le sagome da ritagliare o le bambole da vestire, spesso trasformate in altre versioni: figure magnetiche con accessori da sovrapporre, i giochi digitali e diffusi in rete. Vi invitiamo oggi a stampare il “Mulino” e la “Bambola” di fine Ottocento, per esercitare i gesti di ritagliare e di assemblare, e per giocare nei vostri personali immaginari.

  • Vi aspettiamo giovedì prossimo per riscoprire insieme il gioco dell’oca.

 

  • Bibliografia 

  • Callois R., I giochi e gli uomini, Milano 2004

  • Toschi P. (a cura di), Stampe popolari italiane dal XV al XX secolo, Milano 1968

  • Inglold T., Making Antropologia, archeologia, arte e architettura, Milano 2019

 

 

Hanno collaborato: Stefania Baldinotti, Cinzia Marchesini, Anna Sicurezza, Leandro Ventura - Montaggio: Marco Marcotulli.

Gabinetto delle Stampe - ICPi

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